Sia chiaro. Non rinnego nulla. Mi piace l’acqua calda nella doccia, è meglio che per la carne mi rivolga al macellaio e per la verdura al fruttivendolo – non so uccidere una bestia e non so coltivare l’orto – evviva il dentifricio e lo shampoo. Nonostante alla luce elettrica preferisca il frinire delle candele, riconosco che l’elettricità ha dei vantaggi formidabili: mi piace la birra ghiacciata, non so accendere il fuoco senza dar fuoco a tutto il resto, uso il computer a mo’ di eremo. Per cui – sia chiaro – evviva la civiltà. Però.
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Da anni coltivo l’idea di una collana editoriale che s’intitoli ‘Le regole della felicità’. Sembra un paradosso – e lo è. Si è ‘felici’, dice il tonto, se si può fare ciò che si vuole. In realtà, chi vive in questa realtà sa che, di solito, si è felici facendo quello che vogliono altri. Le ‘regole’ sono quei testi, in ogni tradizione – buddhista, taoista, cristiana, cattolica, ortodossa, ‘pagana’ – che disciplinano il corpo perché divenga una freccia puntata verso il dio, che raffinano la mente per poter accogliere il dio. Alle regole occorre obbedire – per aderire alla felicità più grande bisogna obliare la felicità terrena, misera, minima.
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Ovvio, non sono nato ieri. Se mi applico così tanto con ‘le regole’ significa che sono incapace a seguirle; se mi piace leggere i mistici e i santi, uomini d’azione e dunque di contemplazione, vuol dire che sono incapace a mollare tutto, fare lo scalpo al mondo, e percorrere i deserti. Solo i perversi, i malati, gli infedeli, i lussuriosi maneggiano i libri, mannaggia. Però.
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Forse l’idea della collana editoriale si concretizzerà, vi farò sapere. In questi giorni, in effetti, ho corretto le bozze di un libro che raccoglie le regole dettate da San Francesco. San Francesco è emozionante perché la sua rinuncia al mondo – per esservi dentro con una totalità estrema – è cocente e radicale: rinuncia alla casa, ai vestiti, ai soldi, al sacerdozio, ai libri, alla grammatica. Rinuncia perfino alla ‘regola’ di cui tutti gli ‘ordini’, in quanto tali, devono dotarsi. Nel 1210, infatti, Innocenzo III conferma oralmente la formula vitae di Francesco e dei suoi fratelli, il modo di vivere, che non si consolida in un testo, ma in una manciata di versetti evangelici, questi:
Se vuoi essere perfetto
va’ e vendi ogni bene
dà tutto ai poveri
in cielo è il tesoro
e vieni
e seguimi
(Mt 19, 21)
Afferrate nulla
né bastone né sacca
né pane né denaro
(Lc 9, 3)
Se vuoi seguirmi
annientati
perditi
abbraccia la croce
rintracciami
(Mt 16, 24)
Francesco non voleva altro che questa povertà. Spogliarsi di tutto e aggirarsi, nudo, per il mondo, fiancheggiando Dio. Ma il ‘francescanesimo’, come si sa, è la storia di un tradimento. I ‘fratelli’ germinano, si moltiplicano, hanno bisogno di una regola scritta, i versetti del Vangelo non bastano. Nel 1221 Francesco redige una regola di radiosa durezza. I frati non la accettano. La Regula approvata da papa Onorio III è un’altra, più tenue, scritta nel 1223. Come si sa, Francesco non voleva ‘ruoli’ per i suoi nell’ecclesia – egli stesso lo dimostra, lasciando la guida dell’ordine ad altri, a Pietro Cattani e a frate Elia – ma la pratica dell’obbedienza e dell’insussistenza. I frati, a dire di Francesco, non devono essere sacerdoti – cioè, non possono amministrare il culto – non devono possedere soldi né un riparo sotto cui dormire. Precipizio nella Provvidenza. Francesco, in effetti, dormiva scortato dai ratti.
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Il tradimento nei confronti delle intenzioni del Santo è perfetto, per così dire, nel 1250, quando un francescano viene eletto vescovo, e nel 1288, quando fra’ Girolamo da Ascoli è eletto papa come Niccolò IV.
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Alcuni estremismi di Francesco sono radicali. Francesco è ossessionato dal potere (“Nessuno si appelli ‘priore’… e uno all’altro lavi i piedi”) e dalla povertà: i frati non devono avere immobili (“non appropriarsi di alcun luogo”) e neppure animali (“non tenere con sé o presso altri delle bestie”). Ma la vera ossessione di Francesco è il denaro. “Nessun frate, in qualsiasi luogo e ovunque vada, in alcun modo tolleri né riceva né faccia ricevere denaro, né per vestiti né per libri né come compenso a un lavoro, in nessun caso… perché non dobbiamo reputare il denaro più utile delle pietre. Quelli che lo ritengono migliore delle pietre, il demonio gli lapida gli occhi”. Forza, invece, all’obbedienza verso i chierici, i preti, i vescovi, quelli che amministrano il Corpo di Cristo, precluso al Santo.
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Non avere ruoli e non avere denaro: perché? Perché Francesco vuole un rapporto ‘immediato’, senza mediazioni, con le cose, con le persone, con Dio. Ruolo e Denaro creano relazioni ‘mediate’, in fondo false. Sono ‘regole’ che coabitano con la menzogna. L’amministratore delegato di una azienda parla con i sottoposti in un certo modo: a volte è ammiccante, ‘concede’; altre volte è duro, ‘mette al proprio posto’ chi a posto non vuol stare. Ma: che differenza reale c’è tra l’Ad e il suo sottoposto? Si tratta di un ‘gioco di ruolo’ che si gioca in quella azienda particolare. E basta. Verso chi ha molti soldi, d’altronde, si tende ad avere un rapporto di sudditanza. Perché chi ha molto denaro, si presume, è molto forte, molto bravo, molto scaltro. Può tutto, perché tutto si può comprare – anche la felicità – o la sua parvenza.
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Rifiutare l’egida del denaro e il valore del ruolo è quasi impossibile, chiede coraggio triplo: tutti, se vogliamo il riscaldamento in casa, dobbiamo scucire; tutti abbiamo bisogno di salvaguardare il ‘posto’, non possiamo sputare in faccia al ‘capo’, per avere i soldi adatti a temprare la nostra pallida frustrazione. Che nitida tristezza. La felicità è possibile solo a chi sceglie di non avere nulla, chi obbedisce alla rinuncia. Eccola, la via privilegiata per far fuori i quattro mercanti che vogliono comprarci con due soldi. (d.b.)