Ognuno ha i suoi. Di gusti, ma non solo. Se ne parla spesso, tra simili: c’è chi predilige il primo periodo, chi il secondo – quello delle contaminazioni – e chi l’ultimo. Soprattutto i più giovani, ma ci sta: musicalmente il “terzo” è più ammiccante per le orecchie. Tutti però, ma tutti tutti, riconoscono a quel lavoro una dignità superiore a tutte le altre. Poi, a uno studio più profondo o a un confronto franco con gli altri “massoni”, scopri che quella perla è stata suonata da un gruppo di giovanotti che sapevano il fatto loro e che dopo qualche anno si sarebbero ritagliati uno spazio unico nel panorama mondiale.
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“Da qualche parte troverete scritto ‘a cura di’, ‘arrangiamenti di’ e qualche altra doverosa e professionale gratitudine stampata da una macchina disperata, senza amici. Io ho degli amici: Roberto Dané, che ha usato l’intelligenza per censurare e suggerire, l’affetto per stimolare e convincere e infine il forcipe, perché questo lavoro diventasse un lavoro finito, perché nascesse; Gian Piero Reverberi, che ancora una volta ha saputo vestire di musica la mia consueta balbuzie melodica; Corrado Castellari e Michele ai quali devo un’idea per la musica del testamento di Tito; Franco Mussida-chitarra, Franz Di Cioccio-batteria, Giorgio Piazza-basso, Flavio Premoli-organo, Mauro Pagani-flauto del complesso ‘I Quelli’ e il chitarrista Andrea Sacchi che dopo due giorni di distaccata collaborazione hanno dimenticato gli spartiti sui leggii e sono venuti a chiedermi: ‘perché hai fatto questo disco? Perché hai scritto queste parole?’. Anche con loro la fatica comune si è trasformata in amicizia”.
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Un album dall’indubbio alito religioso, capace di estendersi ovunque. “Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del movimento sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell’autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali”.
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Feltrinelli Comics ha dato alle stampe un libro che ‘trasporta’ le parole e la musica de La buona novella – il vertice poetico assoluto di Fabrizi De André che quest’anno ha spento 50 candeline – nell’universo dei disegni. Il grimpeur si chiama Paolo Castaldi, coraggioso visual artist milanese che ha deciso di affrontare a mani nude la piramide. Il progetto è stato appoggiato dalla Fondazione De André. Il risultato è una graphic novel.
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“Avevo urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo (…). I vangeli apocrifi sono una lettura bellissima con molti punti di contatto con l’ideologia anarchica. (…) I personaggi del Vangelo perdono un poco di sacralizzazione a vantaggio, penso e spero, di una loro maggiore umanizzazione”.
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Mi aspettavo la Maria bambina che va in sposa senza sapere la sua agonia, la sua destinazione (“E si vuol dar marito a chi non lo voleva, / si batte la campagna si fruga la via, / popolo senza moglie uomini d’ogni leva / del corpo d’una vergine si fa lotteria”). O il vecchio Giuseppe che ha “dita troppo secche / per chiudersi su una rosa” e che, come tutti gli anziani, quando accarezza, ha paura di far troppo forte. O la disperazione delle tre madri (quelle di Gesù, di Tito e di Dimaco) che sotto la croce piangono e le lacrime di Maria fanno sgorgare un’amarezza umanissima: pensa che se Gesù non fosse stato figlio di Dio, lo avrebbe “ancora per figlio mio”.
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Tutte le “personae” (in questo il latino è una candela accesa: “personae” significa “personaggi”) della graphic novel abbandonano la collocazione storica assegnata da Faber per lasciare spazio al presente. Ne esce una pletora di personaggi dai tratti sicuramente deandreani ma non “buonanovellisti”: troppo alto il vertice di musica e parole raggiunto dal poeta di Zena per apprezzare la modernizzazione di Paolo Castaldi. Il suo lavoro è eccezionale e straordinario se lasciato camminare da solo. Se soffiato di vita propria. Se allontanato dall’album. Inserito lì dentro, in quella vertigine di immagini che mulinellano come un pennello nella tavolozza, ne esce ridimensionato perché le parole di Fabrizio, sempre ma qui in modo particolare, già disegnano ed evocano le storie raccontate. Divorziato quindi dal disco (ma non dalla poetica del cantautore, sia chiaro), La buona novella dell’artista milanese è un affresco più che dignitoso.
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L’opera, messa sotto l’egida della Fondazione De André (che ha permesso la pubblicazione dei testi dell’ellepì), “sbussola” la bussola. Tolto questo “cappello” che spariglia la direzione (è logico aspettarsi di avvertire gli afflati di Faber e della sua lettura soggettivata del Protovangelo di Giacomo e del Vangelo arabo dell’infanzia, cosa che invece non accade), il libro di Paolo Castaldi è davvero una “novella buona”, una testimonianza ficcante delle vite dei nuovi ultimi, di quelli a cui la società non ha dato voce.
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In fondo sono le minoranze che danno la misura della democrazia di un Paese. Lo è stato per La buona novella di Faber, lo è oggi per l’opera di Paolo Castaldi. Maria, Dimaco, Tito, Giuseppe e Anna lasciano il posto a chi ha cercato di opporre resistenza. Come Ani Guibahi Laurent, nato il 5 febbraio del 2005, allievo della classe quarta in una scuola situata a Niangon Lokoua e morto per congelamento a soli 14 anni nella pancia di un Boeing in volo per Parigi mentre cercava di fuggire dalla Costa d’Avorio. L’aereo volava a 9 mila metri d’altezza, più dell’Everest: lo hanno ritrovato nel vano carrello, senza vita.
Come l’israeliana Henriette Karra: a 17 anni il padre le ha rubato “l’anima a forza di botte” perché si era innamorata di un ragazzo musulmano e quindi si era infilata di una “storia sbagliata”.
Come Lucio Urtubia Jiménez, il Don Chisciotte che non combatteva contro i mulini a vento ma contro veri giganti: un anarchico spagnolo che si fece un nome per le sue pratiche politiche di espropriazione. È morto quest’anno, di vecchiaia: aveva 89 anni. Intervistato sulle sue imprese giovanili, disse: “Ogni volta che entravamo nelle banche, sempre a viso scoperto, mi pisciavo addosso dalla paura di essere ucciso o di uccidere. Troppa violenza. Noi non eravamo banditi”.
Come Edoardo “Baleno” Massari, anarchico per vocazione e per attivismo: ha fatto come il “Miché” di Fabrizio, ha scelto una corda dopo essere stato buttato in prigione per aver cercato di sabotare l’alta velocità in Val Susa.
Come Franca Viola, la pioniera dei diritti e della dignità delle donne: nel 1965 rifiutò un matrimonio riparatore. “Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi donna: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti. Io l’ho fatto in una Sicilia molto diversa, loro possono farlo guardando semplicemente nei loro cuori. Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce”.
L’8 marzo di sei anni fa il Presidente della Repubblica del tempo, Giorgio Napolitano, l’ha insignita dell’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana “Per il coraggioso gesto di rifiuto che ha segnato una tappa fondamentale nella storia dell’emancipazione delle donne nel nostro Paese”.
Deandreiana, come tutti quelli che sono finiti nel libro di Castaldi. E come quelli che ne sono rimasti fuori. “Un’assenza apparecchiata per cena”.
Alessandro Carli