09 Febbraio 2020

“Ecco scendere la grande potenza dell’Anonimato”. Edward Hopper, “The Lonely House”, nella traduzione narrativa di Michele Montorfano

Guardando, potremmo immaginare che questa casa sia una quinta teatrale e che le due figure che le giocano davanti, una raspando la terra come se stesse cercando o nascondendo qualcosa, l’altra sorvegliando o semplicemente guardando, siano il pieno atto pirandelliano di sovversione dello spettacolo; quello sfasamento che colpisce tanto il pubblico nello spazio nero della sala quanto i suoi interpreti e che, come granelli luccicanti, trasporta entrambi tra l’interno e l’esterno di una medesima arte.  Ma se con la nostra mano coprissimo parte dell’incisione iniziando dall’estromettere la facciata più dettagliata con tutte le sue tramature, noteremmo un nuovo mondo spalancarsi. La parete alta e solida è diventata un muro scosso da linee grigio-nere che lo inquietano, lo induriscono e le finestre, quella linea tratteggiata che sale verso il cielo, sono diventate immobili e sinistre, feritoie di mura fortificatorie. Che il mondo sia lontano con il suo vociare e l’insistenza dei rumori è presentato a sinistra da quel cerchio nero slabbrato, sfrangiato e che si apre come un’infinita distanza nella natura, nei suoi scuotimenti, nella sua presente desolazione. Così solitarie le due figure femminili risorgono con ferocia. La povertà che le investe contro questo rudere è ora così vigorosa e atroce da farle sembrare l’unica bandiera di una gioventù arrivata alla marcatura della frontiera, sulla linea di una soglia che non ha niente da offrire davanti a sé tranne tutta la crudeltà di un resto, la pura attestazione della fine che tarda a scomparire, come un corpo che ancora parla attraverso l’immagine definitiva del suo cadavere esposto. Se ora spostassimo la mano e mettessimo in vista l’altra faccia dell’edificio facendo scomparire la storia appena raccontata, vedremmo davanti ai nostri occhi sorgere tutto un turgore di neri, buchi, macchie dalla trama sfilacciata, marezzature, bruciature come quella della finestra in alto a sinistra, con il suo alone marcato e scorciato. Ombre che cedono e minano la prospettiva da dentro, nel suo sottocuore, rendendo i neri costruiti e riempiti da un oscuro piacere per l’ornamento, ricchi come un drappeggio barocco, tramati in un tessuto denso e che sollevano nell’aria un pulviscolo di calore, il mosaico di una narrazione interrotta. L’esempio è la porta principale dell’edificio, una corona d’oscurità dove le due colonne che la circoscrivono sembrano configurarla in una piega scavata tra due rigonfiamenti, una ferita circondata dalla planarità della pelle e dall’aria che la arrossa.

I quattro scalini aggettanti sulla strada proseguono l’inquietudine di questa casa fino al selciato bianco e senza scosse, come la lastra del cielo alle spalle dell’edificio che si dona in una chiarità cremosa, invalicabile e impenetrabile. Poi, come un frammento di spazio nel quale cercare di fuggire, ancora la natura densa e selvatica nella sua matassa di rovi e terra smossa, più impaziente della precedente per quelle macchie orizzontali e quei tratti spessi nel centro del suo volume, tanto da darci l’impressione nella sua crescita continua e senza arresto, di schiacciarsi contro il caseggiato fino a spingerlo, a estirparlo dalle sue fondamenta. Tre strade quindi, tre piste che si presentano e si allargano a mano a mano che con gli occhi proviamo a cercarne i contorni. La scena pirandelliana, la gioventù e il corpo esposto della frontiera, i turbamenti del nero. Tre storie si presentano e si concedono una all’altra, una nell’altra. Si scambiano di posizione nella sequela delle linee, si cancellano tra i solchi scavati dalla punta sottile sulla lastra, si nascondono ognuna negli angoli e nelle pratiche dei nostri occhi, della nostra mano che le copre e le omette per stanarle. E allora viene da pensare che nella luminosa partecipazione di questo tutto, qualcosa resista e si confonda. Qualcosa che fa oscillare e unisce il primo piano e lo sfondo, il cielo, il cemento, la strada, il buio degli antri. Qualcosa come un salto, un lampo di luce che zigzaga tra queste piste, che le rompe come fosse la notte, che le espone fino a storpiarle, a cucirle nelle loro differenze, a forarle, a permettersi di forarsi per cucire le distanze. Sì, è qualcosa che le slabbra facendole diventare buchi profondi dove noi cadiamo impauriti e stanchi o che saltiamo come fossero piccoli accidenti del terreno quando siamo spinti da una passione accecante. Qualcosa che si concede nella speranza spesso abiurata del farsi rincorrere, rintracciare e che rimette in scena tutto lo spazio, lo avvicina con un gesto breve, isolato, incuneandosi tra gli strati, sul crocicchio di ogni pista, facendo esplodere un’altezza che è uno sforzo di liberazione nel corpo voltato della sua solitudine. È questo qualcosa umbratile e opaco che si mostra cedendo alla tentazione del tentare e subito indietreggia, fugge ritirandosi nelle pieghe ventricolari del proprio cuore innocente.

Ecco scendere la grande potenza dell’Anonimato.

Michele Montorfano

*In copertina: un particolare da “The Lonely House” (1923), di Edward Hopper

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