Che balorda idiozia il mercato dell’arte, le folle in estasi davanti a un quadro, lo sbigliettamento a go-go, l’ipnosi collettiva per cui siamo tutti artisti dacché abbiamo qualcosa da dire. Bugia che partorisce frustrazione e chiacchiere, l’ignavia delle viltà inferiori. L’arte a tutti i costi e a tutti i prezzi per una massificata educazione che non riguardi la dedica, il ritiro, lo spogliarsi, la comprensione che non ogni cosa è accessibile, ben disposta, nostra, è meccanica infera. Che sgradevole istinto, prossimo all’ira, quando sentiamo che bisogna incentivare la lettura, invogliare a visitare i musei, invitare – sotto coercizione scolastica o etimo turistico – nei luoghi dell’arte (quali?), e magari approssimarsi al foglio perché ogni espressione del nostro sentire è, comunque, poesia, evviva! Questa visione irenica, egualitaria, stupida, priva di sfarzo e di cilicio, di offesa e di ferocia, non è arte ma dottrina dell’intrattenimento, semmai.
Per Raffaelli, editore elitista come pochi – fa libri belli ma introvabili, snobba la filiera della distribuzione e le meretrici dell’informazione – esce una specie di manuale controcorrente, s’intitola Contro l’Arte per tutti, a cura di Chetro De Carolis.“Ognuno, ogni singolo essere umano, in quanto partecipe della natura divina, è chiamato a elevarsi e a offrirsi a Dio attraverso l’Arte. Ognuno, non tutti. Ognuno, non tutti”, scrive la curatrice, che ha assemblato testi di Mallarmé – di cui, per altro, per Marsilio ha tradotto le Poesie, nel 2017 –, Baudelaire e Poe. Di Mallarmé ha selezionato un articolo di cui ricalchiamo una parte; nelle Nuove note su Edgar Allan Poe, Baudelaire suggerisce un pensiero che diventerà totem, anatema, imitazione, iniziazione: “Per natura, persino per necessità [l’uomo selvaggio] è enciclopedico, mentre l’uomo civilizzato si ritrova confinato nelle regioni infinitamente piccole dello specialismo. L’uomo civilizzato inventa la filosofia del progresso per consolarsi della sua abdicazione e del suo decadimento; mentre l’uomo selvaggio, sposo temuto e rispettato, guerriero costretto alla prodezza personale, poeta nelle ore malinconiche in cui il sole calante invita a cantare il passato e gli antenati, rasenta al massimo il limine dell’ideale”.
Non è brutto scoprirsi incapaci, dunque in un’audace ascesi.
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Che un filosofo ambisca alla popolarità me lo fa stimare. Non stringe le mani sulla manciata di verità radiose che trattengono; le sparge, ed è cosa giusta che ogni suo dito ne lasci una scia luminosa. Ma che un poeta – un adoratore del bello inaccessibile al volgo – non si accontenti dei suffragi del sinedrio dell’arte, mi irrita e non lo capisco.
L’uomo può essere democratico, l’artista si sdoppia e deve restare aristocratico.
Eppure abbiamo sotto gli occhi il contrario. Si moltiplicano le edizioni a buon mercato dei poeti, e ciò col consenso o col contento dei poeti. Credete di guadagnare in gloria, o sognatori, o lirici? Quando solo l’artista aveva il vostro libro, a qualsiasi costo, avesse pure dovuto pagare con l’ultimo dei suoi miliardi l’ultima delle vostre stelle, avevate veri ammiratori. Adesso questa folla che vi acquista per il vostro piccolo profitto, vi capisce? Già profanati dall’insegnamento, un’ultima barriera vi teneva al di sopra dei suoi desideri – quella dei sette franchi da sborsare – e voi buttate giù questa barriera, imprudenti! O nemici di voi stessi, perché (più ancora con le vostre dottrine che col prezzo dei vostri libri, il quale non dipende solo da voi) incensare e predicare proprio voi questa empietà, la divulgazione dell’arte! Camminerete dunque accanto a coloro che, cancellando le note misteriose della musica, ne aprono gli arcani alla massa, o a quegli altri che la propagano a qualsiasi costo nelle campagne, contenti che si suoni stonato, purché si suoni.
Penserete forse a Corneille, a Molière, a Racine, che siano popolari e glorificati? Macché, il loro nome, può darsi, i loro versi nient’affatto. La folla li ha letti una volta, lo professo, senza comprenderli. Ma chi li rilegge? Soltanto gli artisti.
Puniti, per altro, lo siete già: vi è capitato di farvi sfuggire, tra tante opere incantevoli o folgoranti, qualche verso che non ha quel vertiginoso profumo di distinzione suprema. Ed è che è proprio questo che la vostra folla ammirerà. Vi dispererete nel vedere i vostri veri capolavori accessibili soltanto alle poche anime elette e trascurati da quel volgo dal quale avrebbero dovuto essere ignorati.
L’ora è grave: l’educazione si fa nel popolo, si diffonderanno grandi dottrine. Fate che, se divulgazione vi dev’essere, sia quella del bene, non quella dell’arte, e che i vostri sforzi non giungano e quella cosa, grottesca se non fosse triste per l’artista di razza: il poeta operaio.
Che le masse si occupino di morale, ma, di grazia, non concedete loro di guastare la vostra poesia.
O poeti, siete sempre stati orgogliosi; ora siate di più, diventate sprezzanti!