17 Novembre 2018

Secondo Aldo Cazzullo (o è il suo avatar?) sono un “poveraccio frustrato”. Ha ragione lui. Ecco come, grazie al sommo giornalista, ho scoperto il senso della vita e della verità

Silvano è il custode delle mie ca*ate giornalistiche, l’Isaia delle mie efferatezze retoriche. Abita nelle viscere della Valmarecchia, epicentro romagnolo, luogo di banditi e di pittori, di eremiti e di stronzi. Ieri, dopo aver letto il mio editoriale sulla ‘cazzulleide’ di Aldo Cazzullo, reo, giudizio mio, di aver avvilito Ezra Pound a mero ricordo del suo trionfante passato liceale, a poeta, scrive lui, dei “sogni d’amore infranti” (!?!), lo invia per mail al divo Aldo.

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Dalla mail che corrisponde a quella di Aldo Cazzullo giunge, “inviato da iPhone”, questo messaggio: “Certo, il mondo è pieno di poveracci frustrati, come lei e questo signore. Addio”. Intendendo per lei il caro Silvano, fustigatore della mia verbosità, dovrei essere io questo signore. Ora. Visto che sul mio capo di querele ne son piovute una granata, e visto che faccio di nomignolo San Tommaso, diciamo che forse – nonostante la mail par proprio quella – a rispondere è stato Cazzullo, forse è stato il suo avatar, forse è stato il demonietto peluche che abita nella gabbia toracica del savio Aldo, forse a rispondere è stato il suo factotum o uno che passava per il suo iPhone con il compito di seminare il male nel mondo.

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Di primo balzo, la reazione di Cazzullo – o chi per lui – mi sorprende. Il giornalismo è teatro e il giornalista è il privilegiato che sta sul palco. Dice delle cose a cui altri rispondono. Alcuni con gli applausi, altri con i pomodori e una bombardiera di uova marce. Di norma, qualsiasi cosa io scriva – pallido esempio giornalistico in nulla paragonabile alla baronia del sommo Aldo – riceve una reazione: c’è sempre qualcuno che mi fa una pernacchia, scrive che sono un idiota, che devo cambiare mestiere. Di norma, le reazioni sono due. Se il tizio è macerato nell’insulto e gode nel mandare a cagare il prossimo, lo si lasci nel suo. Altrimenti, bisogna ascoltare.

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Cosa ho mai scritto per aizzare l’aureo Cazzullo – o il suo avatar? Rileggo il pezzo. Parlo di cravatte e di ristoranti di lusso. Io non porto le cravatte e mi accontento di ciò che passa ogni convento. In fondo, l’articolo è intinto di nera ironia, nient’altro. Forse a Cazzullo – o al suo factotum – dà noia quando parlo della “combine dei nani”. Beh, tra i “nani”, al cospetto di Pound, di Céline, di D’Annunzio – ma anche di Gramsci e di Marx, se è per questo – mi ci metto anche io. La natura delle mie letture mi impone di inginocchiarmi davanti al genio altrui. Proprio perché riconosco chi è più grande di me, so di non essere davvero un nano. Inginocchiarsi davanti a una forma perfetta – una musica di Mozart, un quadro del Giambellino, una poesia di Rilke – non significa farsi muti e sudditi, ma grati e sorridenti; non è un gesto di umiliazione ma di umiltà; non è un atto di inferiorità ma di grandezza. Lo abbiamo dimenticato? Allora abbiamo smarrito noi stessi.

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Ad ogni modo, per deformazione professionale – chi scrive di altro non sa nulla di sé – sono pronto a dare ragione a chiunque, sono certo che Cazzullo – o il suo inquilino tecnologico – abbia ragione.

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Poveraccio lo sono davvero, per dire. Sono povero di tutto – non solo di denaro. Abito il nulla. Cazzullo – o il suo gemello – mi fa tirare fuori dallo scaffale un libro che mi è caro, inciso, le Opere spirituali di Charles de Foucauld. Questo florilegio di frasi è come un filo spinato corroso di miele, mi è proprio:

“Stiamo attenti a non attaccare il nostro cuore ad una cosa creata, qualunque essa sia, bene materiale, bene spirituale, corpo, anima…”

“Vuoti di noi stessi e degli altri, senza ricercare né il nostro bene né quello di nessuna creatura in vista di noi e di esse, ma ricercando unicamente la gloria di Dio”

“Non cessiamo mai d’essere completamente poveri… abbracciare la povertà con tutto il cuore, le ricchezze non soltanto sono un bagaglio ingombrante, ma sono anche un pericolo: esse difficilmente sono compatibili col perfetto amore”

“La povertà non è un’economia eccessiva, un’abile amministrazione dei beni… essa consiste nell’avere pochissimi bisogni e nell’avere una suprema indifferenza, un supremo disprezzo verso tutti i beni terreni”

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Non avere bisogni, indifferenza, disprezzo. Sono proprio un poveraccio.

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Quanto alla frustrazione. Anche qui, Cazzullo – o il suo genietto – tocca un tema fondamentale. Il sistema esistenziale odierno è basato sulla frustrazione, intesa come senso d’impotenza, un vuoto che va riempito tirando fuori il portafogli. In realtà, maneggio il vocabolario Treccani, frustrazione è il “sentimento di chi ritiene che il proprio agire sia stato o sia vano”. Il senso di vanità. Beh, lo sperimento continuamente, è vero. Ma è proprio il sentimento della vanità di tutte le cose – scrivo: ma a chi importa?, è un atto così fragile, è un tango sui cristalli – che mi permette di costruire cose durature. Proprio la vanità imperante, imperiale, mi porta a dissipare tutto, a distruggere tutto e a riemergere dai miei frammenti. Già, sono frustrato – ma piglio a frustate la mia ‘delusione’. Soltanto i cretini, d’altronde, credono davvero nel ruolo che esercitano, si pensano immortali, dotati del morbo della certezza.

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Noi siamo pellerossa nelle paludi che stagnano intorno alla metropoli, siamo quelli che con la selce scrivono poemi sulla guancia di vetro dei palazzi, che latrano dal bacino dell’oscurità mentre i baroni ridono. Penso che molto stia cambiando, definitivamente, e in questa incertezza abbiamo la pietà dei cobra, l’avvenire delle colombe.

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Cazzullo – o il suo omologo – chiude il messaggio con limpida onestà. Addio. Addio, a Dio, ti raccomando a Dio, ti metto nelle mani di Dio: esiste saluto più nobile? Non mi manda mica affanculo, che è il saluto contrario – oppure lo stesso, considerando il dio l’ano del mondo. Grazie!

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Così, vedete, grazie a un minimo messaggio del divino Aldo – o del suo gemello – ho capito il senso della vita, la natura della mia conversione. (d.b.)

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