
“Ha sofferto il soffribile”. Per i cinquant’anni dalla morte di Guido Morselli
Letterature
Linda Terziroli
Fa tremare i polsi raccontare e confessare di vivere in una stagione di frammento, di frantumazione del sentire e del pensare, di essere scivolato al confine degli abissi più intimi e di essersi smarrito. È questo il difficile “mestiere di vivere” tracciato giorno dopo giorno nel Diario dello smarrimento, ultima fatica letteraria di Andrea Di Consoli per i tipi inSchibboleth di Roma.
L’autore rientra a pieno titolo in quella generazione che i sociologi chiamano worried well, “sani preoccupati”, uomini che, considerati sani fino a pochi anni fa, si sentono ora interrotti e inadeguati rispetto allo stile globale di vita, civiltà del desiderio sfrenato e insaziabile. Così Di Consoli si sente perduto, non sa bene dove andare e quando l’anima si smarrisce si deve vivere fino in fondo lo smarrimento con la vita stessa: “ho accettato i momenti più bui dei miei pensieri, e le cadute, e le spirali improvvise, […] solo perché ho sempre avuto una casa sicura dentro di me, una terra nascosta, una vecchia camera che ancora mi aspetta. Questa casa è la Basilicata. […] Potranno anche torturarmi, strapparmi la lingua. Io, dentro di me, so che una terra mi aspetta […] e un’eco di voce che viene da lontano, e che mi sussurrerà ogni notte con cantilena stanca di vecchio, Ndrja, Ndrjareddru nostro…”.
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Ossessionato dalla geografia, l’autore non si sente affatto cittadino del mondo, verrebbe da dire che nella parte più nera di sé c’è il sud, ed egli è e si sente profondamente meridionale e solo in alcuni luoghi del sud riesce a percepirsi e a vedere alcune immagini e sensazioni: “percorrere l’Italia da Sud a Nord significa percorrere le nostre tante anime in una sorta di allegoria geografica: dalla terra dei miti, dell’infanzia, del furore e della bellezza a quella del realismo, della concretezza e del compromesso”. Di Consoli sente ancora addosso l’essere figlio di emigrati: “Quando andai per la prima volta in onda al Notturno italiano di Radio Rai – era l’estate del 2000 – io mi ricordai all’improvviso di tutti i piccolo-borghesi […] Il ragazzo che dava da mangiare alle pecore e ai conigli parlava all’intera nazione”, e come l’ultimo Pasolini, per lui ogni stato d’animo ha l’immagine dei dimenticati e delle periferie che abitano nella sua anima afflitta da solitudine e da melanconia sperduta: “La crudeltà annichilente di una periferia romana durante le immobili domeniche d’estate. I senza soldi, i senza compagnia, i senza macchina, i senza mare che cercano in silenzio un po’ di fresco, […] e non vedono l’ora che arrivi lunedì, quando è meno evidente che si è soli, poveri, inutili, non cercati da nessuno”.
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Tra le righe si avverte che il diario è stato scritto per una donna assente, per un amore perduto, svanito che gli ha fatto scoprire il mal d’amore nella forma più crudele, umiliante e che non sarà mai più come prima, l’eutanasia di un amore nel pieno della sua potenza, un atto di coraggio che porterà l’autore a confessare che di amore si può morire, solo che ci si vergogna a dirlo. Un atto che ha trasformato lo smarrimento, la paura di non guarire più dall’assenza, questa piccola morte, in un moto fraterno e generoso verso l’altro come una grande mano: “Credo che il malessere interiore, quello forte, sopraggiunga quando le macerie nell’anima sono più delle rovine. […] Ma quello è anche il momento in cui rimani solo con la tua voragine, e questo corpo a corpo è l’inizio della lotta […] come un prete randagio del culto dei fallimenti e degli smarrimenti, e ancora abbracci, e nulla cambia, se non questo non sapersi più dire”.
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Lo scenario che fa da fiume carsico lungo il viaggio delle riflessioni va dalla Lucania, terra immaginifica dell’infanzia, terra mitopoietica e dell’anima vista alla maniera di Rocco Scotellaro e di Carlo Levi (“Da piccolo mio nonno e mio padre mi dicevano sempre che la notte di Natale gli animali parlavano, e se ti capitava di ascoltare quello che dicevano poi morivi di colpo”), a Napoli dove tutto comincia, città dello smarrimento, della caduta imprevista e inaspettata: “Si parte da Napoli con addosso come un dolore per una perdita violenta: è l’oscura memoria di Partenope […] Suicida per acqua al culmine del proprio canto […] per sempre perduta e divorata da un tempo primo, apre in chi va via una persuasa nostalgia […] uno smarrimento di bellezza svanita o che sta per svanire […] nessun giovane cercherà mai il corpo segretamente sepolto di Partenope; ma quando, in là con gli anni, inizierà a farlo, la città non sarà mai più sua, chè Napoli uccide colui che non è giovane”. Infine a Roma, città del compromesso, dove Di Consoli vive con i suoi figli protetti dalle sue “mani fragili e dal suo sguardo stanco”.
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La voragine e certi abissi, il silenzio, la solitudine e la morte che affliggono Di Consoli sono sempre stati lì anche quando è stato felice; una voragine che sente nelle viscere tanto da fargli dire che “l’amore sarebbe una mano di donna che plachi lo stomaco”. Tuttavia, è il silenzio che, più di ogni altra cosa lo terrorizza, non solo quello personale ma dell’umanità intera perché c’è morte, c’è viltà, c’è accidia e l’unico modo che abbiamo di calmare un poco il dolore è “parlare tanto, parlare sempre affinché lo smarrimento sia sempre meno smarrimento”.
Anita Piscazzi
*In copertina: Anselm Kiefer, Der Morgenthau Plan, 2014