Riflettere sulla diffusione della rappresentazione del teschio, sempre più riprodotto in pittura a partire dal XVI secolo nel contesto iconografico del memento mori, ci induce soppesarne il significato. Il teschio si cela dietro la faccia ma la nega: se le qualità epidermiche del volto caratterizzano l’individuo, il teschio lo riporta nell’indistinto, negando quell’unicità che è la manifestazione del principio identitario di ogni essere umano. È un oggetto paradossale, qualcosa che ci appartiene ed è unico, ma che, apparentemente, non ci distingue. Valutazioni di questo tipo riguardano un piano generale della percezione, incoerente rispetto un avvicinamento con metodi scientifici; ed è chiaro che uno specialista della materia avrebbe cura di sottolineare come anche il teschio esprima un’unicità nella caratterizzazione, la quale, per chi è in grado di leggerla, risulta altrettanto efficace di quella espressa dai tratti del volto. Tuttavia, la nostra facoltà di percepire per simboli, di vedere attraverso lo specchio, ci costringe a una comprensione insufficiente di quell’enigmatico linguaggio osseo. Forse altrove il teschio potrà essere visto come un volto, ma non qua, dove il suo mistero disegna una nera fisionomia che non può che lasciarci interdetti.
Non casualmente, l’assenza del volto come negazione dell’individualità rappresenta per diverse culture il riflesso di un terrore viscerale, la paura di perdersi nell’assoluto, nel nulla. Roberto Terrosi riporta in un suo studio sul ritratto alcune leggende giapponesi trascritte da Lafcadio Hearn, un giornalista che giunse in Giappone alla fine del XIX secolo. Questi racconti sono incentrati sulla presenza ambigua e terrificante di persone a cui spariscono i tratti del volto. Si tratta di una tipologia di fantasma codificata nella cultura giapponese e denominata noppera-bō (“fantasma senza volto”); esseri con sembianze umanoidi ma privi di faccia.
Anche in questo caso, credo che si debba intuire un segno di quella stessa negazione dell’identità che caratterizza il teschio. Sarebbe, questa, la stessa dinamica che rende certi dipinti di Francis Bacon – in cui il volto è deformato fino alla illeggibilità – così sinistri; e sarebbe questo lo stesso principio alla base della diffidenza che abita i manichini. Possiamo inseguire questa paura dell’indistinto attraverso campi e culture differenti. Uno studioso di robotica, il giapponese Masahiro Mori, si è occupato della percezione del volto degli automi, sottolineando come la familiarità dell’uomo che si interfaccia con il robot aumenta in base all’incremento della sua somiglianza con l’essere umano, fino a un punto in cui il realismo estremo determina una rottura e suscita un profondo turbamento, portando la nostra percezione in una zona che egli definisce, recuperando la categoria freudiana, valle del perturbante. Anche qua dovremmo far riferimento alla stessa paura che attribuiamo al teschio: quando l’automa ottiene la possibilità di avere un volto perfettamente umano – ma, nondimeno, artificiale – esso minaccia la nostra individuazione. Un volto artificiale perfettamente realistico è potenzialmente in grado di appropriarsi di qualsiasi identità, negandoci il privilegio della nostra unica caratterizzazione. Un ragionamento analogo riguarderebbe anche la figura del clone, dove il fascino mostruoso dell’ircocervo biologico si intreccia al tema del Doppelgänger, sinistro sosia ambasciatore di sventure.
Di tutto ciò si costituisce il fascino del teschio, che tanto successo ha avuto nella storia dell’arte. La rappresentazione esplicita della morte attraverso il teschio contamina anche il ritratto, spesso nell’intendimento di creare un monito morale. Non si tratta, quindi, di generiche rappresentazioni di figure umane corredate del lato oscuro dell’espressione della morte, ma di precisi e fedeli ritratti in cui è esibito il macabro simbolo. Di questa dinamica rappresentativa non mancano casi più o meno efficaci. Accenniamo, qui, al dittico che ritrae che ritrae Jean Carondelet, consigliere di Carlo V. Il pittore è il fiammingo Jan Gossaert, noto anche come Jan Mabuse e l’opera risale al 1517. Sul retro della valva con il ritratto dell’uomo è presente il memento mori, il cui teschio presenta la suggestiva variazione della mascella divelta, come a sottolineare l’interruzione di ogni appello cui la morte costringe. Secondo modalità simili, ma esibendo il teschio sullo stesso piano della raffigurazione del ritrattato, ricordiamo l’autoritratto di Aelbrecht Bouts. Il teschio qua è addirittura protetto all’interno della veste dell’uomo, custodito con cura, nella volontà di sottolineare come la morte sia qualcosa che ci appartiene profondamente. Un ultimo esempio che segue la stessa modalità di rappresentazione è riscontrabile nel noto dipinto di Hans Holbein, Gli Ambasciatori. Sono ritratti Georges de Selve, vescovo di Lavaur, e Jean de Dinteville, ritratto sulla sinistra, ambasciatore francese a Londra e collaboratore del re di Francia Francesco I. In questo caso il teschio non è esiliato sul retro del dipinto ma, con grande arguzia e abilità tecnica, è esibito davanti ai due personaggi, seminascosto in una deformazione prospettica che lo rende visibile soltanto da una certa angolazione. La presenza del teschio, benché attenuata dall’anamorfosi, stride con la ricchezza e la vitalità dei due uomini.
Vediamo ora il singolare monumento funebre di Giovanni Battista Gisleni nella chiesa romana di Santa Maria del Popolo. È un raro caso di una commistione di più registri espressivi: la pittura nel ritratto dipinto – ascrivibile a Jacob Ferdinand Voet – la scultura nel terribile alter ego scheletrico del titolare della tomba, e la scrittura. Il monumento è stato infatti corredata dal Gisleni di un volumetto stampato in pochissimi esemplari, recentemente riscoperto da Gianpasquale Greco. Si tratta di una sorta di libro di istruzioni che illustra la simbologia della tomba e che testimonia un gusto tardomanierista ed estremamente intellettualistico.
La rappresentazione della figura scheletrica non deve essere vista come un generico richiamo alla morte, bensì come un ritratto del Gisleni da morto, di un suo doppio raffigurato defunto e scheletrico. La figura è racchiusa dietro una inferriata, probabilmente in riferimento alla condizione dell’anima intrappolata per un certo periodo di tempo nel Purgatorio. Nell’iscrizione vicino al ritratto leggiamo «nec hic vivus» e in quella vicino allo scheletro «neque illic mortuus», secondo la compenetrazione tra vita e morte che stabilisce una parte fondamentale della riflessione rinascimentale sul memento mori.
Antonio Soldi
*In copertina: Memento Mori sul retro del Ritratto di Jean Carondelet, Jan Mabuse, 1517
*Si pubblica un estratto del seminario “La morte nella ritrattistica. Memento mori, simbologia del defunto e rappresentazione esplicita del morto nella pittura moderna” (Antonio Soldi, Università IULM, Milano, 24 ottobre 2023).