05 Gennaio 2023

Dodici occhiate sull’anno: il “Calendhaiku” di Dario Villa

Di Dario Villa, autentico outsider della poesia italiana, Giovanni Raboni – suo spassionato supporter – scrisse, nell’ala che adorna Abiti insolubili (Marsilio, 1995), che era “il migliore e più veridico seguace di se stesso”. Dario Villa, nato acefalo al proprio tempo il 12 giugno del 1953, a Milano, sarebbe morto l’anno dopo. In un altro scritto, Raboni parla di “una malattia atroce vissuta con una sorta di elegante, quasi dandistico eroismo”. Unendo questi due lati – ispirazione autarchica, da privata noche oscura e nonchalance al cospetto della morte, danzata con esasperato estro – si ottiene l’orizzonte lirico di un poeta eresiarca, incomprensibile in un paese castrato dalla rima “cuore/amore”, da periferie verbose ombelicali, da un vuoto avanguardismo, stinto. Chi lo piglia per un Chaplin in poesia, un istrione del rito clownesco, dimentica la dimensione orfica di Dario Villa, che per me, per lo meno, è totale. Esempi sparsi:

…poi, se ci penso, sono
già esistito in passato,
ho già bevuto,
ho già bevuto il liquore
sottile delle stagioni,
con te o con altri mi sono
già inebriato di quest’ora,
di un vino d’ombre, di un atto mancato…

E poi:

veglia? e cos’è? brani di sogno, battiti,
ordite combinazioni di ritmi
e di pelli, il caffè di traverso,
lo zucchero sapeva di cicoria,
le tue mani colombe bizzosissime,
mi volano via in un tintinnio
di cerchietti metallici: la vita
vetro a perdere (scritto trasparente)   

Nell’ultimo testo raccolto nell’atavico volume Tutte le poesie (2001), s’intitola envoi, Villa, tra l’altro, scrive:

l’invisibile porge i suoi saluti
ai lumi e alle potenti
lenti di vari scopi
tele micro caleido e via dicendo
fino agli specchi ustori deformanti
o magici e agli zoom
e ai grandangoli in cui cerchi conforto
e io ti seguo da lontano dietro
i finestrini pieni
di pioggia dei paesaggi che viaggiano
per esplorare un’illusione ottica
o dare al treno il brivido del cinema

Come molte altre cose, Dario Villa mi fu donato da Girolamo Melis, rabdomante dell’improbabile, uomo che amava i poeti e gli incompresi. Il 4 gennaio del 2003, per “il Domenicale”, realizzammo un “Poster del Poeta” dedicato a Dario Villa. A Marco Carnà fu affidato il ritratto di Villa, stralunato e austero assieme. L’occasione era stuzzicante: il “Calendhaiku” che Villa aveva donato a Girolamo – “Giro” per amici e redattori – nel 1993. Un calendario in forma di haiku, per abbagli e bagliori, meraviglia d’ingegno. Così “Giro” ricostruiva i suoi legami con Dario Villa:

“Dario Villa ha sempre vissuto appeso a un filo. Che tentava di spezzare ogni momento del giorno e della notte. Al nostro primo incontro, facemmo una cosa che non stava né in cielo né in terra: io gli offrii un posto di lavoro, e lui accettò. E per qualche anno lui finse di essere un lavoratore e io finsi di essere un datore di lavoro. Dario si trovò a fare i conti con un miracolo mensile e puntuale: uno stipendio. Io dovetti fare i conti con una grazia, un linguaggio, un gioco che mi rese quasi insopportabile la routine del rapporto con gli altri. Ci facevamo regali gratuiti e superflui. A parte i calembour, i calendhaiku, le gags ai tavoli della grande multinazionale, i bigliettini e le paure, devo a lui i due regali più grandi e più pesanti: il rimpianto e la felicità della memoria”.

All’epoca, Girolamo partorì l’idea di mettere le poesie manoscritte dei poeti in cornice: i poeti, quelli veri, sono più autorevoli dei pittori, il loro segno è gesto d’arte. Diceva così. Stampammo, per una casa editrice creata lì per lì, “Smylife”, anche alcuni testi del mio amico Simone Cattaneo.

Daniele Piccini, invitato a scrivere qualcosa intorno al fatale “Calendhaiku” di Dario Villa, ne riconobbe la “parola levitante, vagante, sollevata”; citò Palazzeschi, Giorgio Caproni.

Pubblicammo, a margine del poster, alcuni “Proemi in prosa” di Villa (editi in origine da Scenario, nel 1985). Uno è questo:

“Facevo convergere il conto delle emozioni possibili in pochi gesti decisi ma molli, acquorei ma in fiamme: i gesti in bianconero di un principe in rovina. Essendomi prima smarrito nella vastità oceanica di qualche libro, mi rifiutavo di vivere. Ma continuavo a sentirmi imprigionato tra i ghiacci: i lastroni del tempo che si staccavano come le foche da una banchisa alla deriva e portavano al largo la mia spoglia umile, incristallata nella trasparenza: macchie sospette di sangue scuro sulla posa composta, fin troppo decente, riflessi blu nello spessore, forse di luna, o per il gioco che la luce faceva con qualche sogno superstite”.

Mi piacque una frase: “Mi radicalizzai nella tortura”. Sentivo Dario Villa come un fratello vissuto su un pianeta gemello e parallelo: “Giro” vide in me un avatar di Villa, più selvatico, meno dandy, inappropriato. Pubblicammo anche le “istruzioni” vergate da Villa al suo “Calendhaiku”, queste: “Carissimo, le istruzioni per l’uso di questo calendrier d’amour (calendario da muro?) prevedono dodici occhiate sull’anno, da gettare una volta al mese in un giorno a tua scelta tra l’uno e il trentuno, con l’augurio che dodici occhiate compongano a lungo andare uno sguardo, ecc. Ti abbraccio, Dario”.

Villa preferiva gli editori laterali e latitanti, latebre nella notte dell’editoria di massa, le opere uniche, spesso d’arte, argutamente introvabili; da qualche parte, per uno stampatore di Locarno, risulta un’edizione di Haikai Half a Century. Andrea Zanzotto aveva pubblicato, qualche anno prima, Haiku For a Season.

Il “Calendhaiku” di Dario Villa per un “Felice 93” è questo. Trent’anni dopo, usiamolo come fausto auspicio, come lirico mantra, haiku taumaturgico, da donare agli amici, per la via:

Il primo guaio
di gennaio è gennaio
poi c’è febbraio

giorni febbrili
in bilico su fili
molto sottili

la luce a marzo
non manca di un suo sfarzo
duro, di quarzo

crudele aprile?
forse, ma in puro stile
primaverile

vago passeggia
maggio: vaneggia, occhieggia,
si pavoneggia

tira giù, giugno:
ti arriva come un pugno
in pieno grugno

luglio si mette
un paio di braghette
fresche, e promette

che posto agosto!
l’ombra è un amore, e ha un costo
incorrisposto

settembre è un caffè
chiude la notte alle tre
chissà poi perché

bruma ottobrina
brama sbrana sbobina
nastri di brina

novembre sembra
per sempre: un po’ ti smembra
un po’ rimembra

dicembre è uguale
ovunque: tutto è banale
sotto natale

Ciao, Giro!
Dario Villa
(scade il 31.12.93)

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