14 Giugno 2020

“Genio famelico, tra i pochissimi indifferenti al loro tempo”. Elogio di Djuna Barnes, la scrittrice che piaceva a Joyce e a Eliot, fu adorata da Cristina Campo, si chiuse in casa e mandò tutti al diavolo

Il padre le tentò tutte, dalla musica alla pittura: si credeva un genio incompreso, sponsorizzava – e praticava – la poligamia, a letto effettivamente era creativo, ebbe otto figli. Il genio, piuttosto, fu la madre, Zadel. Giornalista, scrittrice, suffragetta, donna libera, un paio di mariti, due palle così. Aveva un debole per il figlio, gli garantì la vita da artista, pagandolo. Il talento di Zadel, piuttosto, si riverberò, raddoppiato, nella nipote, Djuna Barnes, adorata anche dal padre, fino al crocevia dell’abuso – così fa supporre, dicono i biografi, l’epistolario intrattenuto per molti anni con il papi. In ogni caso, fu la nonna a educare  la nipote – bene, a giudicare dagli effetti.

*

A New York la Barnes fu giornalista ‘d’assalto’, come si dice (si sottopose all’alimentazione forzata, tortura imposta alle suffragette che protestavano con lo sciopero della fame): era brutale e raffinata, sagace e rapace. Faceva una vita tra il dandy e la Cassandra, intervistò James Joyce, “la più significativa figura della letteratura contemporanea”, e sedotto dalla sua faccia piratesca negli anni Venti si trasferì a Parigi, sorbendone tutti i veleni. La sua vicina di casa era Mina Loy; quando la città la stufava, partiva per il Nord Africa. Il primo libro, The Book of Repulsive Women, fu pubblicato nel 1915 da Guido Bruno, guru del Greenwich Village, untuoso imprenditore, che ci provò e pubblicò Oscar Wilde, Richard Aldington, gli Imagisti; nel 1936 Thomas S. Eliot, senza capirlo, introdusse Nightwood, il libro più noto della Barnes, edito da Adelphi come La foresta della notte. Qualcosa di caotico e sperimentale, di assoluto, candido e cangiante, una specie di cobra servito in anfora greca sta nei libri di Djuna. “Il mito che campeggia nel libro è quello della bella schizofrenica, vagabonda e in un certo senso custode della spontaneità, imprevedibile, per altro senso atona, vegetale… è un mito femminile che nasce da una primogenitrice romantica, la donna angelica estenuata”, scrisse Elémire Zolla, che importò Djuna Barnes in Italia, elogiandola su “Studi americani”, nel 1959.

*

Donna d’impeccabile eleganza, dal viso squadrato, angolare, maschile, Djuna scrisse poco, con accuratezza. Ryder, del 1928, racconta la ferocia d’amare con una lingua che mescola l’epica biblica al caotico, Giobbe a Rabelais – in Italia fu pubblicato da Bompiani, per grazia del poeta Alessandro Ceni. The Antiphon (1958), tragedia antimoderna, di bianca e grave levigatezza, piacque a Cristina Campo che dedicò alla Barnes un memorabile ritratto, privo di chiaroscuri, sul “Giornale d’Italia”, nel 1966, Una misteriosa americana che ebbe per araldo T.S. Eliot (raccolto in Sotto falso nome, Adelphi, 1998). “A mala pena si conosce un suo ritratto che, per essere perfetto, è già quasi una maschera funebre. Djuna Barnes vi appare in bianco profilo: un piccolo cappello nero le fascia il capo, lascia ricadere oltre il profilo, dritta come una griglia di carcere, la grossa rete di un velo nero. Il labbro inferiore asburgico ne sporge un poco, e il naso perfetto, desolato, inclemente. Lo snello collo, in un anello di pelliccia, è nudo, e più lo sguardo, stornato con il distacco terribile degli inermi. Una perla brilla al lobo squisito dell’orecchio… Un ritratto di principessa in catene, a cui non disdirebbe il soggolo della trappista”. Come sempre, la Campo, nell’altro, descrive se stessa, la propria gemella, la sua ambizione: ama il chiarore di chi, dotato del talento anomalo, lo vanifica in rinuncia, l’intrigante incrocio tra cielo e sottosuolo, arguzia e porcheria, carne e trascendenza.

*

Invecchiò violentemente, Djuna Barnes, rischiando di diventare un mito. Nacque in giugno, nel 1892, morì in giugno, ribaltando le date, nel 1982; fu modernista, lesbica, vigorosa, austera, piaceva a Truman Capote ma anche a David Foster Wallace. “Genio famelico, tra i pochissimi indifferenti al loro tempo, al pari dei gabbiani che volano alti sopra l’Oceano solo per piombare di quando in quando a rapirgli la sua preda più occulta”, scrisse la Campo, scrivendo di Djuna, scrivendo di sé. Negli ultimi anni – tanti – a Patchin Place, tra la Sixth Avenue e Greenwich, visse da reclusa. Carson McCullers si accampò sotto casa sua per incontrarla; E.E. Cummings gli spediva dei biglietti con la stessa frase, replicata in centinaia, “Sei viva, Djuna?”. Sul campanello di casa aveva applicato un nastro, “Se intendi suonare il campanello, vattene!”. Alcune femministe aprirono una libreria con il suo nome, fiere & felici: lei protestò finché le tipe non mutarono insegna e intenti. Non pubblicò più nulla, scrisse per sé – restò una bestia unica, nessuno riuscì a censirla, a classificarla. (d.b.)

Gruppo MAGOG