Una lunga scia di sangue misto a petrolio cola, terribile, sotto ai nostri occhi miopi, dentro le geometriche linee di confine della Libia. La sabbia, del deserto e del tempo, insinuandosi, copre i solchi delle ferite. La storia è vecchia, puzza di una guerra lontana, il sangue, poi, ha perso il suo colore e le sue croste. È passato poco più di un secolo da quando Giolitti, ai primi di ottobre, 1911, allungava le mani, in forma extraparlamentare, sulla Libia. Conquistata e riconquistata, colonia italiana. E la guerra, la seconda guerra mondiale. In mezzo, massacri di civili. Spargimenti di sangue e petrolio. La guerra finisce ed è ottobre, del 1960. Enrico Mattei è ancora vivo, sarebbe morto due anni dopo – in volo da Catania, precipita nella campagna pavese, il 27 ottobre. Alcuni tecnici dell’Eni scoprono, tra le dune del deserto, la carcassa di un aereo da combattimento italiano, è il 5 ottobre 1960. E loro sono tecnici della compagnia CORI (Compagnia Ricerche Idrocarburi) del gruppo ENI, impegnato in ricerche petrolifere nel deserto libico. Nella squadra si trova anche Gian Luca Desio, il figlio del famoso esploratore Ardito. A bordo, ancora chiuso nella cabina di pilotaggio, il comandante, ormai uno scheletro mummificato. Sotto un’ala, due cadaveri dei soldati dell’equipaggio, al riparo dal sole. Non ci sono le piastrine di riconoscimento, sono state strappate via dai predoni del deserto. Una mitragliatrice invece rimane, un simbolo senza tempo, ancora sul dorso dell’aereo, probabilmente, senza munizioni, non interessa a nessuno.
Mentre mi racconta la storia senza tempo dello Sparviero, Antonio Zamberletti – autore di gialli e spy-story, due volte semifinalista al Premio Scerbanenco per il miglior noir italiano dell’anno, sceneggiatore e soggettista presso la Sergio Bonelli Editore, sulle testate di Zagor, Dampyr, Nathan Never e Tex – con la pazienza di un monaco, mi mette a parte dei misteri che ancora avvolgono questo velivolo che lui ha visto, fedelmente ricostruito, qualche anno fa, nel museo di Volandia, alla Malpensa. Oggi il modello non è più visitabile, resta, a Volandia, solo una manciata di sabbia e l’impronta del relitto. Faccio un’inutile fotografia. Immagino. Lo Sparviero era un bombardiere leggero, ricognizione a lungo raggio, trasporto tattico e aerosilurante. Sedici metri di lunghezza, apertura alare di venti, alto quattro metri, sei tonnellate di peso, tre motori e quasi duemila chilometri di autonomia. Lo spettacolo che ha ideato Zamberletti, “L’ultimo volo dello Sparviero” affonda le radici nel fatto storico, poi lascia il campo alle ipotesi. La carcassa – uno scheletro con qualche brandello di pelle – di un vecchio aereo di guerra. Così, probabilmente, appare nel deserto, a vent’anni dalla tragedia, lo Sparviero, quando viene ritrovato. Era scomparso, senza lasciare tracce, dopo il decollo dalla base italiana di Berka, in Libia. Base K2 a Berka, un sobborgo di Bengasi.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, lo Sparviero era uno degli aerei da combattimento più impiegati dall’Aeronautica Militare Italiana, il Savoia Marchetti SM 79. Soprannominato dagli inglesi della Royal Air Force il gobbo maledetto per via della sua forma che presenta una gobba sul dorso, dove è situata la postazione del mitragliere, ma anche per la sua incredibile capacità di incassare numerosi colpi e per la difficoltà, che hanno i caccia inglesi, gli Spitfire e gli Hurricane, ad attaccarlo da dietro. Lo Sparviero in questione aveva matricola MM 23881 (dove MM sta per matricola militare) ed era inquadrato nella 278^ Squadriglia Autonoma Aerosiluranti, il cui nome era I quattro gatti ed era schierata in svariate basi in prossimità del Mediterraneo. I quattro gatti hanno come simbolo quattro gatti su un siluro, ideato da un sottotenente della Regia Aeronautica, Alessandro Maffei, e un motto: pauci sed semper immites, pochi ma sempre indomiti. Era il 20 aprile del 1941- una data forte: il compleanno di Hitler – lo Sparviero arriva in Libia. Il 21 aprile – altra data forte: la nascita di Roma – il gobbo maledetto parte per la sua ultima missione. Prima di sparire dai radar. A bordo dello Sparviero sei uomini formavano l’equipaggio: di loro, dei loro resti, non si seppe nulla fino all’ottobre del 1960, quando alcuni tecnici dell’Eni fecero i primi ritrovamenti. Pilota, secondo pilota, osservatore, marconista, motorista e mitragliere.
Chi c’è a bordo dello Sparviero? “Ci sono il capitano Oscar Cimolini, 33 anni, comandante pilota, nato a Trieste il 26 novembre 1908, il Maresciallo Cesare Barro, 27 anni, secondo pilota, veterano della guerra nell’Africa Orientale Italiana. Barro è il più giovane dei marescialli piloti della Regia Aeronautica. Nato a Conegliano, provincia di Treviso, il 16 maggio del 1914, Cesare Barro ha una figlia, e sua moglie aspetta la seconda, che non conoscerà mai suo padre, il Tenente di Vascello Franco Franchi, 29 anni, Regia Marina Militare, osservatore, nato a Fiume l’11 ottobre del 1912, il Sergente Maggiore Amorino De Luca, 26 anni, marconista, nato a Frascati il 7 febbraio del 1915. De Luca ha in tasca una licenza già firmata, ma gli viene ordinata un’ultima missione, il primo Aviere Quintilio Bozzelli, 26 anni, motorista, nato a Pistoia il 5 maggio del 1915. Bozzelli è nell’equipaggio che il 15 agosto del 1940 partecipa all’incursione aerea sulla base navale inglese di Alessandria d’Egitto. Il Primo Aviere Giovanni Romanini, nato a San Polo di Torrile (Parma) il 28 ottobre del 1916”.
Una ricostruzione fedele ed evocativa del disastro dello Sparviero, fino a pochi anni fa, si poteva vedere a Volandia, dove un SM 79 era stato prestato dall’Aereonatica dal 2010, anno di fondazione del museo, fino a novembre 2016, quando è ritornato all’Aereonautica per restauro. Ma – chiedo a Zamberletti – perché ti sei gettato, a capofitto, sulla storia dello Sparviero? “Il relitto esposto non era quello originale, ma la suggestione era enorme. Ho iniziato a informarmi sulla vicenda, che, sinceramente, fino ad allora ignoravo. Lo Sparviero avrebbe dovuto silurare una petroliera inglese. Quello che mi ha colpito di più è stata la marcia dell’aviere Romanini, partito alla ricerca di soccorsi e morto di sete e fatica nel deserto”. Com’era la situazione in Libia? La situazione tattica: attività aeronavale febbrile. Gli inglesi stanno iniziando l’evacuazione del loro corpo di spedizione dalla Grecia sotto continui attacchi aerei italo-tedeschi. Gli aerei italiani partono dalle basi in Sicilia, dalla Libia, da quelle nel Dodecaneso. A Sud di Creta, i ricognitori italiani avvistano un convoglio composto dalle petroliere Breconshire e British Lord e, da almeno quattro navi da trasporto, scortate da unità di superficie, fregate e cacciatorpediniere. In zona, a Sud di Malta, c’è la portaerei Formidable, in navigazione con i suoi settanta intercettori e il suo gruppo da combattimento, composto dagli incrociatori Orion, Ajax e Perth. Le condizioni meteo sulla costa libica sono difficili. Ci sono fortissimi venti da Nord Ovest e visibilità scarsa a causa di nubi basse e densa foschia. Un’altra ricognizione italiana avvista i trasporti inglesi Bankura e Urania con le relative scorte. Alle ore 16 e 50, da Berka, decolla lo Sparviero del Tenente Guido Robone, il quale attacca la petroliera British Lord, colpendola e danneggiandola gravemente, e fa rientro alla base. Con lui dovrebbe decollare il nostro Sparviero, che però ritarda la partenza, forse per problemi a uno dei motori, decollando solo alle ore 17 e 25, senza fare più rientro alla base. Dopo due giorni di ricerche in mare, la 278^ Squadriglia informa il Ministero della Difesa di quanto successo con il seguente comunicato: Comunicato dalla 278^ Squadriglia Aerosiluranti a Ministero Difesa Aeronautica. Comunicasi che giorno 21 aprile at ore 17,25 apparecchio S-79 mm 23881 partito da Berka seguito comando 5^ Squadra Aerea per attacco convoglio scortato segnalato quadratino 5881 precedente rotta Uno-Zero-Cinque velocità otto miglia, non è rientrato. Da questo momento, lo Sparviero e il suo equipaggio sono dati per dispersi. L’unico cadavere ritrovato con la piastrina è riconosciuto dai bottoni dell’uniforme.
“A più di novanta chilometri di distanza dall’aereo, era stato ritrovato il corpo di uno degli uomini dell’equipaggio, Giovanni Romanini, identificato grazie alla piastrina di riconoscimento, che era partito alla ricerca di soccorsi, camminando tra le dune del deserto per almeno quattro giorni prima di crollare, ucciso dalla sete, dal caldo e dalla fatica. Con una borraccia che poteva contenere mezzo litro d’acqua. Il suo corpo era a circa otto chilometri dalla pista di Gialo Giarabub, che porta dalla costa verso l’interno. I corpi di due uomini dell’equipaggio non furono mai più ritrovati. Gli altri quattro vennero riportati in patria”. L’aviere Giovanni Romanini da Parma, classe 1916, camminò per novanta chilometri nel deserto alla disperata ricerca d’aiuto. Ora Romanini è sepolto al Cimitero di Collecchio, mentre i suoi compagni, rimpatriati e rimasti ignoti, senza nome, sono al Sacrario dei Caduti d’Oltremare, a Bari.
L’episodio drammatico presuppone uno scenario più vasto, la Seconda guerra mondiale. “La storia dello Sparviero e del suo equipaggio verrà collocata, infatti, all’interno di un contesto storico molto più ampio. Si inizierà dalla campagna di Libia del 1911 per proseguire con la Grande Guerra e le imprese dei pionieri del volo, per poi entrare nella Seconda Guerra Mondiale. Il tutto sarà documentato in maniera rigorosamente storica, a parte, per ovvie ragioni, gli ultimi momenti dello Sparviero e, soprattutto, la lunga marcia dell’aviere Romanini. Dobbiamo immaginare i suoi pensieri nei novanta chilometri di deserto, da quando lasciò il relitto dello Sparviero, iniziando la disperata missione di soccorso, fino a quando, sparato l’ultimo razzo a illuminare la notte africana, si coricò sulla sabbia, attendendo la fine. Saranno momenti in sospeso sul labile, sottile confine tra l’eroismo di Romanini e il suo dramma, tra la desiderata normalità di un ragazzo di venticinque anni mandato in guerra e la missione che sta compiendo, tra i ricordi di casa, della sua terra, della famiglia e la durezza del deserto africano”. Qual è l’aspetto più problematico nella ricostruzione teatrale? “Ci sono molti aspetti problematici. Ad esempio, nessuno non è mai riuscito a spiegare con certezza come mai lo Sparviero sia finito fuori rotta, terminando il suo volo a quasi quattrocento chilometri di distanza dalla base. Noi ci affideremo chiaramente, nei limiti del possibile, a una documentazione storica ineccepibile, grazie anche all’aiuto dell’Ufficio Storico dell’Aeronautica Militare”.
Quale idea ti sei fatto su come siano andate veramente le cose, su cosa sia andato storto? “Il relitto si trovava a più di 400 chilometri a Sud della base di partenza e di rientro. Si presume che, spinti fuori rotta dal vento forte, i piloti abbiano scambiato il deserto per la superficie del mare, esperienza che hanno riferito equipaggi in volo non strumentale anche in tempi recenti. Terminato il carburante, lo Sparviero ha tentato un atterraggio di emergenza, finendo il suo volo nelle sabbie del Sahara. Romanini avrebbe a questo punto tentato di raggiungere la pista di Gialo Giarabub, l’unico posto dove trovare aiuto, camminando per quattro o cinque giorni tra le dune, percorrendo circa cento chilometri, prima di morire”. Dei sei membri dell’equipaggio, due sono i militari che ancora oggi risultano dispersi; cosa pensi che sia successo loro? “Anche questo è un particolare che nessuno è mai riuscito a spiegare. È probabile che altri membri dell’equipaggio siano partiti alla ricerca di soccorsi, ma siamo nel campo delle ipotesi”. Avete raccolto notizie sui familiari dell’equipaggio dello Sparviero? “Abbiamo svolto diverse ricerche. Sono ancora in vita le due figlie del secondo pilota dello Sparviero, il Maresciallo Cesare Barro di Conegliano Veneto, alla cui memoria è intitolata la locale sezione dell’associazione arma aeronautica, che sta collaborando in maniera entusiastica al progetto”. Come si spiega il fatto che questa vicenda non sia nota come altre tragedie di guerra? “È una vicenda nota soprattutto agli appassionati di storia del volo e della Seconda guerra mondiale. Probabilmente se ne è perso il ricordo nel corso del tempo, è finita con il diventare una delle molte, tantissime tragedie di quella guerra, dalle quali si differenzia, forse, per la marcia di Romanini. Anche se è giusto non dimenticare che sullo Sparviero perso del deserto c’erano altri cinque uomini, ognuno con la sua storia. La seconda figlia del Maresciallo Cesare Barro, ad esempio, non conobbe mai suo padre e la moglie attese per anni notizie del marito, ufficialmente disperso assieme ai suoi compagni di volo”.
Romanini aveva una fidanzata, a Parma, Carla, che attese il suo ritorno per dieci anni prima di sposarsi. Al rientro della salma in Italia, andò al suo funerale, di nascosto, e pianse lacrime amare. Quando è stato ritrovato, il corpo ormai mummificato di Romanini, non aveva in tasca la foto di Carla. La bella Carla. Forse qualcuno aveva rubato anche la sua foto. Il suo sorriso, i suoi begli occhi. Romanini aveva con sé una pistola lanciarazzi – ha forse lanciato l’ultimo razzo prima del sorgere del sole, prima di morire – e indossava due orologi. Forse non era solo durante la marcia, forse il secondo orologio apparteneva ad un suo compagno, che era morto prima di lui. Giovanni, per gli amici Gianni, e Carla erano fidanzati, prima della guerra, erano andati a ballare la notte in cui è nata Giovanna Romanini, la nipote del grande aviere, che è stata chiamata così perché lo zio è stato il primo uomo a prenderla in braccio, quando è nata. A cullarla, teneramente, fra le sue forti braccia.
Linda Terziroli