21 Marzo 2021

Nel mattatoio della pittura. Milan Kundera su Francis Bacon

I ritratti di Bacon mettono in questione i limiti dell’‘io’. Fino a che grado di distorsione un individuo rimane se stesso? Fino a che grado di distorsione un essere amato rimane un essere amato? Per quanto tempo un volto caro che si allontana a causa di una malattia, della follia, dell’odio o della morte resta ancora riconoscibile? Dove è posto il confine superato il quale un ‘io’ smette di essere ‘io’?

Da molto tempo, nella mia immaginaria galleria di arte moderna, Bacon e Beckett formavano una coppia. Poi lessi l’intervista con Archimbaud: “Mi ha sempre sorpreso l’accostamento fra me e Beckett”, dice Bacon. E poco più avanti: “Ho sempre pensato che Shakespeare abbia espresso in maniera più forte e più esatta quello che Beckett e Joyce cercano di dire”. E ancora: “Mi chiedo se le idee di Beckett sulla propria arte non hanno finito per uccidere la sua opera. Vi è in lui qualcosa di troppo sistematico e insieme di troppo colto, ed è quello che mi ha sempre infastidito”. E per finire: “In pittura si concede sempre troppo all’abitudine, non si elimina mai abbastanza; ma con Beckett ho spesso avuto l’impressione che a furia di eliminare non sia rimasto niente, e che in definitiva questo niente suonasse vuoto…”. Quando un artista parla di un altro artista, parla sempre (di riflesso, o in modo trasversale) di se stesso, e proprio in questo risiede il valore del suo giudizio. Che cosa ci sta dicendo di sé Bacon quando parla di Beckett? Che rifiuta di essere classificato. Che vuole proteggere la propria opera dagli stereotipi. Ma non solo: che resiste ai dogmatici del modernismo, i quali hanno innalzato una barriera fra la tradizione e l’arte moderna, come se quest’ultima rappresentasse, nella storia dell’arte, un periodo isolato, con specifici e incomparabili valori, e con suoi criteri del tutto autonomi. Bacon si riallaccia invece alla storia dell’arte nella sua totalità: il XX secolo non ha cancellato i debiti che abbiamo nei confronti di Shakespeare. E ancora: si rifiuta di esprimere in maniera troppo sistematica le sue idee sull’arte, nel timore di soffocare così la sua creatività inconscia, e nel timore che la sua arte si trasformi in una sorta di messaggio semplicistico. Egli sa che il rischio è grande, tanto più che l’arte del nostro secolo è incrostata di una chiassosa e opaca logorrea teorica che impedisce a un’opera di entrare in contatto diretto, non mediato, con colui che la guarda (o la legge, o la ascolta). Appena può, Bacon confonde le piste per disorientare gli esegeti che vogliono ridurre la sua opera a un programma elementare: è restio a usare, a proposito della sua arte, il termine ‘orrore’; sottolinea il ruolo decisivo che ha, nella sua pittura, il caso (un caso intervenuto nel corso del lavoro: una chiazza di colore posata in modo del tutto fortuito, che cambia di colpo il soggetto); insiste sulla parola ‘gioco’ mentre in genere non si fa altro che esaltare la drammaticità dei suoi dipinti. Gli si parla della sua disperazione? Sia pure, ma, precisa subito, in questo caso si tratta di una disperazione gioiosa. […]

Al pari di Bacon, Beckett non si faceva illusioni sul futuro del mondo né su quello dell’arte. E nel momento in cui tutte le illusioni crollano hanno entrambi la stessa reazione, straordinariamente interessante e significativa: le guerre, le rivoluzioni e il loro fallimento, i massacri, l’impostura democratica – tutti questi temi sono assenti dalle loro opere. Nel Rinoceronte Ionesco si interessa ancora ai grandi problemi politici. In Beckett non c’è niente di analogo. Picasso dipinge Massacro in Corea: un soggetto inimmaginabile in un quadro di Bacon. Quando si vive la fine di una civiltà (così come Beckett e Bacon la vivono o pensano di viverla) il confronto ultimo e brutale non è più quello con una società, uno Stato, una politica, ma quello con la materialità fisiologica dell’uomo. Ecco perché il grande soggetto della Crocifissione, che un tempo concentrava in sé tutta l’etica, tutta la religione, diciamo pure tutta la storia dell’Occidente, nella pittura di Bacon si tramuta in un semplice scandalo fisiologico. “Mi hanno sempre colpito le immagini di mattatoi e di carne macellata, e per me sono strettamente legate alla Crocifissione. Ho visto fotografie straordinarie di bestie colte nel momento in cui venivano condotte al macello. E l’odore di morte…”.

Associare Gesù crocifisso ai mattatoi e alla paura delle bestie condotte al macello potrebbe sembrare sacrilego. Ma Bacon non è credente e la nozione di sacrilegio non rientra nel suo modo di pensare; per lui “l’uomo si rende ormai conto che la propria esistenza è un puro accidente, del tutto privo di senso, e che lui stesso deve senza ragione stare al gioco fino in fondo”. Da questo punto di vista, Gesù è appunto un accidente che, senza ragione, è stato al gioco fino in fondo, e la croce rappresenta proprio la fine del gioco. No, qui non c’è sacrilegio, c’è invece uno sguardo lucido, triste e pensieroso che cerca di cogliere l’essenziale. E che cosa si rivela di essenziale quando tutte le utopie sociali sono svanite e l’uomo vede “annullarsi qualunque possibilità religiosa”? Il corpo. Il solo Ecce homo, evidente, patetico e concreto. Perché non ci sono dubbi: “noi siamo carne, siamo carcasse in potenza. Quando vado dal macellaio sono sempre stupito di non essere appeso là, al posto dell’animale”. Questo non è né pessimismo né disperazione: è una semplice evidenza, abitualmente offuscata dal nostro appartenere a una collettività che ci fa velo con i suoi sogni, i suoi entusiasmi, i suoi progetti, le sue illusioni, le sue lotte, le sue cause, le sue religioni, le sue ideologie, le sue passioni. E poi, un giorno, il velo cade e ci lascia soli con il corpo, alle mercé del corpo, come la ragazza di Praga che, sconvolta dall’interrogatorio, andava in bagno ogni cinque minuti. Quella ragazza era ridotta alla sua paura, alla furia delle sue viscere e al rumore dell’acqua che sentiva scorrere nel serbatoio dello sciacquone esattamente come io la sento scorrere quando guardo Figura davanti a un lavandino del 1976 o il Trittico del 1973 di Bacon. Ciò che la ragazza doveva affrontare non era più la polizia, ma il proprio intestino; e se qualcuno ha presieduto, invisibile, a quella piccola scena di orrore, non è stato certo un poliziotto, un apparatnik, un carnefice, ma un Dio, o un anti-Dio, il Dio cattivo degli gnostici, un Demiurgo, un Creatore, colui che ci aveva presi in trappola per sempre con questo ‘accidente’ del corpo da lui costruito nel suo laboratorio e di cui, per qualche tempo, noi siamo costretti a diventare l’anima. Bacon, in questo laboratorio del Creatore, andava spesso a curiosare: lo si vede, per esempio, nei quadri intitolati Studi del corpo umano, in cui egli lo smaschera, questo corpo umano, come puro ‘accidente’ – un accidente che avrebbe potuto essere fatto anche diversamente, che so io, con tre mani, per esempio, o con gli occhi sulle ginocchia. Questi sono i soli suoi quadri che mi riempiono di orrore. Ma è ‘orrore’ la parola giusta? No. Per la sensazione che suscitano la parola giusta non esiste. Ciò che essi suscitano non è l’orrore a noi noto, quello delle follie della Storia, della tortura, della persecuzione, della guerra, dei massacri, della sofferenza. No. È un orrore diverso: proviene dal carattere accidentale, repentinamente svelato dal pittore, del corpo umano.

Che cosa ci rimane quando si è scesi così in fondo? Il volto. Il volto che cela “il tesoro, la pepita, il diamante nascosto” quell’‘io’ infinitamente fragile che rabbrividisce dentro un corpo. Il volto sul quale fisso lo sguardo per trovare in esso una ragione per vivere questo “accidente privo di senso” che è la vita.

Milan Kundera

*Nel 1996 Gallimard pubblica come “Entretiens avec Michel Archimbaud” un libro in cui Francis Bacon si denuda e macella, dialogando. La prefazione è di Milan Kundera. Qui ne riproduciamo una parte, che integralmente, nella traduzione di Ena Marchi, si può leggere qui.

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