Il Salone (salotto, salumificio) Internazionale del Libro di Torino, non si ferma (una delle conseguenze più nefaste della pandemia è l’abbrutimento ulteriore della nostra vituperata lingua). Anzi, torna a palesarsi in una forma ancora più inquietante e angosciosa. Là dove il libro perde la sua essenza, importanza e funzione. Là dove è tutto griffato, dove non c’è nulla, dove non ci sono, i libri. L’emergenza sanitaria e tutto quel che ne è conseguito, non ha portato una virgola, una parentesi, un apostrofo di saggezza o riflessione, anzi, ha partorito e continua a partorire mostri. Venendo finalmente al punto, il mostro del Salone (appunto) si palesa in streaming. Sui social. Tra gli hashtag. Con gioia e giubilo dei presenti, degli invitati, degli organizzanti. E di questo giubilo non è facile cogliere da fior fiore. Ma tocca farsi del male. Nicola Lagioia, il cosiddetto direttore artistico: “Nel dolore la consapevolezza, nell’amore la conoscenza. Qualche giorno fa, in una delle ore più buie, confuse e dolorose per il nostro paese e per il mondo intero, il gruppo di lavoro del Salone Internazionale del Libro di Torino ha fatto un sogno: riunire alcune delle migliori menti del pianeta per ragionare insieme su ciò che sta accadendo”. Sorvolando sulla retorica da discount dell’ovvio. Per ‘migliori menti’ si intendono Lilli Gruber, Roberto Saviano, Alessandro Baricco, Paolo Giordano e no, non riesco a proseguire. Ma passiamo a Dario Franceschini: “l’iniziativa degli organizzatori di coinvolgere, in una anticipazione, alcune delle voci più interessanti del panorama culturale, rappresenta una preziosa occasione di riflessione e condivisione”. Condivisione cui significato è oramai peggiore di qualsiasi virus e, sulle voci più interessanti, toccherebbe sorvolare se non si fossero testè succitate. Per poi arrivare (e qui mi fermo) alle vere e proprie minacce, per voce del Presidente della Regione Piemonte: “Un giorno non molto lontano dei libri racconteranno quello che stiamo vivendo”. Come se la letteratura e la poesia fossero mero e banale ostaggio, omaggio o reportage della noiosa realtà circostante e non discese negli e dagli inferi dell’animo umano e dai mondi e di mondi inesistenti. Come se non ci fossero ancora migliaia di libri da leggere (e credo nessuno dei quali presente ai Saloni che furono e che saranno) senza la necessità che ne venga scritto anche solo un altro.
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Ma mentre il Salone (in quanto entità spaventevole e spaventosa) dichiara “non si legge solo sui libri” (vergato in patetico maiuscolo), io ne prendo tra le mani uno, nelle cui meravigliose pagine dovrebbero perdersi tutti. Per capire cosa significa scrivere, il significato dello scrivere. Il libro è Rien va, il secondo dei tre volumi che tessono il diario (che andrebbe mandato a memoria) di Tommaso Landolfi, assieme a La biere du pecheur e Des mois (tutti editi da Adelphi, che ha rimesso in vita l’immortale scrittore di Pico). E queste parole, che lette e rilette, sarebbero sufficienti a spazzar via tutta la (succitata) ambizione e presunzione: “Quando l’idea sia venuta, e a suo tempo mi si sia articolata nel capo, a me sembra di aver fatto sin troppo e che il mio lavoro sia finito e che sia indispensabile un po’ di riposo; il resto è faticosa, odiata, inutile, amministrativa e subìta necessità esteriore, come il recarsi in un sordido ufficio governativo per sbrigarvi una pratica. Il pensiero che la mia idea possa o debba essere comunicata ad altri non mi sfiora neppure, in un primo momento, non già per dispregio degli altri, sibbene perché nessuno potrà mai convincermi della loro esistenza, e sarebbe difficile disprezzare ciò che non esiste; e anche perché, ammettendo in via del tutto ipotetica la loro esistenza, non riuscirei, in buona fede, per la modestia e insipienza insieme, a concepire che qualcuno avesse bisogno della mia idea. In un secondo momento, si capisce, insorgono necessità volgari pesanti benché illusorie, che possono indurmi a darle forma sensibile, cioè a tutti manifesta; il che non si può fare in qualche modo mediato, quando non per via di successivi tradimenti. Al tutto si aggiunge una specie di spregio, spregio del mio lavoro e spregio del mio lavoro quale necessità impostami, che può talvolta menarmi a buttar via di proposito il meglio come non conveniente o troppo superiore ai datori di lavoro”. I lettori non esistono ed è uno spreco buttar via le parole troppo superiori per i datori di lavoro (leggasi editori). Ma voglio andare avanti.
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Landolfi è una miniera, un tesoro, un mondo. Landolfi che quando oramai ha raggiunto un disinteresse rispetto all’esito dei suoi libri prossimo all’indifferenza (siamo nel 1960), impone che dalla raccolta Se non la realtà (allora edito da Vallecchi) i suoi lavori vengano pubblicati in un’edizione tutta bianca, senza risvolti, senza quarta di copertina con vergata tale ineguagliabile postilla: “L’autore, stanco di sentirsi attribuire dai critici (o almeno dai più grossolani tra essi, e in ogni caso da chi poco lo conosce) la paternità o l’ispirazione degli scritti per consuetudine stampati in questa sede (i quali lo trovano bene spesso dissenziente), ha pregato l’editore di sostituirli d’ora in avanti colla seguente dicitura: RISVOLTO BIANCO PER DESIDERIO DELL’AUTORE”. Oggi in calce abbiamo gli indirizzi dei social. Il vanto d’esser stati partoriti da qualche scuola di scrittura. E il bisogno spasmodico di apparire ed esserci ovunque e dovunque. Pensiamo ancora una volta con orrore ai libri che verranno (come non bastassero le pagine vacue, vuote, inutili scritte in questi ultimi due mesi dagli stessi che banchettano al Salone virtuale, virtuoso, virulento). E poi ritorniamo e concludiamo con Landolfi che, tra i tanti racconti di inaudita beltà, era capace di inaugurare una delle sue raccolte (in questo caso Racconti impossibili), con una storiella surreale e spassosa composta con parole presenti in qualsiasi dizionario italiano ma sconosciute ai critici prezzolati e tronfi d’allora (i cui figli ancora più prezzolati e tronfi imperversano ora). Ne saggiamo l’incipit: “La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima … Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina. In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!… Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene”. Il racconto è La passeggiata, e su tale racconto lo stesso scrittore, successivamente, stila la meravigliosa conferenza personalfilologicodrammatica con implicazioni dove dimostra, dinnanzi a un ridicolo e grottesco tribunale, che La passeggiata contiene, appunto, parole tutte presenti nel dizionario italiano. E che i cosiddetti critici che avevano chiosato e ridicolizzato il suo racconto attribuendogli una lingua inventata, non si fossero in realtà nemmeno posti il dubbio che tali parole potessero trovarsi in qualsivoglia dizionario. “Molto semplicemente che l’impossibile è poi sempre possibile: se, difatto, coloro o costoro avessero avuto il benché minimo dubbio relativamente a una sola delle vessate parole, se di conseguenza si fossero avveduti che codesta parola era regolarmente registrata in qualsivoglia dizionario scolastico, essi le avrebbero cercate tutte e in tutte avrebbero riconosciuto in significato inequivocabile, né si sarebbero per avventura coperti di vergogna con bolse sentenze. Ma c’è di più e di peggio. Ammettiamo che al critico non sia richiesto un particolare fiuto filologico… Amici, guardiamoci in faccia: alle brutte un fiuto letterario, questo personaggio che si autoproclama interprete dell’opera altrui, un fiuto letterario dovrà averlo?”. Fiuto letterario. Quello che manca, che non esiste, che non si percepisce nel Salone Letterario, in chi vi partecipa, in chi vi sguazza, in chi vi sfoggia le griffe e le marchette. Si fiuta solo l’odore di muffa. La vera letteratura è altrove. I libri sono altrove. E invocare quelli che verranno, vuol dire non saper nemmeno dove si trovi, quell’altrove. Quell’altrove che Landolfi ha tramutato in poesia.
Cosimo Mongelli