Curiosa la storia dei gemelli Vaughan. Nati nell’aprile del 1621, da famiglia gallese di alto lignaggio, entrambi frequentarono il Jesus College, a Oxford. Henry, il poeta, si volse a studi medici; Thomas, l’esoterista, maneggiava i testi di Cornelio Agrippa e di Paracelso, citava Pico della Mirandola e il De Harmonia Mundi di Giorgio Veneto; si firmava – istoriandosi un altro nome, secondo i vezzi dell’epoca – Eugenio Filalete. Rosacrociano – aveva tradotto in lingua d’Albione il Fama fraternitatis Roseae Crucis – Thomas Vaughan praticava la Cabbala e compiva, insieme alla moglie, Rebecca, esperimenti alchemici; il motto di Henry, il fratello, dal carattere lunare ma più quieto, era “Moriendo, revixi”, morendo, rinasco, quello di Thomas ricalcava un assioma degli Oracoli caldaici: “Ascolta la voce del fuoco”. Secondo la felice sintesi di Mario Praz:
“Mentre Thomas praticava l’alchimia per ripetere in qualche modo i processi di Dio nella creazione, Henry ricreava il mondo circostante con quella più sottile alchimia che è l’alchimia del verbo”.
In sostanza, Thomas studiava e ‘agiva’ per distillare dal mondo corrotto filatteri di luce; Henry, rabdomante della metafora, forzava i cardini grammaticali perché accadesse la scintilla divina. Viveva nell’albedo, Henry, apparecchiava la poesia come un altare.
Entrambi i fratelli Vaughan sono stati installati da Elémire Zolla, sessant’anni fa, tra I mistici dell’Occidente. Di Thomas Vaughan sono antologizzati alcuni passi dall’Antroposophia theomagica, che raccontano l’avventura speculativa dell’alchimista.
“Dio anteriormente all’opera della creazione si sviluppò e raccolse in se stesso. Sotto tale aspetto gli Egizi lo chiamano Monade solitaria ed i Cabbalisti Alef tenebroso. Ma quando si formò l’intenzione della creazione apparve Alef luminoso ed il primo flusso fu dallo Spirito Santo nel cuore della Materia…
Sole e luna sono due principi magici, l’uno operativo, l’altro passivo, maschile e femminile rispettivamente. Essi si muovono come le ruote della decomposizione e della nascita, sciolgono e ricompongono, benché la luna sia il vero artefice della mutazione della materia inferiore”.
La traduzione di alcuni versi di Henry Vaughan è affidata a Cristina Campo. In una delle poesie più note, The Retreate (tradotta da CC come Il rifugio), Henry delinea il suo tragitto estetico-alchemico: il ritorno all’innocenza perduta, quando il bambino suggeva il sigillo di Dio, il frutto del creato:
“C’è chi ama, col moto, progredire: Io cerco il passo che mi porti indietro, E, quando cada nell’urna questa polvere, Ritornare allo stato donde mossi”.
Thomas morì durante un esperimento alchemico, nel 1666, poco dopo aver fatto stampare, ad Amsterdam, uno dei più reconditi testi dell’alchimia filosofica, il Reconditorium ac reclusorium opulentiae sapientiaeque numinis mundi magni.
Il fratello gemello, Henry, nel frattempo, aveva già attraversato la crisi mistica, favorita dalla lettura di George Herbert, ritirandosi con la moglie – che gli aveva dato quattro figli – nelle campagne gallesi. Da ragazzo si faceva chiamare “Silurist”, come la popolazione britannica, i Siluri, che seppe fronteggiare l’avanzata delle legioni romane. Morì poco dopo aver compiuto 74 anni. “Decise di passare il resto dei suoi giorni nell’assistenza dei malati e nella contemplazione dei misteri divini, vicino alla natura che, come nei giorni della sua infanzia, poteva rivelargli ‘ombre dell’eternità’” (Mario Praz).
Henry Vaughan fa parte del gruppo dei cosiddetti “Metaphysical Poets” che – insieme a John Donne, George Herbert, Richard Crashaw e Andrew Marvell – costituiscono il cuore del canone poetico inglese, fatto di allusioni, inquietudini retoriche, balzi sapienziali, arditezze linguistiche. Secondo Thomas S. Eliot, che nei “metafisici” trova i suoi pari, i suoi padri, essi costituiscono ciò che per noi è stata l’avventura stilnovista, “sono di volta in volta semplici, artificiosi, difficili, immaginifici: né più né meno che Dante, Guido Cavalcanti, Guinizelli o Cino da Pistoia”. È dunque attraverso di loro che va scoperta la chiave della ‘modernità’, riconciliando la poesia con il suo statuto conoscitivo, verbo che libra nei dedali divini.
Tra i “metafisici”, Vaughan, quando è in estro, è il più puro, quello che con autentica destrezza sa scostare il velo dal Volto; è il poeta che sprofonda nei misteri, ne scosta il limo, umetta le sacre penne arcangeliche. Dicono uscisse di rado dalla sua contea: si fece pellegrino nei sentieri oscuri, mentali, di Dio – contemplazione che irrompe nel labirinto. Amato da Dylan Thomas, Henry Vaughan fu compreso pienamente dalla scrittrice gallese Margiad Evans, che del poeta fece la sua guida. Vaughan, scrive la Evans, conduce nella “profonda ma accecante oscurità” che è l’antiporta dell’incontro con Dio; Vaughan insegna a scoprire le tracce divine nel creato, autentico geroglifico del Padre. L’uomo ha deviato dalla rotta armonica impressa da Dio: deve farsi insetto e bestia, foglia e rio, pietra e ape per ritornare a Lui. “Proprio come si leggono le poesie di Vaughan, così si deve leggere il mondo – prima di tutto per la sua bellezza e in secondo luogo per la sua sacralità”, scrive la Evans. La poesia, allora, moto di falco, rettitudine del regno, ragione del lupo, è il pentagramma del mondo: leggerla non vuol dire ricreare ma ricongiungersi, annuire alle nozze.
“Dicono che in Dio sia oscurità profonda, che abbaglia, ma gli uomini quaggiù, dicono che è tardi, che il buio esiste quando non si vede con chiarezza. Oh, cosa farei per quella notte! Dove io in Lui potrei vivere invisibile e inerme!”
In un’intervista rilasciata nel 1974 al “Daily Telegraph”, Philip K. Dick disse che Henry Vaughan era il suo poeta prediletto: “Sono sempre stato sedotto e influenzato dai poeti metafisici del XVII secolo, più di tutti da Henry Vaughan”. La trasmigrazione di Timothy Archer, l’ultimo libro di PKD, pubblicato nel 1982, cita, a mo’ di cristallino monito, una quartina di Vaughan da Friends Departed:
“Disperdi queste nebbie, che mietono macchie dai miei occhi mentre scorrono: oppure, rimuovi me e questo colle, portami dove non avrò bisogno di occhiali o di corollari di vetro”
Il poeta del balenio mistico, della malinconia a lampi, credeva che la luce fosse una tagliola: segugio del buio, Vaughan sapeva che la poesia non è un farmaco né una briglia. Semmai, una scala – meglio ancora: una botola.
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Il mondo
Vidi l’Eternità, l’altra notte: Grande Anello di pura, eterna luce Calma quanto era fulgida; E in cerchio, sotto, il Tempo, in ore, giorni, anni, Sospinto dalle sfere Come una grande ombra si muoveva. Ed il mondo Con tutto il suo corteggio V’era scagliato dentro…
(traduzione di Cristina Campo)
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Amore e Disciplina
In una terra non ancora sterile (perché Tu distilli la Tua grazia) è caduto il mio fato: Tu sia benedetto!
Folgoranti gelate uccidono la gramigna che mi funesta: con abilità hai conficcato il Tuo seme!
Benedetta la rugiada, benedetto il gelo gioisco nell’essere crocefisso e guarito dalla croce per Tuo favore.
La rugiada rallegra gli afflitti il gelo rammenda il malato: comunque, Tu operi il meglio.
Così, mentre la Tua misericordia trama e opera su di me ora con il gelo ora con il caldo, il lavoro procede e non si placa;
la Tua mano governa il tempo e io cresco tra gioia e pianto: l’anno ha orecchie sempreverdi.
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Morte. Un dialogo
Anima: Triste terra che in un giorno ti ha spento; verrà la morte a congelare il tuo sangue, e tu resterai così immobile inquilino dei secoli: come puoi accettarlo?
Corpo: Non so risponderti ma se tutti i sensi non si volatilizzano in te e qualcosa è ancora concesso ai morti voglio che le mie cortine si abbattano per liberarmi da questo oscuro letto:
nido di notti, greve sfera dove le ombre si accalcano, e la nube regge sul cranio solare tutto l’anno e nulla si muove senza il suo sudario.
Anima: È così – ma in quelle notti abbiamo elaborato i primi attentati cupi, orbati, eppure, la paura si è voltata in contegno, il disprezzo in gioco –
poi, quando gli spettrali dodici sono passati, abbiamo sperato nel rosso Oriente: ordinò al sole, impigrito, di affrettarsi per un banchetto di vaghe, dilatate speranze.
Ma le nuvole si incrinarono luce scodinzola dalle fessure: pensammo che il giorno non avesse le gambe spezzate – il timore ci ha saziato.
Questa è la morte. Ma tu dormirai nel petto di tua madre mentre io gemo ad ogni minuto perché Redenzione arriva.
Ci incontreremo, allora, per mescolarci ancora: l’ultima buona notte, il nostro sole non avrà tramonto.
Giobbe, X, 21-22: “prima che me ne vada, senza ritorno, verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte, terra di oscurità e di disordine, dove la luce è come le tenebre”
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La veglia: un dialogo
Corpo: Addio! Entro nel sonno ma quando la stella del giorno sorgerà, mi desterò ancora.
Anima: Dormi in pace; quando sarai avvolto nella polvere, quando il mondo non sarà che una goccia e ciò che vedi verrà privato di ogni nome possa la pace esserti al fianco, e la tua cenere inscritta nel libro di colui che non tradisce mai l’uomo.
Corpo: Amen! Ma dimmi, prima che ci dileguiamo, quanto ci vorrà da qui alla fine?
Anima: Vai, debole, gonfio di sonno. Il cielo è un orologio semplice, senza vassalli il vento soffia su tutte le ere; chi ha forgiato il cerchio lo riempie e giorni e ore sono orbati. Eppure, serba in te questo: l’ultimo sussulto del tempo è il tuo primo respiro, eterna primizia dell’uomo.