Per scrivere sono necessarie poche cose, quasi nulla.
La fermezza – in senso lato, stare fermi, e in senso pieno, essere inflessibili – il pensiero, il tempo. Il supporto può variare. Meglio il foglio di carta, per vergare una ad una le lettere. Il computer deresponsabilizza: non siamo noi i responsabili di quella singola lettera – lo è un tasto.
Per scrivere. Bisogna stare fermi. Concentrarsi. Pensare. Impiegare del tempo. Secondo la norma del mondo, il tempo impiegato per scrivere è ‘sprecato’: in effetti, quel tempo non è denaro, quello scritto, magari, non avrà mai un pubblico, di certo non esiste valuta monetaria in grado pagare il tempo ‘perduto’ a scrivere, la fatica della scrittura.
Per questo, scrivere, oggi, è un gesto di rivolta.
Nessuno sta fermo – tutti corrono, rincorrendo ciò che sfugge. Nessuno pensa – chi si ferma a pensare è perduto, bisogna ‘fare’. Nessuno ha tempo da perdere – il tempo perso è organizzato, da decenni, dalle agenzie di viaggio.
Nel 1936 presso la Libera Accademia del Belgio, un prete, esperto nell’opera di San Tommaso, alto prof a Lovanio, “moralista e sociologo”, Jacques Leclercq, pronuncia un divertito – e sottilmente agghiacciante – Elogio della pigrizia, ora pubblicato da Edb nella deliziosa collana ‘Lampi d’autore’ (pp.54, euro 6,50). Il libro andrebbe distribuito all’entrata delle metropolitane, ai caselli autostradali, negli autogrill. Dopo aver stigmatizzato i crismi della ‘modernità – che è la stessa di oggi – un mondo dove tutti abbiamo, pare, un mucchio di cose da fare e poco a cui pensare, Leclercq, con uno stile tra Seneca e Montesquieu, rimarca la necessità di “pace, silenzio e non aver premura”, perché solo nella sana pigrizia scopriamo chi siamo – che siamo l’alcova dell’Altro, la giungla delle alterità. “E i Magi, credete forse che avrebbero visto la stella, se non fossero rimasti talvolta sulla terrazza della loro casa ad osservare lungamente il cielo? Voi non vedete mai la stella, così come non sentite Dio? Ma guardate ancora le stelle? Restate là, immobili, nel silenzio delle notti, a lasciar scorrere in voi lo scintillio degli astri dalle profondità dei cieli?”. Con fatica sciamanica e voce da pachiderma, quando vado a prendere mio figlio, 15 anni, dalla piscina, alle otto e mezza di sera, insieme ai suoi amici, indico la luna. Ma la vedete? Ma… dico… la vedete? Quel satellite che sembra bello solo se lo vedi dal nostro pianeta, mi rasserena – so che non ho bisogno di cambiare il mondo e di sconfiggere il male: posso sedermi a guardare la luna, a tutelare l’estro della sua falce, per il resto della vita, e morire felice, non ho bisogno di altro.
In un libro del 1995, La lentezza – che devo a quell’Orson Welles di Gianluca Barbera – Milan Kundera, che ha una scrittura ben più feroce di quella, pelosa, di Michel Houellebecq, scrive: “la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuol farci capire che ormai non aspira più a essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata di se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria”. Anche la velocità, per altro, un tempo figliata dall’ispirazione e dalla ‘natura’, eleganza atletica degna di aura, da tempo è ancella della tecnica. Basta guardare allo sport: i cento metri piani si vincono se il ‘tecnico’ studia, grazie all’aiuto di macchine, gli allenamenti più efficaci. Eppure. Il libro di Kundera è di vent’anni fa, quello di Leclercq di ottanta. Oggi la lentezza, la pigrizia, sono diventate fonte di reddito: lo slow, il bio, le spa, gli agriturismi. Si compra la lentezza al supermarket, l’insolito è diventato ovvio, un modo come un altro per far soldi. Su tutto si allunga la mano blasfema del denaro: non c’è più qualcuno che conosca il dono, non c’è più gente che si sprechi per fare qualcosa gratis? Il gratis è la vera rivoluzione, spiazza, fa sentire gli altri scaltri – ma chi è il vero idiota? Meglio una vita dissipata costruendo qualcosa di impossibile che organizzata a produrre denaro: il quale serve per comprare cose utili a dimenticarsi, per un attimo, che siamo corpi che muoiono ad ogni frazione di secondo, che siamo corpi ottusamente storditi dall’infelicità.
Inconsapevolmente, però, Leclercq impiatta il consiglio per il ‘buon governo’. Andare in gita. “Uno dei miei amici un giorno fu promosso, per avventura, alla funzione invidiabile di Ministro del Re… e gli scrissi subito, consigliandogli con vigore che il governo andasse a trascorrere ogni settimana una giornata intera in campagna e dopo aver pranzato sotto la pergola… si adagiassero in un prato verde – un filo d’erba tra i denti – e ascoltassero silenziosamente salire in loro la sapienza eterna della terra avita”. Esito scontato: “Inutile dirvi che il mio consiglio non fu seguito. E voi vedete dove siamo”.
Pigrizia e lentezza sono necessarie al pensiero. A fissare logicamente sulla carta un pensiero articolato riguardo alla nostra natura e alla natura del mondo. Per questo, disprezziamo i poeti. Chi disprezza compra. Nei negozi. Per esistere, un sistema di vita basato sul denaro, ha bisogno di folle ignoranti. (d.b.)