10 Marzo 2020

“Si resiste alla tentazione dell’uomo, non si resiste al bisogno del figlio”. Marina Cvetaeva, l’amazzone

La rinuncia? sì, perché la rimozione di una forza esige uno sforzo infinitamente più duro del suo libero dispiegamento, che non ne esige alcuno”. Così Marina Cvetaeva scrive alle prime righe di questa splendida e cruda Lettera all’amazzone (Editori Riuniti, 2014; traduzione di Angela Pavia). La rinuncia, il silenzio e l’attesa sono prove molto più difficili da tollerare rispetto all’impeto tipico della gioventù, che non sa e che non vuole controllare l’onda. La Cvetaeva ci ricorda con queste parole di prestare sempre attenzione a chi “avrebbe tutto da dire – e non schiudere le labbra” perché “ogni volta che rinuncio ho la sensazione fisica di un terremoto dentro di me. Rinuncia? Lotta pietrificata”. Allora la rinuncia è una tra le forme più pure di amore, è movimento che si fa pietra, siamo noi stessi Medusa che della parola facciamo sacrificio nel silenzio.

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Questa lacuna, questo spazio lasciato bianco, questo buco spalancato, nero – è il Figlio”. Marina Cvetaeva con questa frase lapidaria sancisce la lacuna dell’amore. L’amore fallisce come assoluto e smette di essere eterno nell’istante in cui la donna inconsciamente o meno cerca il figlio. Nel momento esatto della possibilità futura, della continuazione del sangue in altro sangue c’è il fallimento del sentimento. Smette di essere amore, diventa dovere. Ecco perché in Lettera all’amazzone la Cvetaeva esplora le possibilità di un amore tutto al femminile: tra due donne non c’è questa lacuna del figlio, l’amore è fermo al tempo presente, non prevede alcun futuro, alcuna proiezione. Ma sarà destinato a incrinarsi perché una delle due, probabilmente la più giovane, finirà per desiderare la proiezione di se stessa in un altro corpo, una delle due cederà alla tentazione del futuro. La coppia “sterile” infatti esiste solo nel presente e nella potenza delle emozioni che paiono estreme, senza soluzione al tempo futuro.

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Ma che ne è degli amanti che vivono in un presente strappato, che abitano una terra che frana? Qui la lacuna del figlio non esiste, nemmeno è pensabile. Marina Cvetaeva è durissima, l’amore tra amanti esiste solo nel momento che accade e poi mai più, quel che è eterno quindi non è il presente ma il ricordo che rimane. “Gli amanti non hanno figli. Sì, ma muoiono. Tutti. (…) Non hanno tempo per quel futuro che è il figlio, non hanno figli perché non hanno futuro, non hanno che quel presente fatto del loro amore e la loro morte sempre presente”. Insomma, nemmeno per gli amanti esiste una tregua. Tolto il buco nero del figlio è comunque presente la morte. Dove finisce l’istante concesso dell’amore ecco giungere la morte. Ma “non si può vivere d’amore. L’unica cosa che sopravvive all’amore è il Figlio”: allora la coppia non esiste, tutto ha una scadenza e poi esplode senza la possibilità del futuro. L’amore esiste solo se coniughiamo i verbi al presente, fuori da qui tutto è cenere se manca la prospettiva del figlio.

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La purezza quindi è per pochi, è per chi resiste nel silenzio, per chi alla fine si pietrifica nella rinuncia. Avere il ventre vuoto, per natura o per scelta, è una condanna. Si diventa donne eterne ma costrette al presente. Non si desidera chi non può garantirci una continuazione in un altro corpo, chi non può trovare un posto sicuro al nostro sangue. Marina Cvetaeva in questa Lettera all’amazzone si confronta con la crudele verità che “quello che conta, per la donna, non è essere amata come una figlia, è un figlio da amare”. Perché “si resiste alla tentazione dell’uomo, non si resiste al bisogno del figlio”. Ma quindi cosa resta delle coppie senza figli se non due solitudini che si mangiano la testa a vicenda, se non un amore mostruoso che si ripete nel presente di tutti i giorni, che scava nei gesti quotidiani. Perché “ci sono gravidanze che durano anni di speranza, eternità di disperazioni”. Ma per una donna rinunciare all’amore di un’altra donna non è semplicemente rinunciare alla singola donna: “dico addio a tutta la razza, a tutta la causa, a tutte le donne in una sola donna”. Ecco la potenza delle parole della Cvetaeva: ci svela che dire addio a un’altra donna è dire addio a noi stesse, è rinunciare al nostro stesso cuore, è la maledizione più tremenda che non può spezzare nemmeno il figlio.

Clery Celeste

*In copertina: Marina Cvetaeva e la figlia Ariadna

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