I grandi romanzi italiani sono definiti da un sovrappiù, da una perfezione che concima incompiutezza, da una defezione biografica. Levigati per vent’anni, I promessi sposi hanno ridotto al silenzio Alessandro Manzoni; allo stesso modo, Giovanni Verga è insidiato dalle gore dell’abbandono, un lascito di latitanze, lasciando incompiuto il fatidico “Ciclo dei Vinti”. Allo stesso modo, i più grandi romanzi del secondo Novecento italiano sono mostruosi abbozzi, quaderni impilati, pieni di revoche, di mute mutilazioni, di ambizioni e reticenze e retrovie: Petrolio di Pier Paolo Pasolini e Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, imprese perdute, monoliti linguistici, ovviamente postumi. C’è sempre un aggravio di dolore nell’opera: a lei lo scrittore, installato in ambigua solitudine, proteiforme, dona il sangue. In entrambi i romanzi, molossi, gli scrittori s’insinuano tra le forre della storia italiana, inventando un linguaggio, sovvertendo i vocabolari, rifacendosi ai lari – la Divina Commedia, Moby Dick – per esplorare l’ignoto, il terracqueo aldilà. Incomprensioni e fraintesi vengono di conseguenza.
Tra tutti, tuttavia, è lancinante la potenza di Fenoglio – coscritto di Pasolini, nato quattro giorni dopo di lui – che scrive a precipizio, consapevole che il suo tempo è poco – l’esordio è del 1952, trentenne; muore undici anni dopo –, che il nostro tempo ansima e che tutto va decostruito per essere ricomposto, amato. Frasi che picchiano come nocche dalle inferriate degli inferi – “Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo” – da invitarci al gioco del fuoco e della memoria. Gli inverni che accerchiano Johnny – “il freddo micidiale, il grande caos ventoso” – sono quelli di oggi, a scotennarci perfino il morso. Tutto è guerra, e l’unico va diviso in mille, spartito, mangiato, perché torniamo salvi, puri, levigati con ossa e issopo. Eccolo, Fenoglio, in un testo teatrale perduto e ritrovato, Atto unico:
“Tu non hai idea di quanto duri la lotta fra il buio e la luce, nel cuore dell’inverno. E che cosa sia! Un groviglio di enormi serpenti, mi pare, gli uni chiari e gli altri neri. Una cosa da dar raccapriccio e… nausea! Sì! Tutto mi fa nausea, tutto si muove, il cielo e la terra, capisci, si muove… come un feto!”.
Tenerezze primordiali agitano la sua scrittura, lotta elisabettiana – l’arcano affetto per il disordinato Christopher Marlowe – del Dio che si svela, svia, va stanato, ucciso. La biografia di Gianfranco Lauretano, che è lavorio di poeta dentro un classico fuori dai canoni, Beppe Fenoglio. La prima scelta (Ares, 2022), è un libro in viaggio. Invita al viaggio – cioè, all’uscita da sé – l’opera di Fenoglio, d’altronde. “Vivere, vedere”, scrive Lauretano, quasi a denudare una poetica. Vita, vocazione, cammino, occhi nel portagioie, in dono.
Abbiamo chiamato al dialogo Lauretano.
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Fenoglio sembra un avulso nel canone italiano, un lunare, un lunatico, un solitario: come intende il paradigma del Neorealismo, l’ideologia dell’impegno, infine il diktat della letteratura “della Resistenza”?
Fenoglio è un solitario, “il più solitario di tutti” dice Calvino nell’incredibile endorsement letterario che gli concede dopo che ha letto Una questione privata, il libro necessario, che non c’era, e che solo Fenoglio ha saputo comporre. Non mi sembra che Fenoglio parli mai di Neorealismo, neppure nelle lettere scambiate con Calvino e Vittorini. È totalmente estraneo anche all’ideologia dell’impegno e persino al diktat della letteratura della resistenza. Nel 1960, in una sorta di autopresentazione che gli è stata chiesta, rivela i motivi per cui scrive:
«Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Scrivo “with a deep distrust and a deeper faith”».
Per “vocazione”, per “spirito agonistico”. La vocazione è la ricerca della propria forma, nel mondo e nell’assoluto del tempo; lo spirito agonistico è precedente la battaglia, è l’agòn stesso della scrittura. Nel libro dico che Fenoglio, considerato lo scrittore per antonomasia della Resistenza, sarebbe stato Fenoglio anche senza resistenza (come dimostra nei racconti sulla civiltà contadina delle Langhe, a iniziare dal capolavoro La malora). Del sorgere della scrittura di Fenoglio mi piace quello che dice il suo biografo, Piero Negri Scaglione quando parla del primo anno del Dopoguerra, quello in cui Fenoglio capisce e decide che sarà uno scrittore: «…e sta comprendendo fino in fondo la maledizione ultraterrena che costringe a raccontare e insieme la benedizione divina che scende sui narratori, il potere che la Parola concede a chi racconta». L’operare di Fenoglio si situa a questi livelli; direi che accidentalmente ha scritto della guerra e durante il Neorealismo. Solo perché ci si è trovato in mezzo.
Dice Francesca Melandri:
«Il suo isolamento forse gli permise di andare oltre le contingenze storiche, sia da quelle di cui aveva esperienza sia da quelle in cui operava, e di sottrarsi a quella richiesta di senso esplicito, civile e politico, per sua stessa natura legato alle circostanze, limitato. E così, misteriosamente, con la sua opera disegnò ampi cerchi concentrici intorno a quel ben più abissale perno della condizione umana, non solo delle esperienze estreme come la guerra: la ricerca di senso».
La guerra, iliadica, esistenziale, pare essere il cuore della letteratura, per Fenoglio, la guerra ‘civile’ il cardine di quella italiana. È così? Cosa significa?
La guerra per come la guarda Fenoglio è un “evento”, secondo la categoria che i filosofi hanno sempre indagato. Un evento è un fatto epocale, che cambia il passato e il presente e indirizza a un nuovo destino. L’evento della Resistenza ha avuto come conseguenza, in Italia, l’insorgere di un soggetto umano nuovo, il resistente appunto. Dal punto di vista sociale, Pasolini dimostra che la Resistenza e il neorealismo sono l’epoca in cui per la prima volta nella loro storia gli italiani si guardano come un unico popolo e con libertà parlano di se stessi in modo unitario, senza nascondere vizi e difetti, cosa che non era accaduta durante il Risorgimento ottocentesco, o la prima Guerra mondiale o tantomeno il ventennio fascista. Quindi la guerra civile è senz’altro un evento di popolo, secondo la definizione filosofica. A proposito di questo, ancora, nel mio libro ho citato Matteo Cavalleri («solo da un cominciare incarnato nella storia, incastonato nelle sue leve, nei suoi oggetti necessitanti, può celarsi l’inizio, ovvero la messa in discussione, se non la rottura, dell’ordine storico») il quale poi prende le mosse da Jean Starobinski :«occorre (…) che sia successo qualcosa di supplementare rispetto alla situazione presente perché la singolarità dell’individuo vada a comporre un nuovo soggetto (…). Starobinski nomina questa circostanza come evento, come un qualcosa che non c’era e che, nel momento in cui avviene, comporta una concatenazione di mutamenti». E lo stesso Starobinski in Introduction à la poésie de l’événement afferma: «Il rapporto tra evento, testimonianza e produzione poetica è da inscrivere costitutivamente entro un orizzonte di tempo divelto, di eternità, a prescindere dal perdurare della scrittura stessa e al di là della sua frequenza nella produzione artistica di un autore».
Ecco, Fenoglio sta di fronte alla guerra come intravedendo una porta trascendente. Non ci sono mai gli dèi, come in Omero (eccetto forse quando apre squarci potentissimi di natura, come la nebbia nella Questione o la neve nel Partigiano Johnny), ma è come se ci fossero, perché quella è l’altezza. Non sono giunto ad osare tanto nel mio libro, ma ho il segreto pensiero che la guerra in Fenoglio coincida con l’idea stessa di Dio.
Cosa ci dice oggi Fenoglio, e da quale lato, da quale libro è bene prenderlo?
Oggi Fenoglio ci dice esattamente da dove dobbiamo ricominciare a leggere, scrivere, usare la letteratura. In questo senso viviamo una grande crisi: non sappiamo che farcene dei libri, della letteratura, a cominciare dagli insegnanti, ai quali soprattutto il mio libro è rivolto (e ai loro studenti). E da ciò deriva il caos, il considerare letteratura tutta una serie di baggianate solo perché vengono pubblicate e ben vendute. Fenoglio, per il gusto moderno, è una lettura difficile (questo credo sia il motivo per cui è poco affrontato a scuola – vergognosamente). Per un motivo molto semplice: scrive divinamente. Non per quello che dice, per le posizioni che sostiene, ma perché la sua lingua, il suo ritmo narrativo, il suo italiano sono stupefacenti, assoluti, infuocati. A mio parere il maggior narratore italiano del Novecento, da cui il titolo del mio libro, “La prima scelta”. Siamo di fronte a un compito preciso, che è rifondare il gusto dei lettori. È un momento epocale per la letteratura, come per la società nel dopoguerra. Rischiamo il disastro. Per questo abbiamo necessità di Fenoglio. Nonostante le più belle pagine di Fenoglio siano nell’ultima parte del Partigiano Johnny (quelle dell’inverno), io credo che si debba iniziare a leggere dai due romanzi brevi, che sono pur essi capolavori assoluti: Una questione privata e La malora. E avere all’inizio pazienza: non per colpa di Fenoglio, che ha fatto in pieno il suo dovere e compiuto la sua vocazione, ma per quelli che siamo noi che abbiamo una Ferrari ma solo la patente per guidare una Panda.
“Ma egli amò tutto”, dice Fenoglio di Johnny, il partigiano, a un certo punto del romanzo; “Io ti seguirò, ti proteggerò sempre”, scrive papà Fenoglio alla figlia Margherita, nel messaggio definitivo. C’è come lo stigma di uno stile, una poetica, un modo di stare al mondo. Dimmi.
La citazione che mi riporti è tratta da un brano brevissimo del Partigiano Johnny che è di una potenza quasi insostenibile:
«E Johnny entrò nel ghiaccio e nella tenebra, nella mainstream del vento. L’acciaio delle armi gli ustionava le mani, il vento lo spingeva da dietro con una mano inintermittente, sprezzante e defenestrante, i piedi danzavano perigliosamente sul ghiaccio affilato. Ma egli amò tutto quello, notte e vento, buio e ghiaccio, e la lontananza e la meschinità della sua destinazione, perché tutti erano i vitali e solenni attributi della libertà».
Pensa solo a come parla del vento o al sigillo con cui definisce lo scopo della guerra nell’ultimissima parola del brano. Quando ho letto il testo del biglietto che Fenoglio ha scritto per la figlia, che non aveva più di un anno, dal capezzale dove stava morendo, ho letteralmente, semplicemente pianto. Margherita dice che è il testo più bello di suo padre e il mio sogno è di conoscerla, andarla a trovare, e poter vedere quel biglietto. Fenoglio aveva una forte personalità. Era un grande solitario senza solitudine, che a mio parere è la definizione di scrittore più precisa: un solitario talmente implicato nella ricerca della sua umanità e del senso assoluto della vita, al quale non interessa il lettore, ma da cui il lettore può attingere le più grandi scoperte non sullo scrittore o sulla letteratura, ma su sé stesso. Fenoglio sapeva scegliere senza tentennamenti, con rigore: scelse di fare la guerra, scelse di stare con gli azzurri, scelse di scrivere, e non tornò mai indietro. “Scrittore e partigiano” c’è scritto sulla sua tomba. Anche per questo la parola “scelta” è nel titolo del mio libro.
Come si intreccia in Fenoglio la dinamica politica e quella religiosa?
In Fenoglio non è mai corretto parlare di politica o di religione. Non ha mai fatto politica e non aderì a una religione precisa, tantomeno al cattolicesimo dominante in Italia e ad Alba ai suoi tempi. Eppure Pietro Chiodi, suo professore di filosofia e poi suo carissimo amico, parla proprio di scrittura politica e religiosa. Lo descrive come un soldato di Cromwell con il fucile in braccio e la bibbia nello zaino, e in questa definizione c’è la risposta, infine.
Prendiamo l’esempio del tema maggiore, quello della Resistenza. Personalmente, se avessi in vita mia ascoltato ciò che ne dicono le fazioni avverse, sarei schifato dal tema stesso o più probabilmente indifferente, come lo è la maggioranza degli italiani. Da parte comunista infatti (credo si possa chiamarla così, anche se i comunisti sono pressoché estinti) c’è stato un gravissimo pericolo storico, un tentativo fortunatamente fallito: quello di usare la guerra partigiana come introduzione alla rivoluzione bolscevica in Italia. Se fosse riuscito quel nefasto progetto, oggi saremmo un paese come la Russia o forse un paese balcanico; da non dimenticare, infatti, che il Friuli, dove i partigiani comunisti hanno ucciso persone come il fratello partigiano di Pasolini, doveva essere la porta d’ingresso per una sommossa partigiana di stampo titino. All’opposto, anche provocati da questa appropriazione indebita comunista, quelli che potremmo chiamare negazionisti, comunque persone che sottovalutano fortemente la portata della guerra di liberazione nominata Resistenza. Sono due posizioni sbagliata, che intorno al 25 aprile tornano tristemente a farsi vive.
Io mi sono riconciliato con la Resistenza e con i partigiani solo per merito di Fenoglio (altri scrittori neorealisti non ce n’è, nemmeno il Sentiero di Calvino è un granché). Come ha parlato dei partigiani? In modo molto realistico, “normale”: si veda il racconto I ventitré giorni della città di Alba: scalcagnati, carnevaleschi, i partigiani conquistano la città in 2000 e la perdono in 200 perché al ritorno dei fascisti gli altri 1800 sono alla fiera del paese a giocare e a dar da dire alle ragazze. Questi erano i partigiani, in gran parte, inoltre, adolescenti (il partigiano che in Una questione privata i fascisti fucilano in carcere per rappresaglia ha 14 anni!). Eppure, proprio per questo, sono amabili. Sono come me. Non sono il mito del partigiano che l’ideologia comunista ha tentato retoricamente di creare, e neppure quei combattenti inutili definiti dalla parte opposta. In Fenoglio la loro assolutezza religiosa sta nella loro altrettanto assoluta normalità. Hannah Arendt ha scritto a proposito dei nazisti La banalità del male; potremmo dire che Fenoglio, a proposito dei partigiani, ha scritto la banalità del bene. Ma è proprio questo che mi consente di amarli: se sono stati capaci loro, sgangherati, analfabeti, litigiosi, di fare la guerra di liberazione, forse lo sarei persino io, e persino i nostri ragazzi attuali, che tante volte vediamo così fragili e lontani alla realtà storica (ma chissà se è vero). È per Fenoglio che mi sono recato sulle Langhe, a omaggiare i partigiani, le loro steli e i cippi che ne ricordano nomi e gesta: per questi fratelli normali, per nulla eroici, ma assoluti nella guerra per la libertà, per i quali ho viaggiato, pregato e scritto in questo libro.