20 Novembre 2021

Dostoevskij, lo scrittore con cui bisogna litigare

Prendete l’opera completa di un genio, togliete tutte le opere che lo hanno reso immortale, rovistate tra i diari, le lettere, i taccuini, se potete frugate nel cestino della carta straccia, poi scegliete i passi e le frasi che vi piacciono di più, oppure (se odiate quell’autore, e si sa che odiare un genio è molto facile) quelli che vi piacciono di meno e che meglio confermano la vostra repulsione. Poi riuniteli in un libro. Bene, se l’oggetto del vostro amore o del vostro odio o della vostra indifferenza è un genio, qualunque tentativo di ridurlo alla vostra misura e alla misura dei vostri giudizi e sentimenti – buoni cattivi o neutri che siano – sarà perfettamente inutile: terminato il massacro, il genio continuerà ad essere quello che è. Cioè un genio.

Come è stato Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

La differenza tra “intelligente” e “genio” è infatti questa: mentre la stupidità diminuisce l’intelligenza dell’intelligente, essa non può nulla contro il genio, che è fatto anche di stupidità. Una delle più belle frasi di questo libro, a questo proposito, è quella che Dostoevskij dedica all’amato Gogol’ quando lo definisce «stupido come un genio».

Una lettura superficiale ci presenterà un Dostoevskij panslavista, anticattolico, populista, moderatamente guerrafondaio. Sì, guerrafondaio: perché troppa pace fa male: «Si può dire che se la società è malata e infetta, persino una cosa così buona come una lunga pace, si trasforma, invece che in utilità, in danno per la società… Così si vede che anche la guerra serve a qualcosa, è salubre, porta sollievo all’umanità. È rivoltante, se vi si pensa in modo astratto, ma in pratica, a quanto pare, è così, e proprio perché per un organismo contagiato anche una cosa buona come la pace si muta in danno».

E poi non bisogna dimenticare Costantinopoli, la Seconda Roma, che la Terza Roma (Mosca) è chiamata a riconquistare, per motivi religiosi e politici: «Non è russo chi non ammette la necessità di conquistare Costantinopoli»; «Costantinopoli è nostra, deve essere nostra e di nessun altro… Per conquistare il mare bisogna prendere il passaggio al mare una volta per sempre».

In realtà, il panslavista Dostoevskij si trova ben piantato al centro della cultura europea, e anche se non perde occasione per polemizzare un po’ con tutto l’Occidente, francesi inglesi tedeschi, i suoi legami con il mondo che aborre sono evidenti fin dagli anni in cui scrive (perlopiù tra i ’60 e i ’70 del XIX secolo) e più ancora lo saranno nei decenni che seguiranno la sua morte. Da Nietzsche ai nostri giorni, è difficile non individuare la solida, preminente trama di pensiero che a partire da Dostoevskij segna il Novecento, da francesi come Artaud e Bataille a tanta parte del pensiero cattolico più originale (da Urs von Balthasar a Ivan Illich), fino a René Girard. Senza contare, ma questo va da sé, l’enorme influsso della sua opera, e quindi del suo pensiero, su tutta la narrativa occidentale.

Lo scrittore si rammarica: se non fossi tormentato dai debiti, dice, e potessi dedicarmi con calma al mio lavoro, sono certo che potrei scrivere un romanzo degno di essere ricordato per cent’anni. Benedetto tormento, dunque, benedetti debiti, visti i risultati. Perché il lettore, alla fine, nel tempo e come il tempo, è galantuomo, e prima o poi restituisce il tanto che ha ricevuto.

Insomma, Dostoevskij va cercato, e trovato, non solo nell’enorme quantità di racconti, parabole, pensieri fulminanti, personaggi, ragionamenti, immagini che ci ha lasciato, ma va cercato e trovato anche in ciò che, di lui, ci respinge. È questo, anzi, un ingresso privilegiato e oggi poco frequentato, vista la difficoltà sempre crescente – ben rilevabile anche nel mondo dell’informazione, compreso quello che sta, come si diceva un tempo, dalla parte giusta – che tutti abbiamo ad ascoltare, accettare e comprendere le ragioni degli altri. Prendiamo l’apologia del popolo russo e del popolo in generale. La necessità di trascendere la dimensione individuale non ha niente di populista e men che meno prelude ad alcun collettivismo, ma si fonda sulla fede: una dimensione che per Dostoevskij non pertiene soltanto alla religione ma all’antropologia come tale. Un uomo senza fere, semplicemente, non può esistere: «Amare l’uomo come se stessi secondo il comandamento di Cristo è impossibile. Sulla Terra ci lega la legge della personalità. L’io ostacola. Il solo Cristo ha potuto, ma Cristo era eterno, da sempre l’ideale al quale l’uomo per una legge di natura aspira e deve aspirare. Fra l’altro, dopo la comparsa di Cristo come ideale d’uomo in carne e ossa, è diventato chiaro come il giorno che il più elevato, ultimo sviluppo della personalità deve far sì (proprio alla fine dello sviluppo, nel momento stesso del raggiungimento dello scopo) che l’uomo trovi, riconosca e si convinca con tutta la forza della sua natura, che il più alto possibile utilizzo della sua personalità, della pienezza dello sviluppo del suo io  è come distruggere questo io, darlo nella sua interezza a tutti e a ognuno in maniera indivisibile e senza riserve. E questa è la felicità più grande. In tal modo la legge dell’io si fonde con quella dell’umanesimo, e nella fusione entrambi, sia l’io sia tutti (evidentemente due contrapposizioni estreme), distruttisi a vicenda, l’uno per l’altro, raggiungono nello stesso tempo anche il fine superiore del proprio sviluppo individuale, ognuno a modo suo».

L’io si realizza pienamente solo donandosi, ma il dono non si riduce a generosità, a buon cuore, a filantropia: è anche una forma di autodistruzione: Cristo ama fino alla morte, e prima di morire dà da mangiare il proprio corpo, e raccomanda di amare i propri nemici. E il dono di sé è un’azione suprema, che accomuna e trascende tanto la sconfitta quanto la vittoria.

La conoscenza di noi stessi dipende sia dal nostro rapporto con il tutto, con l’Assoluto, sia dal nome che, consapevolmente, diamo a questo rapporto. Il compito affidato da Dio all’uomo nel Genesi, di dare cioè il nome a tutte le cose, si riverbera nell’esperienza quotidiana del rapporto tra lo scrittore e il suo strumento per eccellenza, la lingua. Tanto da definire la lingua «l’ultima e definitiva parola dello sviluppo organico». Idea sostenuta anche ai nostri giorni non da teologi ma da autorevoli neuroscienziati. L’uso che Dostoevskij fa della Sacra Scrittura è sempre singolare: non la brandisce mai come verità data per zittire qualche interlocutore incredulo, ma piuttosto ne mostra la pertinenza con l’esperienza di tutti, nel tempo presente. Qui sta la scommessa dello scrittore: o sono i fatti ad attestare il fondamento di quelle parole antiche, o la fede non ha alcun senso.

Un fondamento non serve a consolare o a lenire le ferite della vita, ma piuttosto a introdurre la fede fin dentro il cuore del dramma moderno e delle sue ferite, da cui lo scrittore si sente totalmente investito. Come quando lo scrittore domanda, provocatoriamente, se un uomo moderno – e quindi culturalmente (anche se non individualmente) incredulo, come lui e come noi tutti – possa seriamente credere alla Resurrezione di Cristo dai morti (o, aggiungiamo, alla verginità di Maria). Se l’esperienza, così com’è, senza sconti e senza fantasie, non risponde a questi interrogativi, la fede si riduce a una bellissima storia, o a un sogno monumentale. E se così è, «che vada pure al diavolo» (Flannery O’Connor).

I romanzi di Dostoevskij sono stati il tentativo di risposta a domande come questa. Dall’episodio evangelico narrato da Luca e da Marco – dove si tratta di una legione di demoni che ha preso possesso del corpo di un uomo – lo scrittore elaborerà, appoggiandosi a un fatto di cronaca nera, uno dei suoi romanzi più estremi, che narra una storia moderna fatta di uomini moderni con idee moderne, e che a Cristo ha opposto il Nulla come senso e radice di tutte le cose.

Platone si domandava: perché l’essere e non il nulla? Dostoevskij aggiungerebbe: quale dei due vince, qui e ora, alla prova del tempo? La tecnologia, l’informatica, l’intelligenza artificiale, la società liquida, la post-verità, la pandemia chi premia: l’essere o il nulla? Sono domande che mettono paura, oggi come ai tempi di Dostoevskij o a quelli di Gesù. Il nulla non ha certo una bella faccia, però non promette sorprese: Comfortably Numb, cantavano i Pink Floyd. Del resto se la cultura moderna e contemporanea ha preso tanto da lui, fino a farne uno dei suoi padri fondatori, va detto che su questo aspetto – vale a dire la puntuale corrispondenza dei suoi temi e delle sue narrazioni con i temi e le narrazioni della Scrittura – non è stato granché ascoltato. Si sono così conservati i concetti, i teoremi, le illuminazioni, le astrazioni brillanti ma si è perso il corpo della sua riflessione e della missione che si era dato nella società moderna.

Leggete queste pagine. Litigateci, odiatele, assaporate l’offesa che contengono per ciascuno di noi, l’insulto spesso gratuito, immeritato. Ma siate onesti. Se lo sarete, dovrete ammettere, alla fine, che nelle parole – spesso inaccettabili – di quest’uomo c’è una grandezza, una vastità, una libertà che la cultura dei nostri giorni, la bolla dentro cui viviamo tutti, non sa più ritrovare.

Se sapremo quantomeno piegare la testa di fronte alla grandezza, vorrà dire che saremo ancora vivi.

Luca Doninelli

*Si riproduce, per gentile concessione, parte dell’introduzione a: Fëdor Dostoevskij, “La bellezza salverà il mondo. Pensieri, aforismi, polemiche”, De Piante, 2021

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