14 Dicembre 2023

In difesa delle donne. Su “Trofeo”, il romanzo di Emanuela Cocco

Uccidere donne non è lo stesso che uccidere. Cinema, musica, letteratura, teatro e arte in genere hanno provato a spiegarne le deviate ragioni – senza riuscirci pienamente ma facendo meno danni della sociologia e della psicologia, che alla fallimentare “narrazione dei femminicidi” finora hanno inconsapevolmente dato una grossa mano –, spesso mancando l’obiettivo forse perché la matrice artistica prima o poi finisce per soffocare qualsiasi altra sfumatura, qualsiasi altro piano di lettura. Ma ecco che Trofeo di Emanuela Cocco (Zona 42, 88 pagine, collana 42 Nodi diretta da Elena Giorgiana Mirabelli) si distingue come un tentativo completamente riuscito, forse perché non vuol esserlo.

Il libro nasce – almeno, così possiamo ipotizzare – dalla grande e autentica passione dell’autrice per il noir, inteso più come prerogativa umana che come genere letterario. Questa distanza dall’esito e dall’ossessione della performance, nel caso della Cocco si trasforma in talento, strumento osmotico con cui entrare in contatto. In Trofeo l’osmosi è tra la voce narrante e la “protagonista” del racconto, una gonna. Stoffa, cotone o acrilico. Una gonna che assiste dall’alto, o dal basso, della propria funzione, all’assassinio della sua proprietaria e alla custodia sine die di sé medesima, insieme agli altri “trofei” che rappresentano l’aberrante bottino di altri femminicidi. 

Leggendolo si avverte la sensazione che l’autrice non voglia soffermarsi prioritariamente sul fenomeno dei femminicidi in quanto tali, denunciandone l’insopportabile escalation in un Paese (l’Italia) che solo pochi anni fa guardava alla Svezia come alla patria di Uomini che odiano le donne e che oggi è purtroppo costretto a far la conta coi propri drammatici record (157 nel 2012; 179 nel 2013; 152 nel 2014; 141 nel 2015 e 145 nel 2016: il resto lo trovate sui giornali), quanto sulla lacerante verità in apertura di contributo. E cioè che, al di là di ogni pur necessaria retorica, uccidere donne non è lo stesso che uccidere.

Stupiscono molto in positivo, della narrativa di Emanuela Cocco, certe durezze messe al servizio della prosa (viene in mente il primissimo Andrea Carraro de Il branco) e certe consapevolezze tipiche di chi sa alternare con maestria ed esperienza trama, pathos e personaggi.

«Siamo uscite. Non ero triste, non ero felice. Non sono stata fatta per l’una o l’altra cosa – a raccontarsi è appunto una gonna, l’io narrante non umano ma in realtà umanizzato all’inverosimile, ndr – . Alla fine della serata la mia composizione era già cambiata. 98% di viscosa, 2% di elastan, a cui andavano aggiunti: fango, sperma, alcol e un bel po’ del tuo sangue».

E come nel cassonetto della spazzatura di Toy Story, a parlare sono i trofei (per l’appunto, giocattoli) che un depravato qualunque ha messo da parte collezionandoli nei suoi anni di militanza nelle viscere dell’orrore. «Stanotte ci ha svegliati di colpo – recitano i trofei di questo feticista che non ha volto né nome –. È entrato in casa portandosi dietro un grosso tappetto arrotolato. O forse era un busto avvolto in un lenzuolo. O una vecchia lunga scopa nascosta in una coperta. È entrato e ha gettato a terra la cosa, che è finita sotto la lampada, dritta e lunga, rigida come una statua». 

Scrittrice, sceneggiatrice e docente di scrittura creativa, la Cocco offre per questa bella collana dell’editrice milanese Zona 42 una delle prove più convincenti della letteratura contemporanea declinata “in difesa” delle donne. Della loro integrità fisica, del loro corpo, della loro dignità, della loro suprema intelligenza. Non un solo passo di compassione, non un cenno di debolezza, non una resa al coro universale degli indignati, la Cocco prova invece a spiegare perché uccidere una donna è cosa diversa da uccidere e basta, perché chi lo fa cerca proprio in quella diversità la purezza della depravazione che nessun’altra depravazione può dare. Mettere a tacere una donna è più che mettere a tacere un essere umano, risponde a canoni mostruosi più alti. 

«Le cose possono avere paura? Ma non sappiamo dirlo sul serio, non sappiamo vedere oltre il nostro smarrimento di vederci messe da parte, inutilizzate, separate dal mondo, a meno che qualcuno decida di usarci giustificando la nostra presenza. Non sempre accade, non è così grave e nulla cambia, in fondo. Il mondo esiste, ma non per noi. Questo che è terribile. Prima di diventare un trofeo non me ne ero mai accorta»

dice la gonna, esprimendosi come una creatura, come se la sua proprietaria le avesse affidato il compito di interpretarla.

Chi scrive non riesce nemmeno lontanamente a giustificare la violenza, intesa come forma di comunicazione verbale e prossemica. Figurarsi quella esercitata nei confronti delle donne, a ogni titolo e in ogni contesto. Al tempo stesso la proliferazione di tutti questi dibattiti pubblici e privati sul fenomeno (con tesi e antitesi che in alcuni casi sono puro esercizio di vanità personale, senza apportare alcun contributo alla causa) nella cassa armonica di questi “detentori di trofei” rischiano di trasformarsi in un invito a proseguire, in un’acclamazione o peggio ancora in una forma di perversa accettazione delle loro mostruosità. 

«Ho visto la strada in cui lei lavorava ogni notte, in mezzo alle macchine in attesa al semaforo, dove ancheggiava semi nuda e chiamava tutti: amore. Ho visto la piccola busta di plastica bianca che lei nascondeva sotto la ruota di un’auto parcheggiata, e so che dentro c’erano la sua bottiglietta d’acqua e un pacchetto di gomme alla menta, e poi ho visto i cassonetti invasi di spazzatura riversi sul marciapiede. E ho visto una notte freddissima ai tavolini arancioni del bar Gina, e ho rubato un brandello di quella sera in cui senza una ragione lei è stata… come?». 

Leggere Trofeo, invece, sì che è un modo per entrare nella testa di compie questi delitti, di chi ogni giorno umilia la fallibile missione degli uomini nei confronti dell’eternità femminile, in un gioco paradossale in cui quelli che uccidono scompaiono e chi viene ucciso rimane invece per sempre. Leggendo Trofeo ci si vergogna anche di quei commenti sessisti che (prima o poi) scappano a tutti, ma che nelle connessioni neuronali di certa gente diventano la miccia che porta all’esplosivo. La verità vera è che la scomparsa del desiderio – come fenomeno antropologico, scientifico, persino spirituale, indagine intima di noi stessi e delle nostre profonde debolezze – ci ha autorizzati a possedere, a prenderci tutto. Una donna come un oggetto, un sentimento come un iPhone. Che differenza c’è. 

Davide Grittani

Gruppo MAGOG