“E prenderei l’eternità”. Una poesia di Emily Dickinson come amuleto
Poesia
Giorgio Anelli
La pubblicazione di “Anabasi”, il poema di Saint-John Perse, tra le opere poetiche fondamentali di ogni tempo, è un evento editoriale. Giorgio Cittadini – già autore di una versione, con notevoli apparati, edita da Ecig nel 2000 – ha curato il testo per l’editore Crocetti. Stampata nel 1924 su “La Nouvelle Revue française”, l’opera si pone come pietra miliare della poesia del Novecento e pietra dello scandalo per i traduttori. “Anabasi” è stata tradotta, nel mondo tedesco, da Walter Benjamin e commentata da Rainer Maria Rilke e Hugo von Hofmannsthal; in Italia, Giuseppe Ungaretti ha cominciato a tradurla dal 1930: la sua versione di “Anabasi” esce nel secondo – e ultimo – numero di “Fronte”, la rivista diretta da Marino Mazzacurati (coadiuvato dall’ottimo artista Scipione) e promossa da Margherite Cetani, nell’ottobre del 1931.
“Quest’Anabasi che presento nella veste italiana, è uno dei rari esempi recenti di poesia epica. È il tentativo audace e riuscito, di fondere nella rappresentazione degli eventi di una gente, il moto lirico, cioè la storia d’un io, dello Straniero, legato ‘ai suoi modi per le strade di tutta la terra’… La natura dominando la civiltà, l’uomo essendo in balia più dell’elemento che della sua opera, in quei luoghi valgono storie e non persone”.
La versione di Ungaretti, pubblicata tra un saggio di Sergio Solmi, un racconto di Guido Piovene e un’opera di Marino Marini, sarà ristampata più volte, ha una notevole potenza, indimenticata:
“Nello stabilirmi con onore sopra tre grandi stagioni, auguro bene del suolo dove ho fondato la mia legge.
Le armi di mattina sono belle e il male. Ai nostri cavalli ceduta, la terra senza mandorle
ci vale questo cielo incorruttibile. E il sole non è nominato, ma la sua potenza è fra noi
e il mare di mattina come una presunzione della mente”.
In quello stesso 1930, Thomas S. Eliot pubblica per la Faber & Faber la propria versione di Anabasis. In quarta ricorre una frase di Eliot, singolare, tratta dalla sua prefazione (che qui pubblichiamo integralmente): “Credo che sia un lavoro della stessa importanza delle ultime opere di James Joyce”. L’Eliot saggista è sempre allusivo e sdoppiato, ha l’innocenza di una serpe: il “metodo mitico” di Joyce – come lo chiamava – gli è utile per forgiare La terra desolata; il ritmo di Saint-John Perse, così arcano, singolare, assoluto, incoraggia la sua ricerca. Tesi esplicitata, nel 1950, in una lettera a Jean Paulhan:
“Certamente, è ormai un quarto di secolo, si trovava Saint-John Perse un poeta difficile. Non si iscriveva in alcuna categoria, non aveva in letteratura né legami né antenati: il suo poema non poteva spiegarsi che con il poema stesso… Si vede la sua influenza in alcuni poemi che ho scritto dopo aver ultimato la mia traduzione… Coloro che esamineranno le mie ultime opere troveranno forse che questa influenza persiste sempre”.
Nel 1954, per Gallimard, l’antropologo e critico letterario Roger Caillois pubblica il primo grande studio sulla Poétique de St.-John Perse, di cui qui, in omaggio a un poeta titanico misconosciuto per difetto di dedizione, si traducono le prime pagine.
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Thomas S. Eliot su “Anabasi” di Saint-John Perse
Non credo che un poema come Anabasi necessiti di una prefazione. Piuttosto, occorre leggere questo testo almeno sei volte – e fare a meno della lettura di una prefazione. Ma questa è poesia che nasce da una traduzione, e i lettori sono naturalmente inclini a chiedere testimonianze e giustificazioni. Dunque, eccomi qui.
Anabasi è testo ormai noto, non solo in Francia ma in diversi paesi europei. Una delle più argute introduzioni al poema è redatta da Hugo von Hofmannsthal, pensata per la traduzione tedesca. Valery Larbaud ne ha scritta una per la versione russa; ne ha scritto Lucien Fabre sulla “Nouvelles Litteraires”. Per quanto mi riguarda, sono stato attratto dalla poesia di un amico dall’eleganza ineffabile, che non necessita di prefazioni.
Non c’è bisogno di ricordare, dopo la prima lettura, che la parola anabasi non si riferisce a Senofonte e al viaggio dei Diecimila, non ci sono particolari richiami all’Asia Minore; non troveremo la trascrizione di alcuna mappa legata a quel viaggio. Eppure, Perse usa la parola anabasi nello stesso senso letterale adottato da Senofonte. Il poema assembla una serie di immagini di migrazione, conquiste di vasti spazi nelle oceaniche distese asiatiche, repertori di città distrutte e fondate, di civiltà di qualsivoglia razza o epoca dell’antico Oriente.
Prendo in prestito da Lucien Fabre due nozioni che possono essere utili al lettore inglese. La prima è che l’oscurità del poema scaturita da una prima lettura è causata dalla soppressione degli “anelli della catena”, da collegamenti, connessioni e spiegazioni, non certo da incoerenza o amore per il crittogramma. Questo metodo è giustificato: si tratta di una sequela di immagini concise e concentrate che forgiano l’impressione di una civiltà barbarica. Il lettore deve cedere, deve lasciare che le immagini si disseminino nella sua memoria, una dopo l’altra, senza discuterne la ragione e la liceità, di modo che, al termine, si produca un effetto totale, assoluto. Esiste una logica delle immagini come esiste una logica dei concetti.
Chi non apprezza la poesia ha spesso difficoltà a distinguere tra ordine e caos nella composizione delle immagini; anche chi è in grado di comprendere la poesia non si lasci irretire dalla prima impressione. Non ho compreso l’ordine delle immagini di Perse se non dopo aver letto cinque o sei volte il suo poema. Se, come suggerisco, tale disposizione di immagini richiede un certo “fondamentale lavorio della mente”, come la disposizione degli argomenti, potremmo attenderci che il lettore di una poesia abbia la stessa disciplina di un avvocato che studia per dirimere un caso complesso. Mi riferisco a questo poema come a un poema. Sarebbe meglio se la poesia fosse sempre in versi: accentati, allitterativi, quantitativi; ma non è così. La poesia non ha limiti e può trovarsi in qualsiasi lato del vortice, che sia “versi” o “prosa”. Senza dotarci di alcuna generica teoria su cosa siano “poesia”, “versi”, “prosa”, posso suggerire che uno scrittore, come fa Saint-John Perse, può, usando metodi lirici, scrivere poesie in forma di prosa. Un altro scrittore, invertendo il processo, potrà scrivere un racconto in versi. Ci sono due difficoltà piuttosto banali ma insuperabili nel definire “prosa” e “poesia”. La prima è che abbiamo tre termini ma ne avremmo bisogno di quattro: possediamo “versi” e “poesia” da un lato, e soltanto “prosa” dall’altro. L’altra difficoltà deriva dalla prima: le parole implicano una valutazione in un contesto, l’opposta in un altro. “Poesia” introduce una esplicita distinzione tra versi buoni o cattivi; non abbiamo parole per distinguere la buona dalla cattiva prosa. In effetti, molta cattiva prosa è detta prosa poetica; i versi, invece, non sono brutti perché essenzialmente prosastici. Ma Anabasi è poesia. Le sue sequenze, la logica dell’immaginario, pertengono alla poesia e non alla prosa; di conseguenza, la declamazione, il sistema di pause e accenti, esibito in parte dalla punteggiatura e dagli spazi, è quello della poesia, non della prosa.
La seconda indicazione fornita da Lucien Fabre è una sinossi provvisoria del movimento del poema. I dieci capitoli del poema sono circoscritti in questo modo:
I. Arrivo del Conquistatore nel luogo della città che vuole costruire;
II. Tracciare la mappa della città;
III. Consultazione degli aruspici;
IV. Fondazione della città;
V. L’inquietudine di nuove esplorazioni e conquiste;
VI .Strategia di fondazione e conquista;
VII. Decisione di procedere;
VIII. Marcia attraverso il deserto;
IX. Arrivo agli ingressi di un nuovo grande paese;
X. Acclamazione, feste, riposo. Tuttavia, l’urgenza di scongiurare un’altra partenza, con il marinaio.
Credo che sia tutto ciò che devo dire sull’Anabasi di Saint-John Perse. Credo che sia un lavoro della stessa importanza delle ultime opere di James Joyce, importante quanto Anna Livia Plurabelle. Dignità e stima coronano quest’opera.
Ho altre due parole, però: una sull’autore, l’altra sulla traduzione. L’autore di questo poema è, perfino in senso pratico, autentico, un’autorità nell’Estremo Oriente; ha vissuto lì, come ai tropici. Quanto alla traduzione, non sarebbe neppure soddisfacente se l’autore non avesse collaborato con me, al punto da esserne quasi l’esecutore. Egli possiede, posso testimoniarlo, una conoscenza intima e profonda della lingua inglese, che padroneggia in modo singolare, proprio.
T. S. Eliot
1930
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La poetica di Saint-John Perse
L’opera di Saint-John Perse appare entro una superba solitudine. Benché non sia difficile scoprirne ascendenti, filiazioni, il lignaggio dei poeti che la precedono, la sua arte peculiare non ha legami con nessun’altra. Non sappiamo da dove tragga la grazia che è la sola a possedere, in grado di scoraggiare ogni imitazione, diretta derivazione di un linguaggio che è soltanto suo. Le poesie di Saint-John Perse sorprendono per un potere enigmatico singolare: la prossimità che le coagula è estrema quanto la distanza da tutto ciò che è stato scritto in precedenza. Dobbiamo rubare all’opera stessa del poeta la formula in grado di chiarificare al lettore impreparato una eccentricità tanto esclusiva: un’unica, lunga frase, senza interruzioni, per sempre incomprensibile.
Tale idea non è la mera conseguenza di un’ispirazione originale, di una sensibilità suprema, di una espressione personale e inimitabile. Non c’è grande poeta di cui, se siamo dotati di una mente attenta, attiva, non identifichiamo l’entità del verso, il ritmo. Lo si riconosce per la peculiare sensibilità, per il modo di modellare il linguaggio di cui è la scaturigine. Ma quando si tratta di Saint-John Perse, la dinamica è facilitata da un elemento più raro, anteriore. Si tratta del tessuto della lingua, che viene modificata quasi che il poeta, non contento della poesia, l’avesse rivestita di una lingua ulteriore… L’imperiale sensazione di unità e concretezza nell’opera di Saint-John Perse proviene dal suo modo di alterare insidiosamente le proprietà della lingua: utilizza un vocabolario spesso insolito, arcano; articola le parole secondo una grammatica propria. Non cerca di sconvolgere l’attenzione, seduce; non confonde, ghermisce. Non c’è nulla di arbitrario né di provocatorio nel modo di trattare il linguaggio, all’opposto, l’autore passa quasi inosservato tra i gangli verbali, mentre rende infallibili i suoi effetti.
Roger Caillois