20 Marzo 2019

“Sono ossessionato dalle donne disinibite e autoritarie. E comunque, chi parla di libri è il sacerdote di una religione morente”: dialogo con Fabio Orrico

Una leggenda racconta che Dio non annienta la letteratura per merito di un manipolo di giusti dei libri, che si adopera, infaticabile, per divulgare, recensire, ma soprattutto leggere e segnalare le opere che meritano di sopravvivere. Si tratta di oscuri insegnanti, magazzinieri, infermieri, banconisti di macelleria, cui raramente viene data voce nei grandi palcoscenici. Fabio Orrico è un giusto dei libri: un grande lettore. È promotore culturale, creatore di riviste on line, blogger e vlogger, recensore vigoroso di libri e film. Uomo appassionato, cultore della parola e delle immagini, affascinato dai segni e dalle icone, non smette di cercarne. Si sa per certo che Fabio è un famelico cultore di letteratura e cinema, ne appare come drogato. Non è raro assistere a questa scena: Fabio, alla luce di un faretto, legge le ultime pagine di un libro. Lo richiude. Ci pensa un po’ su, ma proprio poco. Qualche secondo. Se ne esce con un commento fulminante regalato al soffitto. Lo ripone su un ripiano. Ne piglia un altro, da una fila proprio accanto. Lo apre. Si abbandona nuovamente alla sua estasi mistica, senza soluzione di continuità, impossibile distrarlo. Un libro via l’altro. Di lui si dice che legga al posto di respirare.

Qualcuno dice che per saper scrivere bene è necessario leggere molto. Beh, in Fabio la condizione essenziale è rispettata. Poeta (Strategia di contenimento, Della violenza), si è cimentato con il thriller (Giostra di Sangue ed Estate nera, scritti a quattro mani con Germano Tarricone), con il romanzo erotico (Il Bunker). Sta per uscire per Italic Pequod il suo ultimo romanzo: Giorni feriali è un nuovo inizio. Un esordio.

Nel tuo immaginario mi sembra di vedere immagini e scene di film, come se tu costruissi la tua prosa e la tua poesia attraverso quadri, come scene ancor più che come sequenze.

Dopo anni di militanza cinefila penso di aver la testa piena di immagini di film e ti confesso che mi viene la voglia di guardare direttamente a scene che mi sono piaciute e scriverle, magari incastonandole dentro alla storia. Si potrebbe parlare di citazioni in maniera giusta, però trasferendosi da un medium a un altro cambiano natura. Se io cito una scena aumentandola diventa altra cosa, non un vezzo. Probabilmente tutto quello che ho scritto ha dentro di sé tante immagini cinematografiche che mi hanno colonizzato.

Qualcuno potrebbe dire che sei un uomo film.

Sì esatto come gli uomini libro di Fahrenheit 451. Però non mi prendo un film solo da testimoniare, me ne prendo tanti. È una cosa di tutti i cinefili, non soltanto mia.

Nonostante nel tuo immaginario ci siano storie e immagine raccontate, pensate e costruite da altri in tutto quello che scrivi c’è questo senso di autenticità, di onestà. Senza voler per forza usare parole abusate, sei spietato con i tuoi personaggi, che non nascondono difetti e limiti, ma tirano fuori le debolezze con spontaneità.

Secondo me ci sono autori che hanno una distanza considerevole ed evidente dai personaggi e sembrano quasi incombere su di loro. Parlando di cinema il regista che più risponde a questo modo di concepire l’invenzione è Kubrick. Nei suoi film si sente sempre la sua intelligenza cupa che si affaccia sui personaggi, come se fossero osservati dall’esterno, giudicati. Un atteggiamento rispettabile, che però non sento mio. Non mi arriva. C’è una frase di De André che dice “quando si racconta il porcile è bene farlo sposando il punto di vista del maiale”. A me piace moltissimo questa frase e cerco di muovermi in quella direzione: l’essere spietati con i propri personaggi non significa non amarli.

Hai un modo di osservare che passa attraverso le persone che incontri, le storie che raccontano, l’affetto che nutri per loro che diventa immedesimazione nelle vicende.

Negli ultimi dieci anni ho scritto cose anche molto autobiografiche e la cosa curiosa è che rileggendole dopo molto tempo non le riconoscevo, mi sembravano finte. Allo stesso tempo ho raccontato cose successe ad altri e paradossalmente quando le rileggevo mi sembravano vere. Questo è curioso, forse possiamo formulare un teorema, non valido in senso assoluto, ma valido per me. Mettermi in scena comporta fatalmente una quota piuttosto rilevante di parzialità. Alla fine sono sempre io quello che ha ragione. Per forza! Lo voglia o no io sono il protagonista della mia vita, ma se provo a modificare la prospettiva, le cose cambiano e si fanno più interessanti.

Nelle nostre esperienze di lettura, di visione di film, di ascolto di testi di canzoni, c’è sempre un punto: qualcosa deve arrivare. Ami ripetere che in un libro cerchi qualcosa che ti tocchi, indipendentemente dal fatto che sia un libro essenziale, popolare, con una ricerca linguistica, con una scrittura difficile o piana.

Ognuno di noi ha un nostro canone, è naturale. Si può preferire Hemingway a Foster Wallace o viceversa. Per quanto mi riguarda ho delle predilezioni, ma amo con la stessa intensità Paolo Volponi e Romano Bilenchi, che sono due scrittori opposti: Bilenchi funziona sulla forma breve, Volponi ha bisogno di almeno duecento pagine per dire quel che deve dire. Bilenchi ha una lingua semplice, Volponi carnosa ma l’emozione che io ho provato leggendoli è stata intensa con entrambi.

Bilenchi e Volponi hanno però molto in comune. Sono riferimenti importanti nella letteratura sul lavoro, anche se in momenti storici diversi. Il lavoro è tornato ad essere presente con insistenza nella letteratura del nuovo millennio. Esiste ormai una corrente che si è concentrata, in modo che a me inizia a sembrare fastidiosa, sul tema della precarietà vissuta da finti precari. Ragazzi con due lauree che vivono il lavoro come intermezzo o un fastidio necessario per raggiungere altri obiettivi. In Bilenchi e Volponi ma anche nelle tue opere, si parla del lavoro in maniera molto più vera: da dentro, da chi il lavoro lo conosce e lo vive, dalla mattina alla sera e ne percepisce le contraddizioni e l’importanza, nell’averlo e dunque anche nel perderlo. Il significato di quell’esperienza è completamente diverso da una ricerca un po’ finta e spocchiosa che ha piacere nel non trovare e nel piangersi addosso.

La letteratura non è molto democratica: anche un finto precario può tirar fuori un libro pazzesco. Certo è diverso trattare il lavoro da posizioni di privilegio e dalla morchia della fabbrica. Durante la presentazione di un suo libro Emanuele Tonon parlava di Paolo Volponi, peraltro indicato come uno dei suoi punti di riferimento, e diceva che un libro come Memoriale era comunque un libro scritto da un dirigente mentre lui aveva lavorato in fabbrica alla catena di montaggio e la sua esperienza comprendeva anche i calci in culo del capo reparto. Attenzione, non era critico nei confronti dei risultati: Volponi aveva raccontato il lavoro in fabbrica con grande verità ma sempre forzatamente dal punto di vista di un responsabile che vede la produzione da un ufficio separato da vetri insonorizzati e questa cosa la senti e non è detto che sia per forza qualcosa di negativo. L’analisi di Volponi, quindi di un intellettuale, poteva essere ancor più pregnante perché nasceva da fuori ed era meno viziata emotivamente. In ogni caso Tonon rivendicava questa peculiarità: lui la fabbrica l’ha raccontata dal punto più basso. Sono punti di vista la cui differenza si avverte. Tutto questo per dire che l’aureo motto di Tolstoj “parla del tuo cortile e parlerai del mondo” è sicuramente giusto ma non va a detrimento di chi non parla di ciò che conosce.

Quando si è affacciata al pubblico la generazione degli scrittori nati tra i settanta e gli ottanta è arrivata questa ondata di call center, precariato, lavoretti che a mio avviso non rispecchia per niente il nostro tempo. Un esercito di radical chic che intende il lavoro come una scocciatura strumentale per potere scrivere il grande romanzo, oppure per girare il grande film, per cogliere l’immagine fotografica perfetta, o per dipingere il capolavoro immortale. Ne viene fuori molto più il prolasso di una generazione illusa e presuntuosa, che una denuncia sociale.

Se uno vuole intendere il lavoro come una scocciatura strumentale per poter scrivere il grande romanzo sono affari suoi, poi leggiamo il romanzo e vediamo se è effettivamente grande. Resta il fatto che il lavoro è un problema nevralgico del nostro tempo, specie per gente come me che non ha voglia di lavorare, ma nemmeno di morire di fame quindi lavora. Diciamo che se in passato è stato prezioso capire quanto il lavoro fosse determinante nelle nostre vite adesso è altrettanto importante raccontare quanto pesi l’assenza del lavoro o l’assenza del lavoro come lo abbiamo conosciuto fino all’altro ieri. Poi bisogna aggiungere che io scrivo di gente poco scolarizzata, senza grandi ambizioni o prospettive. Forse è per questo che, nelle mie storie, se uno lavora in un magazzino non percepisce questa situazione come un abuso o un’ingiustizia della sorte. Voglio comunque rivelarti una mia bassezza: tendo al vittimismo. Anche per questo, perché conosco la noia che il vittimismo provoca, l’insofferenza che il lamento scatena, i miei personaggi non lo possono essere, vittimisti.

I tuoi personaggi non lasciano che la vita accada, nella vita in fabbrica, nel tentativo di sbarcare il lunario, nelle relazioni umane, negli incontri e nell’erotismo, ma seppur nell’attesa, nella riflessione e nell’autoanalisi sono proattivi, a un certo punto di muovono, possono ribollire poi esplodono.

Parliamo di narrativa: nel primo libro che ho scritto con Germano Tarricone, Giostra di sangue, che rivendica orgogliosamente il suo essere un thriller al grado zero, una pulp fiction da edicola, avevamo una protagonista troppo passiva e le successive stesure sono servite a correggere questo suo difetto. Il lettore non perdona la passività dei personaggi, a meno che non sia un elemento essenziale dell’identità e dell’intreccio, un carattere fondamentale e riconoscibile. Un personaggio passivo è l’anticamera di un romanzo sbagliato e lo dico con tutto il fastidio che provo per gli accorgimenti e le regole della buona scrittura. Neanche i personaggi monologanti e arresi alla vita di Thomas Bernard sono passivi. Se pure si arrendono, il loro cedere le armi prevede comunque uno scontro frontale.

L’assenza di azione può essere uno strumento vigile per conoscere e capire il mondo, per accoglierlo, come nei poeti, penso a Paterson. Quando ho visto il film mi sono detto: sai che questo personaggio assomiglia tantissimo a Fabio Orrico?

Questo film di Jarmush che hai citato l’ho amato davvero molto. Se fossi un regista (che poi è il sogno proibito della mia vita) vorrei fare un film così, con lo stesso sguardo fenomenologico su ciò che accade, nitido e dettagliato. In più Paterson ha il pregio di riuscire a parlare di poesia senza cadere nel ridicolo. Cosa rara al cinema. Mi viene in mente Il mistero dell’acqua della Bigelow, dove il protagonista, interpretato da Sean Penn, è un poeta e a mio avviso dà un’idea molto falsa della poesia, come pura contemplazione, come tiramento di culo inessenziale. In una scena Sean Penn davanti al tramonto dice: chiunque può tirare fuori qualcosa di bello da questo tramonto, una stronzata, battuta sciocca, ingenua. Addirittura in quel film Sean Penn è descritto come una rockstar: viene riconosciuto per strada, il che è ridicolo. Le persone non riconoscono per strada Stephen King, figurati se riconoscono un poeta.

La poesia in Italia è maltrattata. Non se ne conosce né la potenza né il ruolo. I poeti sono misconosciuti.

Riesumare e resuscitare i poeti dimenticati sarà il lavoro di molti per molto tempo. La mia impressione è quella di un terreno dove, specie nei momenti di analisi, vige la soggettività più estrema alternata in modo schizofrenico a una pigra conferma dei canoni. La critica agisce ai margini e spesso non sa essere incisiva, rinunciando alla chiarezza e perdendosi in astruserie e, soprattutto, commettendo il grande errore di separare la poesia dal resto della letteratura. C’è differenza tra poesia e romanzo, ma parliamo comunque di due ragazze sedute allo stesso tavolo che si frequentano e si influenzano a vicenda, traendone beneficio. La mia impressione è che sia stato emesso un verdetto nei confronti della poesia, parte di un verdetto più generale nei confronti della letteratura, che la relega fuori dai giochi. Mi spiego con un esempio: in un racconto di Moravia di cui non ricordo il titolo c’è un personaggio spregevole e meschino e per farci capire quanto è ignorante, di lui Moravia dice che legge al massimo quatto o cinque libri all’anno, tutti gialli. Capisci bene che uno così nell’Italia del 2018 è un raffinato intellettuale! D’altra parte Moravia si sposa la Morante e va a cena con Pasolini: evidentemente è abituato a conversazioni altissime. Io che sono un uomo della strada mi rendo conto che la letteratura sembra essere morta anche come semplice evasione. Adesso l’oggetto libro è remoto alla maggior parte delle persone, qualcosa che non si sa bene come maneggiare. Non voglio essere spocchioso, ma credo sia indiscutibile. Questo relativizza le polemiche che leggiamo ovunque, sul web e sui giornali, anche se in misura molto minore rispetto a un tempo. È un dialogo tra morti. Siamo come i sacerdoti degli antichi dei quando si stava affermando il cristianesimo. Non ci rendiamo conto, non capiamo cosa porterà questa nuova religione. Chi parla di libri sembra non capire che è accaduto qualcosa che ha condotto il libro fuori dai giochi dell’umanità. La poesia vive al cubo questa situazione, forse perché non si possono trarre film o serie TV dai sonetti.

Non si annuncia nessun Dio all’orizzonte?

È un fatto economico. Una volta era un affare pubblicare una collana di gialli o di letteratura rosa, adesso semplicemente non lo è più. Chi cercava nei libri solo un’occasione per svagarsi, ora fa altro. Questo è centrale, perché toglie di mezzo il grasso della letteratura, quella riserva che permetteva l’emergere di qualche raro grande capolavoro. La letteratura non segna più la società, diventa astratta. Un editore vuole vendere, anche se poi misteriosamente non è che si sbatta più di tanto a promuovere i propri libri. Pubblica a grappolo poi qualcosa venderà da sé.

Come mi diceva Alberto Gaffi in Italia esistono duecentomila lettori dal dopoguerra, e quelli sono rimasti. Non sono affatto diminuiti, sono sempre i soliti. Si è ingrossata invece la schiera degli scrittori.

Questa cosa non mi indigna. Mi sento un lettore infaticabile. È anche vero che spesso intellettuali di vaglia ostentano un cinismo verso chi scrive che non è onorevole. Quando ho fondato la rivista on line “scrittinediti”, nei suoi primi anni di vita, ricevevo carrettate di materiale, che adesso non ricevo più perché la gente si fa il blog da solo, o si autopubblica. C’è una tendenza cristallizzata dal non mettersi più in gioco. Non rischiare nemmeno il verdetto di una redazione, il giudizio di terzi, di chi la letteratura la conosce perché ci lavora. È anche un fatto statistico, è ovvio che quest’oceano di materiale è costituito per lo più da cose mediocri. Scrivere deve essere un fatto consapevole, molto spesso non lo è, ma una volta che depuriamo il nostro giudizio da questa constatazione, il gesto di scrivere merita rispetto. Meno cinismo aiuta, anche a scegliere, anche a scovare frammenti lucenti nella porcilaia. Leggo molte recensioni poco argomentate. Le poco volte che si stronca lo si fa in modo offensivo. Si insulta l’autore. L’autore a sua volta si offende, inspiegabilmente, anche di fronte a perplessità legittime ed espresse in modo civile. La recensione che amo scrivere o amo leggere è fatta di argomentazioni. La stroncatura ha una sua onestà, certo, se fondata su fatti e analisi accurate. Un critico non è un oracolo che sputa parole d’oro, è uno che prima di tutto argomenta il suo gusto. Per questa ragione la recensione orienta la scelta: scelgo libri da leggere e film da vedere fidandomi della parola di un critico che mi piace. Bada bene: non tutti, ma quello con cui sento un’affinità, quando lo conosco abbastanza da capire che abbiamo giudizi comuni.

Il destino della letteratura c’entra con la morte ed è forse la ragione per cui la amo. La letteratura muore e parla della morte. Nei libri vediamo la morte al lavoro.

Cocteau diceva: “il cinema è la morte al lavoro”, perché vedi il tempo che agisce sui personaggi, sui paesaggi, sulle città. Adesso accade in modo evidente con le serie TV. Un adolescente cresce durante le stagioni e si fa uomo o donna. Ma anche in certi film. Penso a Sorelle mai di Bellocchio, un film straordinario, o a Boyhood di Linklater, la cui lavorazione è spalmata nel corso di anni, documentando la crescita di un attore. La letteratura ha filtri diversi. Un libro è un universo controllato. Su altra scala rispetto ad altre arti, il cinema, ma anche il teatro e la musica. La possibilità di controllo, rifinitura e cesello che ha la letteratura non esiste altrove. Anche se si parte con tutte le possibilità di averlo, il controllo. Ne hai gli strumenti: collaboratori, troupe, tecnologia. Eppure il controllo totale non potrai mai averlo. D’altra parte, e adesso mi contraddico, Tondelli amava le pagine che arrivavano in libreria ancora acerbe, dove sentivi la pennellata grumosa, dove percepivi l’intervento della realtà fuori controllo. In effetti la letteratura non si lascia catalogare in schemi certi.

Infatti sei un fanatico apostolo di autori anche molto diversi tra loro. Penso ad Antonio Moresco, che per te è un totem. Ma anche Emanuele Tonon. Ami gli scrittori che hanno una passione sensuale, carnale con la lingua: Amelia Rosselli, Dino Campana, Gianni Celati.

Sì, ma tieni presente che amo Moresco ma anche Stephen King. Se metto l’accento sugli scrittori che citi è perché spesso vengono definiti difficili e questa cosa mi manda fuori di testa. Non mi piace questa categoria, questa storia del libro difficile. In realtà le cose difficili non esistono, piuttosto ci sono testi che ci parlano immediatamente, ci raggiungono e ci ammaliano e altri che non ci dicono niente e spesso per ragioni che fatichiamo a definire. Posso innamorarmi di Sotto il vulcano e annoiarmi con l’Ulisse o viceversa ma credo che questo riguardi la mia sensibilità e disponibilità di lettore. Poi nutro forse un po’ di insofferenza per la struttura in tre atti, per una forma di romanzo che non si concede mai digressioni, perché sostanzialmente trovo puerile titillare il lettore con il solito bric a brac di colpi di scena e caratterizzazioni insistite. Detto questo, i miei romanzi penso si basino su una struttura solida e insieme testimoniano con una certa evidenza il mio amore per la narrativa di genere. Come lettore di narrativa, banalmente, cerco un testo che mi conquisti e io sono incline a lasciarmi conquistare da scrittori diversissimi fra loro: Volponi ma anche Carver, Tanizaki ma anche David Goodis, Willa Cather ma anche Renato Olivieri.

Sembra che tu abbia un’ossessione per la guerra. Usi metafore guerresche, nei titoli delle tue opere. Strategia di contenimento, Il bunker, Una guerra di nervi. Metafore cruente per parlare di sentimenti, pudori, ritrosie, consapevolezze amare. Eppure gli esempi di guerra guerreggiata del nostro tempo non ci mancano. C’è un dislocamento quasi fastidioso tra le gole sgozzate nei deserti, i bombardamenti governativi o alleati e il tuo canto: cupo, grigio e accorato. Come se le nostre civiltà acquisissero significato nel confronto con la barbarie. Nei tuoi versi c’è sempre questo iato. La voce di un’umanità che assiste alla storia e fatica a rendersi conto che ne è soverchiata e annichilita.

Sì, sono un uomo ossessivo e sono ossessionato dalla guerra. L’essere umano è naturalmente incline alla violenza e alla sopraffazione, siano esse espresse con forme attive o passive. Credo sia un po’ il sottofondo morale di tutto quello che ho scritto e, immagino, scriverò.

Un tema forte nelle tue opere è il sesso. O meglio la perversione. L’incontro carnale, sempre intrinsecamente allacciato alla partecipazione emotiva, mai gratuito, trova la sua forza fuori da sé. Nella violenza, negli oggetti, nel travestimento. Penso al ruolo che hanno le armi da fuoco o da taglio, nell’amore. Il gusto per il feticismo. La curiosità e l’attrazione per il mercimonio dei corpi. È una smania a volte divertita più spesso struggente, un’indagine, l’atto di un desiderio inesauribile di esplorazione.

Vado matto per i travestimenti. Una cosa che mi diverte molto è andare alle fiere del fumetto e guardare sfilare i cosplayer. Ho una mia personale classifica delle varie Wonder Woman che ho visto nel corso degli anni ma per delicatezza resterà segreta. Le serate fetish dei club privée e le riunioni di cosplayer si assomigliano tantissimo, pratiche erotiche a parte (nelle prime più o meno esplicite, più o meno mediate, nelle seconde sarei tentato di dire surrettizie). La tua domanda mi sembra faccia balenare un immaginario torrido e cupo e magari in parte è così ma credo che ne Il bunker come nel romanzo che sta per uscire questo aspetto, molto presente, è raccontato sotto una luce positiva, nel senso che i protagonisti sanno cosa gli piace fare in camera da letto, lo fanno e si divertono.

Leggendo le tue storie e le tue riflessioni sembra che il vero amore possa nascere solo con le puttane, in senso ampio. Come se con loro ci fosse una vicinanza, una similarità, che permette di essere pienamente se stessi. E sei convincente. Sgradevole e illuminante. Leggendoti ci riconosciamo tutti compromessi.

Ti confesso che non ho mai pensato un solo secondo in vita mia che il vero amore possa nascere con le puttane ma se questa è la lettura che emerge vorrà dire che dovrò essere più bravo in futuro. Sono ossessionato dalle donne disinibite e autoritarie, questo è vero. Ciò che mi attrae è il senso di completa libertà nell’intendere il piacere e il proprio corpo, come se fosse un segnale, rivelatore di una libertà più ampia del pensiero e dell’intelligenza. Riflettendo sulla tua domanda in modo più didascalico: essere se stessi in un rapporto mercenario non è una nota di merito. È la disinvoltura del cliente, il tipo più diffuso di italiano, arrogante e indisciplinato, incapace di stare un solo secondo in coda alla cassa del supermercato o alle poste senza scatenare un putiferio e di minacciare di adire alle vie legali con chiunque gli capiti a tiro. Se ci sentiamo noi stessi, liberi e in pace è perché mettiamo mano al portafoglio quindi possiamo pretendere pretendere pretendere, serenamente e senza nessun bisogno di mettersi in gioco. Allo stesso tempo la prostituzione, come la guerra, è una metafora facile e perfetta, anzi, è più che una metafora: io per esempio mi prostituisco e su questo non ho dubbi. Faccio un lavoro che mi piace ma se non avessi bisogno di soldi per mangiare, vestirmi e scaldare il mio appartamento sono quasi sicuro che farei altro. Anzi, ti dirò che quando rido con eccessivo trasporto alle battute del mio capo mi sembra di mimare certi manierismi da prostituta (“amore, tesoro, mi hai fatta venire, etc etc”).

Quale disincanto dobbiamo aspettarci da Giorni feriali? Quale ferita stai per infliggerci? O stai per darci una speranza?

Non lo so, sinceramente. È un librino piuttosto agile, spero divertente e sicuramente digressivo. Parla di un ragazzo che perde il lavoro e si mette nei casini, un tipo molto ordinario con una manifesta difficoltà nel dominare i propri sentimenti. Diciamo che dentro ci ho messo tutte le cose che amo di più e che più temo. In ordine sparso: la campagna ravennate, donne disinibite e autoritarie, i due Michael (Mann e Cimino), l’abbandono, la solitudine.

Simone Cerlini

Gruppo MAGOG