07 Maggio 2018

Ermanno Olmi: l’intervista dimenticata in cui disse, “il compito della politica è quello di portare un po’ di serenità”

Il caso ha una forma di paternità. Ermanno Olmi s’invola verso l’altrove, nel 2018, quarant’anni dopo il film più noto, L’albero degli zoccoli, che nel 1978 ottiene a Cannes la Palma d’oro. Il film più grande, austero, resta, ai miei occhi, Il mestiere delle armi, l’epopea – di corrusca grandezza – di Giovanni delle Bande Nere, il geniale condottiero vissuto nel Rinascimento. Il film è pubblico nel 2001. Qualche anno dopo, nel 2006, Olmi lavora insieme all’editore Mario Guaraldi a una impresa culturale unica: l’edizione facsimilare del De Re Militari di Roberto Valturio, storico alla corte del Malatesta, che tra il 1446 e il 1455 compila il trattato dell’arte bellica più affascinante del tempo, di ogni tempo. Il rapporto è sottolineato da una intervista (che potete vedere qui) di Guaraldi a Olmi, che suona, col senno di poi, quasi come un testamento.

Il mestiere delle armi
Hristo Jivkov è il Giovanni delle Bande Nere ne “Il mestiere delle armi” di Ermanno Olmi

Olmi, infatti, interviene proprio nell’istante in cui le armi esplosive ‘falsano’ la sfida ancora eroica, ‘omerica’ tra gli uomini sul campo di battaglia. Insomma: la guerra era un ‘rapporto’, una ‘relazione’, che le bombarde a lunga gittata – non vedi negli occhi chi uccidi – interrompono, distruggono per sempre. In questi termini Olmi racconta la nascita del Mestiere delle armi. “Per caso ho letto una storia della chirurgia, e arrivati a un certo punto, ecco citato l’episodio in cui un medico segò la gamba a Giovanni de’ Medici perché colpito da una palla di cannone. L’esito fu tragico. Cosa mi colpì? Il fatto che questo giovane di 28 anni, già capo dell’esercito pontificio nel momento in cui si affrontava il dolore straziante di una gamba che viene tagliata, senza gli accorgimenti di oggi (per poter operare con agevolezza a quel tempo c’erano energumeni che dovevano bloccare il paziente), beh, Giovanni de’ Medici cacciò tutti, prese il candeliere e disse al medico, ‘prosegui’. Naturalmente, poco dopo svenne. Da questo fatto, dall’atteggiamento di spregiudicatezza che sembrava una guasconata è nata in me una curiosità: ma questo giovanotto era davvero così? Era stato un ragazzo scavezzacollo, è vero, ma man mano che crescevano i suoi livelli di responsabilità, diventò una persona di altissimo rigore e di elevata competenza. Dopo la sua morte, tutti i grandi capitani di ventura si riunirono per affermare la necessità di eliminare dalla guerra l’arma da fuoco perché avrebbe inquinato ‘l’arte della guerra’ fatta soprattutto di scontro di spada e di strategia. Questi auspici, lo sappiamo, vennero del tutto disattesi, e da quella piccola palla di cannone siamo arrivati al potenziale distruttivo di oggi che nessun auspicio può limitare”. Poco prima dell’intervista, di nitida sapienza, Olmi si lancia in una affermazione formidabile. “Il compito, in questi momento, della nostra classe politica è anche quello di portare un po’ di serenità”. Portare serenità. La parola serenità è una parola in esilio dalla politica: non si accede al Parlamento parlando di serenità. Eppure: di cos’altro abbiamo bisogno? Così, con deliziata tenacia, ancora fresco il corpo e confusa l’anima, Olmi conficca una rosa nel cuore della politica italica.

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