O tutto o niente. Il talento non accetta compromessi. Il talento è suicida
Politica culturale
Andrea Temporelli
“Gli uomini, i leoni, le aquile e le pernici, i cervi dalle maestose corna, le oche, i ragni, i pesci silenziosi abitatori dell’acqua, le stelle marine e tutti quegli esseri invisibili a occhio nudo, in una parola, tutte le vite, tutte le vite, tutte le vite, compiuto un malinconico ciclo, si spensero… Sono migliaia di secoli che la terra non porta su di sé una sola creatura vivente, e questa povera luna invano accende il suo lume. Sul prato non si svegliano più con un grido le gru, non si sentono più i maggiolini nei boschetti di tigli. Fa freddo, freddo, freddo. C’è vuoto, vuoto, vuoto. Paura, paura, paura” (dalla pièce Il gabbiano, monologo di Nina, Atto I, Anton P. Čechov).
Può un monologo teatrale scritto e pensato oltre cento anni fa fare da monito nel presente? L’oscuro messaggio lanciato dalla giovane Nina nel primo atto di una delle più celebri commedie russe di tutti i tempi appare oggi come un remoto avvertimento per l’umanità e il suo atteggiamento incurante nei confronti della natura e dell’ambiente. Nello scenario immaginato da Anton P. Čechov la Terra appare già fredda, deserta e disabitata e nessuna azione può più far tornare indietro “tutte le vite” e le bestie del creato.
Se oggi la discussione sull’impatto dell’uomo sull’ambiente è tra gli argomenti più gettonati, non era certamente così alla fine dell’Ottocento. Difatti, possiamo considerare il giovane Anton Čechov (1860-1904) come un precursore di alcuni temi che scaldano tanto gli animi: egli è stato uno dei primi autori “ambientalisti” della letteratura russa, e più volte nelle sue opere ha inserito importanti riflessioni sul futuro della vita sulla Terra.
“I corpi delle creature viventi sono svaniti nella polvere, e la materia secolare li ha trasformati in pietre, in acqua, in nubi, e le loro anime si sono fuse in un’anima sola…”
Quando Il gabbiano andò in scena per la prima volta il 17 ottobre 1895 al Teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo, anche il pubblico di allora non era preparato a un simile messaggio, tanto che dopo il monologo di Nina, la platea rimase disorientata e in silenzio, per poi scoppiare in una fragorosissima risata. Il giovane autore seduto tra il pubblico scappò disorientato dal teatro, e nei giorni successivi la stampa stroncò ferocemente lo spettacolo, accusando anche Čechov di decadentismo, proprio per quel monologo tanto astratto e malinconico. Fortunatamente la successiva messinscena del Gabbiano, ad opera di K. Stanislavskij e V. Nemirovič-Dančenko al Teatro d’Arte di Mosca, fu un incredibile successo: i due registi furono in grado di sottolineare la profonda drammaticità delle parole della giovane Nina (interpretata da Olga Knipper, futura moglie di Čechov) e la prima delle piècefu in trionfo senza precedenti.
Il tema dell’uomo in conflitto con la natura non è presente solo nel Gabbiano: venne ripreso con maggiore intensità nelle successive opere della grandiosa tetralogia čechoviana, in particolar modo in Zio Vanja (1898) e soprattutto nel Giardino dei ciliegi, ultima e definitiva opera di Čechov prima della prematura morte di tisi nel 1904.
Se Zio Vanja appare come un dramma familiare che mostra la crudeltà e il disinteresse dell’uomo nei confronti del prossimo e della natura, in particolar modo attraverso il personaggio del vecchio e noioso professore Serebrjakov, sorprende però che sia proprio la sua giovane moglie Elena a scagliarsi, pur essendo impotente, contro la forza distruttiva dell’uomo:
“…voi tutti irragionevolmente rovinate i boschi, e presto sulla terra non resterà più nulla. Con la stessa irragionevolezza rovinate l’uomo, e presto, grazie a voi, sulla terra non resteranno né fedeltà, né purezza, né spirito di sacrificio. Perché non riuscite a vedere con indifferenza una donna, se ella non è vostra? Perché, (…) in tutti voi si annida il demone della distruzione. Non avete pietà né dei boschi, né degli uccelli, né delle donne, né l’uno dell’altro…”.
Elena è una donna molto giovane e avvenente. Sposata col vecchio professore Serebrjakov, è annoiata dalla vita, eppure il suo animo si infervora, soprattutto perché sollecitato dalla passione di uno dei suoi segreti corteggiatori, il medico Astrov, che si lancia avidamente sulla donna e la chiama “soffice faina”, ammettendo di essere diventato una sua preda. In realtà è proprio il personaggio di Astrov a riflettere maggiormente sull’importanza di preservare gli habitat delle campagne. Per tutta la pièceegli rimpiange la rigogliosa natura che era presente nelle tenute di campagna fino a pochi decenni prima e prevede che tutto diverrà presto arido e inospitale.
Ma è nella sua grandiosa ultima commedia dai risvolti tragici, che Čechov inserisce il messaggio più importante: l’amato Giardino dei ciliegi, proprietà di Ljubov Andreeva Ranevskaja, e i suoi maestosi alberi in fiore, verranno inesorabilmente spazzati via e l’uomo avrà un definitivo trionfo. Nell’ultima scena dello spettacolo assistiamo al drammatico momento in cui Lopachin, mercante e figlio di ex servi della gleba, arricchitosi, diventa proprietario del terreno e del giardino in cui i suoi avi lavoravano come schiavi, e insensibile alla disperazione della sua ex padrona Ljuba, ordina che gli alberi di ciliegio vengano segati, di modo da poter costruire piccoli alloggi da affittare ai turisti per l’estate.
Ci si è sempre interrogati sul reale significato del messaggio lanciato da Čechov attraverso Il giardino dei ciliegi: da una parte rimane una sensazione di poetico torpore, i fasti del passato, la bellezza del giardino in mano alla nobile famiglia della Ranevskaja; dall’altra però, emerge prepotentemente il trionfo della classe mercantile, vincitrice sulla nobilità decaduta, che trae profitto dalle macerie dell’amato giardino.
All’inizio della sua carriera da letterato Čechov era stato definito da alcuni “conservatore”, forse per il suo legame con Lev Tolstoj, o per la sua rubrica sul quotidiano conservatore Novoe Vremja appartenente al suo editore e mecenate Suvorin. Benché non si esprimesse mai apertamente su questioni politiche, nelle sue opere riecheggia un animo altruista, vicino ai più deboli e sensibile verso gli animali e la natura.
Se proprio il teatro è ciò che ha consacrato definitivamente Anton Pavlovič Čechov tra i giganti della letteratura russa, egli esordì in realtà come anonimo autore di racconti: di professione faceva il medico. Inizialmente la sua carriera da medico era predominante sulla scrittura e difatti non osava nemmeno presentarsi con il suo vero nome, ricorrendo piuttosto a una serie di pseudonimi, come Antoša Čechonte, Il medico senza pazienti, Il fratello di mio fratello, L’uomo senza milza, Ortica, Ulisse, Acidone… e molti altri (pare più di 60!).
Iniziò a pubblicare i primi timidi e brevi racconti nel 1880, a soli vent’anni, fino ad arrivare a pubblicarne oltre 150 entro il 1883. Ben presto uscì allo scoperto e divenne uno degli autori più letti e amati della giovane generazione di scrittori di fine Ottocento. Čechov iniziò a scrivere su diverse riviste e quotidiani e gli venne proposto di lavorare come autore e giornalista per una rubrica fissa: venne ingaggiato dallo scrittore Lejkin, redattore del settimanale “Schegge” in cui Čechov aveva il compito di documentare la frenetica e vivace vita a Mosca nella rubrica Frammenti di vita moscovita. Anche nel lavoro giornalistico si rivelò un visionario e un precursore: nel 1889 ebbe la folle idea di svolgere autonomamente un viaggio-inchiesta a Sachalin, una remota isola russa al largo delle coste giapponesi, allo scopo di documentare la condizione in cui vivevano i condannati ai lavori forzati e le loro famiglie presso la grossa prigione presente sull’isola. La sua era un’iniziativa senza precedenti. All’editore Suvorin, che cercava di distoglierlo dal partire scrisse:
“Parto, con la precisa convinzione che il mio viaggio non sarà un apporto prezioso per la letteratura e per la scienza. Voglio unicamente scrivere cento-duecento pagine, e pagare in tal modo una minima parte del debito nei confronti della medicina che ho trattato, voi lo sapete, come un mascalzone… Sachalin è l’unico luogo in cui sia possibile studiare una colonizzazione fatta con dei criminali… Sachalin è un luogo di inammissibili sofferenze… Mi rammarico di non essere un sentimentale, altrimenti vi direi che dovremmo andare in pellegrinaggio in posti analoghi a Sachalin come i turchi vanno alla Mecca… abbiamo fatto marcire nelle nostre prigioni milioni di persone per nulla, senza riflettere, in modo barbaro. Oggi l’intera Europa civilizzata sa che i responsabili non sono i carcerieri, ma ognuno di noi; e la cosa non dovrebbe riguardarci, non dovrebbe interessarci? No, vi assicuro che il viaggio a Sachalin è necessario!”
Molti giudicarono azzardata la scelta di partire anche perché, non essendo Čechov un funzionario statale, ma un semplice cittadino russo, non era certo che gli sarebbe stato concesso di accedere all’isola e soprattutto alle prigioni, per intervistare e raccogliere dati sui detenuti. Nonostante questo, e pur essendo già malato di tubercolosi, Anton partì per Sachalin il 21 aprile 1890 e dopo un viaggio estremo, percorrendo oltre diecimila chilometri in carrozze e battelli, raggiunse la desolata terra di Sachalin. Qui riuscì – non senza fatica – ad accedere alle prigioni: nell’incontrare i detenuti, rimase scioccato dalle misere condizioni in cui vivevano: sporcizia, malattie, bambini abbandonati a sé stessi e un altissimo tasso di analfabetismo erano lampanti.
Del viaggio a Sachalin Čechov scrisse un lunghissimo resoconto dai toni polemici intitolato appunto, L’isola di Sachalin che uscì parzialmente nel 1893-94 sul quotidiano “Pensiero russo” e in edizione integrale nel 1895. Grazie alla sua testimonianza vennero accesi i riflettori sulla remota prigione e sui suoi detenuti, tanto che infine l’Impero russo decise di inviare dei libri ai bambini di Sachalin, per cercare di arginare almeno in parte l’analfabetismo.
Per le sue idee originali e avveniristiche Anton P. Čechov rientra oggi a pieno titolo tra i più grandi autori russi di sempre: dalle tematiche ambientali a quelle sociali, le sue opere si distinguono per la stringente attualità, e nonostante il passare dei secoli, lasciano ai lettori un messaggio rivolto al futuro.
“Il mare gelido e torbido si apre alla vista e ruggisce; le onde alte e canute che s’infrangono sulla sabbia sembrano chiedere disperate: “Signore, perché ci hai create?”. Questo è già l’Oceano, Grande o Pacifico che dir si voglia. Lungo questa costa, a Najbuči, riecheggiano i colpi d’ascia dei deportati, mentre su quell’altra, lontana, pressoché immaginaria, c’è l’America. A sinistra si intravedono nella nebbia i promontori di Sachalin, a destra altri promontori ancora… e tutt’intorno non un’anima viva, non un uccello o una mosca, sicché non si capisce per chi ruggiscano queste onde, chi ascolti il loro rimbombo di notte, e neppure per chi continueranno a ruggire, una volta che ne me sarò andato…”
da L’isola di Sachalin, Anton P. Čechov
Diana Mihaylova