Partiamo dalla fine: “Non si tratta di una recensione: è il tentativo di trovare una via d’uscita, di non finire soffocati. È l’unico scrittore contemporaneo per il quale la mia cassa toracica sia risultata insufficiente. […] Si tratta unicamente di gelosia del Mestiere, per non cedere tra un cinquantennio alla prima penna disinvolta questo intimo elogio smodato, sudato col sangue. Signori, questo è un libro per tutti. E occorre che tutti lo sappiano. È un libro per le anime.”
Siamo nel luglio del 1922, a Berlino, e a vergare queste parole è l’immensa Marina Cvetaeva, all’epoca trentenne. Da due giorni – diventati due anni per intensità – si trova dinanzi alla raccolta più importante di Boris Pasternak, Mia sorella la vita, che lui stesso le ha recapitato, a seguito d’una lettera piena d’entusiasmo e una cascata di “Perdonatemi”. Si scusa per non aver compreso il suo talento poetico quando camminavano a fianco: ora vi si vede riflesso con affinità sorprendenti, la voce rotta da un’ondata di singhiozzi che gli salgono in gola. “Com’è stupida e strana la vita!” le scrive nel giugno del 1922, da Mosca, dopo aver letto la sua silloge Verste I. “Un mese fa avrei potuto trovarvi a cento passi di distanza, ed esisteva già Verste […]”.
Di fronte a quella voce, così simile alla sua, per la prima volta nella sua vita, Marina esita: frena il suo solito slancio, consapevole del peso di quello che sta accadendo: una scossa tellurica di altissimo grado. Nel giro di qualche giorno ripercorre la sua storia con Pasternak e si prepara a recensire Mia sorella la vita. Con quel libro in mano (invero un vertice della poesia russa del Novecento), Marina vola. Lo porta con sé in tutti i suoi passi berlinesi, lungo i viali, in metropolitana, allo zoo. Non può più staccarsene:
“Sono precipitata […] come sotto un acquazzone. L’acquazzone: tutto il cielo sopra la testa, come filo a piombo: acquazzone diritto – di sbieco – che penetra – corrente d’aria, disputa di raggi di luce e di pioggia […] Un acquazzone di luce”.
Così titola il contributo che uscirà sulla rivista berlinese “Epopeja”, con il sottotitolo “Poesia di eterno valore”: un’eco moltiplicata all’infinito, una grande pagina di letteratura – e di Vita, con la lettera maiuscola.
L’accostamento all’opera, per Marina, è folgorante, impetuoso, rapido, ripido. Non può che derivarne un volo d’aquila sulle vette, quasi oltre il cielo:
“Pasternak è il pieno spalancarsi: degli occhi, delle narici, degli orecchi, delle labbra, delle braccia. Prima di lui il nulla. È tutte le porte scardinate: nella Vita! E nondimeno, lui più di chiunque altro è da svelare (Poesia degli Intenti. Così Pasternak si comprende malgrado Pasternak seguendo le sue fresche, freschissime tracce. Fulmineo per tutti i suoi cieli che si sgravano dell’esperienza. La tempesta – come unica espirazione del cielo, così come il cielo è l’unica possibilità d’essere della tempesta: l’unica sua arena!)”.
Prima di addentrarsi nelle “sobrie secche delle tesi delle citazioni”, Marina indugia sull’uomo: chi è davvero Pasternak? Non lo conosce che di vista: tre o quattro incontri fugaci a Mosca, tutto qui. Ma ora lo vede splendido:
“Nel suo viso vi è qualcosa di contaminato tra un arabo e il suo cavallo: la diffidenza, la tensione dell’ascolto, e da un momento all’altro… la più totale prontezza della corsa. Un’immensa e insieme equina, selvaggia e timida mobilità degli occhi. (Non degli occhi, ma dell’occhio)”.
Con un tocco magistrale, attraversando quell’occhio, Marina entra nel mistero del poeta-volto: scorge una memoria d’antiche ascendenze caucasiche e va a fonderle con i tratti equini, così creando un essere magico, fusione metamorfica d’un cavallerizzo arabo ed il suo cavallo, un “cavaliere quasi cavallo” (una figura che ritornerà nella sua opera e nel suo epistolario: “cavaliere non è colui che cavalca, cavaliere sono tutti e due insieme” scriverà a Rilke nel 1926 a proposito di San Giorgio).
Bisogna supporre che abbia pensato al purosangue arabo – le cui origini si perdono nella leggenda, veloce quanto il vento, agile, resistente, nevrile, gli zigomi sporgenti e il mento volitivo, lo sguardo acuto, profondo, a tratti sofferto – giacché quei tratti fisici trovano perfetta corrispondenza con lo spirito di Pasternak: la diffidenza, la tensione, la più totale prontezza della corsa.
Sul cavalletto di Marina Cvetaeva c’è Boris Pasternak poeta-volto del Novecento: un essere etereo e visionario, reale e onirico, sospeso e stirato tra la terra e il cielo, in un perenne fremito di timore e coraggio, stato di ascolto e tensione esplosiva. Su quella tela c’è la sua scrittura
“della luce: la definirei così. Egli è il poeta delle luminosità (così come altri lo sono, per esempio delle tenebre). La luce. Eterno valore. – Luce nello spazio, luce nel gesto, tagli di luce (correnti), esplosioni di luce, festini luminosi. Trafiggono, inondano.”
Cvetaeva insegue l’enigma-Pasternak e la sua cavalcata “in sella” alla vita (dei giorni), al giorno (della rivoluzione), nella pioggia. Con acutezza assoluta esamina Mia sorella la vita secondo questi tre nuclei tematici, che nella sua magica penna diventano tre topografie – tre mappe geografiche interiori – con cui ci svela il cuore del poeta.
La sua vita, per Marina, è aria aperta: pochi istanti di presa e poi distacco, movimento – così scorrono i suoi versi sul temporale, sulla siepe, sulla pioggia, sulla dacia, sulla steppa, sulle grondaie, nel silenzio velato di polvere, nella sala da tè, a Kiev, a casa.
“La vita quotidiana per Pasternak è freno, tanto quanto per l’indizio terrestre (l’aderire) è trattenere (trattenersi). Poiché l’atavica attrazione per anime come la sua è senza dubbio – in tutto il suo fulgore – la Fine.”
Cvetaeva si chiede come Pasternak abbia accolto la valanga delle valanghe: la rivoluzione. Non vi sono che pochissimi riferimenti al Diciassette nel suo libro. Solo questo le è chiaro: “Pasternak non si nasconde alla Rivoluzione in nessuna delle cantine degli intellettuali […] L’ha scorta per la prima volta lontano tra le nebbie in un covone che s’impenna, l’ha udita nei gemiti di strade in fuga. Essa si dava a lui (si è data), come tutto a lui nella sua vita, attraverso la natura.”
La natura, per Pasternak, è un dono; in particolare la pioggia. Tutto il libro gronda di pioggia. “Ma non la pioggia-pioggerellina autunnale, sottile! La pioggia-džigit – impetuoso cavallerizzo [del Caucaso] – e non la pioggerella!” Finora – ragiona – i poeti russi hanno scritto della natura attraverso se stessi, hanno scritto sulla natura, ma nessuno ha scritto la natura: per se stessa. “Ed ecco Boris Pasternak. E ci fa meditare su chi scrive che cosa. Una rivelazione: la penetrazione.” È un incanto respirare la solitudine della pioggia pasternakiana: la pioggia della vita (e non dell’uomo sotto la pioggia), attraversarla col doppio-occhio Boris-Marina, e proseguire con i versi sulla pioggia primaverile, le malattie della terra, il nostro temporale, la notte afosa, l’erba. Si coglie la responsabilità d’ogni passo, si colgono gli indizi terrestri d’un sublime dio dei dettagli:
“Mi domanderai chi disponga
che l’agosto sia tanto grande,
chi trovi una minuzia non da poco,
chi si perda nell’ornatura
di una foglia d’acero
e dai giorni dell’Ecclesiaste
non abbia mai smesso
il taglio dell’alabastro.
Mi domanderai chi disponga
che siano le labbra di astri e dalie
a soffrire in settembre.
Che la fine foglia del cìtisi
dalle canute cariatidi
si posi sulle umide autunnali
lastre degli ospedali.
Mi domanderai chi disponga.
– L’onnipotente dio dei dettagli,
l’onnipotente dio dell’amore.
Degli Jagelloni e delle Edvigi”.
In Pasternak il pensiero scava continuamente tunnel sotterranei e di colpo assistiamo ad un’esplosione di luce, epifania “(dall’interno) Ma noi morremo/ con l’oppressione della ricerca nel cuore. In questo distico è insita forse tutta la tragedia dell’essere pasternakiano: l’impossibilità di dissipare […]”
Tutto va elaborato, tutto va rimeditato fino in fondo. Sopraffatta, Marina ripercorre la raccolta, ci esorta a controllare le citazioni, riprende i versi, ci confessa che le fremono le mani dalla voglia di riportarli per intero e fare a brandelli le sue considerazioni affinché Mia sorella la vita possa circolare libera e da sola per i mercati editoriali dell’Occidente. Si sbarazza dagli inutili orpelli, lascia ad altri il compito di esaminare
“gli inconfutabili pregi della poesia di Pasternak (dei metri, del ritmo e così via) […] è cosa che riguarda gli specialisti della poesia. La mia specialità invece è la Vita.”
Marilena Garis