“È l’apolide che ha attraversato la terra senza nome”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
Alla vigilia della Prima guerra mondiale, il crepuscolo della civiltà europea incrociò il declino morale, spirituale e culturale dei popoli europei. Raccontare quel declino non vuol dire piangere le Lamentazioni, né saziare un banale sentimento restauratore o nostalgico. Piuttosto, significa farne un’elegia. Elegia per un tempo, quello precedente la Grande Guerra, scandito dalla Tradizione, concepito intorno alla contrapposizione tra il mondo dei nobili e quello del popolo, un rapporto così complesso da non poter essere ridotto ad una semplicistica e marxiana lotta di classe tra i buoni lavoratori e i mefistofelici nobili. Fino a prima della guerra e alla prorompente irruzione nel corpo politico dello Stato di masse traumatizzate nella carne e nell’animo dall’esperienza delle trincee e dei bombardamenti, i nobili erano identificati attraverso il concetto di peerage (parità), una apparentemente bizzarra idea indissolubilmente legata a quella di kingship (regalità). Soprattutto nel mondo anglosassone, il nobile non era tale per un volgare privilegio di sangue ma perché vantava un rapporto privilegiato con il re, imago dei.
Il sovrano come immagine divina degli uomini e delle donne sulla Terra. Qualcosa di inconcepibile, quasi insopportabile per noi contemporanei, nutriti dalle idee della Rivoluzione francese di libertà, uguaglianza e fraternità. Ma se facessimo uno sforzo di immaginazione, se provassimo a calarci nei panni di coloro che nell’Alto Medioevo concepivano l’idea del re come immagine terrestre di una realtà celeste, allora la nobiltà assumerebbe improvvisamente un valore quasi oltremondano. La teologia politica dell’Alto Medioevo non è infatti banale religiosità come molti raccontano, piuttosto trascendenza. Se sottraessimo la trascendenza dal Medioevo ed espungessimo Dio dal passato, nulla avrebbe più senso: l’arte, la poesia, la letteratura, l’astronomia e la scienza perderebbero di senso e significato.
La trascendenza richiama a sua volta il problema della bellezza intesa come “ordine delle cose”. Roger Scruton scrisse che la società contemporanea, abbandonando il parallelismo tra ordine e bellezza, ha perduto il desiderio di realtà. Da un certo punto in poi della storia occidentale, infatti, questi due elementi – ordine e bellezza – si sono completamente separati: nell’arte, nella musica, nella letteratura. Questo dualismo artificiale, scardinando il rapporto tra ordine e bellezza, aprì la strada al post-modernismo e alle sue declinazioni: l’arte concettuale, il post-strutturalismo, il decostruzionismo, l’intersezionalità, la teoria queer. Improvvisamente, per essere artisticamente rilevante, un’opera non doveva più rispettare un ordine, un canone, come Platone e tutto il neoplatonismo avevano affermato evocando una realtà trascendente della bellezza. Tale dualismo finì per colpire l’idea di ordine civico, indebolendo una delle pietre angolari della civiltà. Tutte le civiltà, dal Cristianesimo all’Islam fino alle antiche civiltà cinesi e indiane, si basano su un concetto di ordine prestabilito. Dopotutto, la parola cosmos in greco antico significa sia “ordine” che “bellezza”: l’ordine è ciò che rende bella una cosa. In Giappone, ciò che ha una funzione deve essere anche bello, perfetto, dunque pulito (yoi), mentre ciò che è brutto, imperfetto, dunque inutile, è anche sporco (kitanai). Anche le società occidentali credevano in questo postulato, almeno fino al 1914. La guerra trasformò violentemente l’Occidente, frantumando i pilastri morali d’Europa e scatenando una frattura shakespeariana tra l’essere della realtà e la realtà dell’essere.
Conclusa a Versailles nel 1919 la “Grande Guerra per la Civilizzazione”, il Vecchio Continente pullulava di vinti a cui non rimase altro che aggrapparsi alla Tradizione, punto fermo in un mondo che cambia. Nobili e Popolo assistettero inermi mentre i loro mondi – in termini di valori, cultura, consuetudini – venivano compressi al punto che la Borgogna, la Toscana o lo Yorkshire divennero il confine di un universo in sé. Come nel romanzo di Kazuo Ishiguro, Quel che resta del giorno, nel Downton Abbey di Julian Fellowes o nelle opere di Virginia Woolf, la realtà si era ormai trasformata in “nostalgia del mondo”. Cambiare la natura del tempo significa infatti cambiare la natura dell’essere e non è un caso che in quegli stessi anni Heidegger era occupato nella scrittura di Sein und Zeit.
Cambiando l’essere e il tempo, cambiò anche la percezione della storia e alcuni cominciarono a sentire il bisogno di riscrivere il passato. Ci provò Marcel Proust, alla ricerca del tempo perduto; ci provò Thomas Mann, alla ricerca di una dimensione diversa nella montagna rispetto alla pianura. Entrambi fallirono. Il mondo si era oramai trasformato perché il senso dell’ordine e del bello era morto insieme ai soldati nelle trincee di Verdun e della Somme. La possibilità che gli esseri umani potessero essere qualcosa di non solo umano scomparve definitivamente, e la simmetria tra ordine e bellezza fu superata nel giro di una decina d’anni dall’inizio di un’apocalisse, quella dei totalitarismi, della Seconda guerra mondiale e dell’incubo atomico, di cui oggi siamo solo un’eco distorta.
Come nelle opere di Luchino Visconti, in film come L’innocente di D’Annunzio o Il Gattopardo di Tommasi di Lampedusa, la vecchia aristocrazia, quella che si percepiva come non semplicemente umana, è scomparsa. I “gattopardi” sono come semidei, creature mitologiche che Visconti e Lampedusa paragonano nelle loro opere alle “iene” e agli “sciacalli” della società moderna. Il Gattopardo è in effetti un romanzo sulla nobiltà della capitolazione, sulla nobiltà degli sconfitti: declinare con un senso di divina rassegnazione.
A proposito di ordine e bellezza, Charles Baudelaire ha scritto (e Franco Battiato cantava): “Lì c’è solo ordine, bellezza: abbondanza, calma e voluttà”. Come detto, questo rapporto duale è stato il fondamento dell’estetica occidentale. Tuttavia, con lo sviluppo di una passione per ciò che è eccessivo, sublime, e quindi disordinato, prima della guerra era successo qualcosa nella cultura occidentale. Accanto al senso apollineo della bellezza, Nietzsche ci ha insegnato infatti che esiste anche un Dio della bellezza attraverso il brutto, cioè Dioniso, dunque il Sublime. La bellezza dionisiaca nasce dalla disarmonia, dallo smarrimento che si può provare osservando qualcosa che ci scuote. Durante il Romanticismo, il Sublime rappresentò il mezzo per raggiungere uno stato superiore di bellezza e, forse, l’avvento del XX secolo va spiegato anche attraverso il dominio di questa potente immagine.
La Prima guerra mondiale e la mobilitazione delle masse in funzione dei totalitarismi nazi-fascista e comunista avrebbero innescato la rottura definitiva con un mondo che era stato costruito intorno al rapporto tra ordine e bellezza. Certo, sarebbe ingenuo pensare di ridurre la società europea prima del 1914 a queste due categorie: in Inghilterra, mentre l’aristocrazia terriera era impegnata nel rito del tè, si consumavano feroci agitazioni sociali dopo la nascita del movimento operaio, si assisteva al dramma dell’emigrazione e si mettevano in pratica brutalità coloniali. Tuttavia, è vero che, come ne La nascita della tragedia, dopo che la Vecchia Europa ebbe ucciso Apollo e la sua bellezza, essa varcò la soglia della “calma e voluttà” abbracciando Dioniso e la sua bruttezza. Non sembra possa essere ascritto al caso il fatto che, da quel momento in avanti, la storia di Europa fu segnata da rivoluzioni, dittature, genocidi.
Poco prima di suicidarsi nel 1942, Stephan Zweig, poeta austriaco naturalizzato britannico, scrisse Il mondo di ieri. In esso raccontava il mondo prima del 1914 con evidente nostalgia. I giovani, prima della Grande Guerra, fingevano di essere vecchi, perché era il tempo in cui “il vecchio mondo, nell’ora del suo tramonto, era bello a vedersi“. Essere anziani denotava autorità, saggezza, persino una sorta di sacralità mentre la guerra, poiché combattuta da giovani comandati da vecchi, avrebbe allattato il culto della giovinezza. Un mondo che traeva gioia dal durevole, dalle tradizioni, dall’incedere del tempo, dalle consuetudini tramandate di generazione in generazione, fu sopraffatto dall’effervescenza creativa della gioventù. Gioventù come promessa di futuro, come mito dell’uomo nuovo, mito di un ordine nuovo, mito di un mondo nuovo. D’altronde, queste espressioni ricorrono in esperienze storiche, culturali e politiche molto diverse: il mito americano era il mito del nuovo mondo, del nuovo ordine. Novus ordo seclorum, è scritto sul dollaro. Ma il mito del nuovo ordine sarebbe stato anche il mito della rivoluzione comunista in Russia, così come il propellente del fascismo italiano e il nome di un giornale fondato da Antonio Gramsci. Il culto della gioventù e il mito dell’uomo nuovo produssero tre esperienze storiche radicalmente diverse nella prima metà del Novecento: Americanismo, Comunismo e Fascismo.
Le stesse parole chiave della letteratura e della politica di quei decenni ruotarono attorno al concetto di fuoco e fiamma. Il fuoco è un libro di D’Annunzio, la fiamma ricorre nel Manifesto del Futurismo di Marinetti o nella poesia L’Incendiario di Palazzeschi. Michelstaedter scrisse del “pensiero che si fa fiamma”, mentre Lenin fondò una rivista chiamata La scintilla. L’idea della combustione del mondo, di un mondo che si trasforma in un nuovo ordine, innescò quel meccanismo di rottura e di superamento del secolo precedente. Non è un caso che proprio in quegli anni Proust scrivesse del tempo perduto, della nostalgia. Longtemps, je me suis couché de bonne heure. La nostalgia indica una mancanza di natura spaziale: i primi a soffrire di nostalgia, secondo Hoffer, furono i soldati svizzeri che, sradicati dalle loro valli, soffrivano di uno stato di malessere indefinito. La nostalgia come malessere spaziale. Con Proust e il Novecento, la nostalgia cambiò: cessò di essere sofferenza per una distanza spaziale e divenne dolore per una distanza temporale: non un paese lontano, ma un tempo lontano. Nel Novecento la nostalgia assunse il ruolo di contrappeso al mito del futuro.
Viviamo, oggi, in una società che ha perso il legame con gli antenati e dimenticato lo spirito rivoluzionario, relegandosi in una sorta di angoscioso eterno presente. Dagli anni Settanta in poi, la parola rivoluzione non è più legata ai soggetti ma agli oggetti: abbiamo assistito alla rivoluzione digitale, alla rivoluzione informatica, alla rivoluzione degli smartphone. Non più rivoluzioni innescate da filosofi, classi sociali, rivoluzionari, soldati, giornalisti o politici. Forse l’ISIS, nella sua follia genocidaria, è stato il movimento più rivoluzionario degli ultimi cinquant’anni avendo cercato di ricreare, nel qui ed ora, il Califfato delle origini. Il mondo di oggi non contempla più la possibilità della rivoluzione della volontà ma solo quella dei processi, mentre l’idea stessa di Rivoluzione si è allontanata da quella della Storia. Ciò che oggi è rivoluzione in senso politico è solo mutazione: siamo esseri mutanti inorriditi dal nostro destino originario, desiderosi di liberarci della nostra stessa natura.
La mutazione in questo senso non implica più un cambiamento epocale, storico o collettivo, ma piuttosto la dimensione soggettiva del cambiamento. Viviamo in un’epoca “soggettivamente modificabile”: possiamo cambiare il sesso, il genere, il linguaggio, la toponomastica, i monumenti pubblici, ma non le istituzioni politiche o economico-finanziarie che ci governano. Allo stesso tempo, gli orrori compiuti dalle società civili europee nel primo Novecento hanno condotto a maturazione un senso di colpa che è servito solo a coprire un più profondo senso di lutto. Abbiamo distrutto da soli qualcosa a cui tenevamo e che non possiamo più avere indietro. Il “paradigma” non può più essere cambiato perché non ne è rimasto più nessuno: li abbiamo distrutti tutti.
Nel Riccardo II, l’ultimo re per diritto di sangue cade perché il consensus gentium è diventato più importante di quello sanguinis. Dal basso, il re venne portato in alto e, dall’alto, il re cadde a terra. La modernità ha distrutto un ordine e così facendo ha distrutto la connessione tra sopra e sotto o, in altre parole, l’anelito alla trascendenza delle nostre vite.
Dovremmo lottare per riconquistarlo.
Leonardo Palma