09 Gennaio 2025

Il conformista al potere. Su Chiara Valerio e l’arroganza delle lobby della cultura

«Oggi con desolazione su Robinson mi ritrovo a mia insaputa coinvolta in un’operazione commerciale fuorviante e avvilente, in cui si presenta Una stanza tutta per sé, utilizzando la bella traduzione dell’amica Maria Antonietta Saracino, da tempo scomparsa, con le mie note al testo, riprese entrambe dai Meridiani Mondadori da me curati. Tutto questo al fianco di una mediocre scrittrice di romanzi rosa, che firma la prefazione, e la postfazione di una scrittrice, polemista, giornalista, editorialista, organizzatrice di eventi culturali, e chi più ne ha più ne metta, che si ostina ancora a non distinguere tra “Al Faro” e “Gita al faro”. Quest’ultima, poi, su Instagram si avventura a supporre che sempre Virginia, mossa dalla sua inesauribile curiosità, magari avrebbe usato Tik tok… […]

Il punto è che giornaliste e giornalisti attivi nella gestione dell’economia del mondo editoriale, più che scrittrici e scrittori, come si autodefiniscono, sono funzionari al soldo della creazione del fatturato di tale universo e sono pronti e pronte a tutto, e pur di fare caciara alla fine lasciano perdere le distinzioni e confondono il senso stesso del lavoro culturale. Che è per l’appunto quello di distinguere. Perché questo tipo di confusione è letale, spegne l’intelligenza. Acceca di fronte alla verità. E alla fine mette a fuoco solo il successo, basato sulle copie vendute e sul numero di visualizzazioni ricevute. Virginia Woolf non merita questo trattamento. Non lo meritano le lettrici e i lettori. E penso di non meritarlo neppure io, che a quelle note ho lavorato con rigore e passione per un progetto editoriale tutto diverso».

(Nadia Fusini su Facebook, 24 novembre 2024)

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Questo sfogo amaro della intellettuale, scrittrice e traduttrice Nadia Fusini – un nome di alto rilievo nel nostro mondo culturale – ha preceduto di poco la recente edizione della fiera Più Libri Più Liberi (PLPL) dedicata alla piccola e media editoria italiana, che si è tenuta a Roma il mese scorso all’interno della cosiddetta “Nuvola” dell’archistar Massimiliano Fuksas. E le due cose sono legate, come vedremo fra breve. Infatti, la protervia con cui è stata ignorata la posizione di Fusini in questo cinico gioco commerciale – una prassi che il quotidiano la Repubblica porta avanti da tempo con la complicità di figure della scena culturale “pop”, che per affermarsi puntano a stravolgere sostanza e contorni di qualunque cosa capiti loro in mano – dimostra il delirio di onnipotenza di questo nuovo asse di potere mediatico, che ha deciso d’impossessarsi di ogni settore della nostra cultura, dall’organizzazione di eventi “di richiamo” alla pubblicazione ininterrotta di volumi “collezionabili” che riempiono le case degli italiani a detrimento delle librerie e degli editori indipendenti (che dovrebbero essere l’ossatura del sistema), fino al tentativo di irreggimentare questi ultimi in un utile parco buoi che possa essere munto a dovere, dietro la falsa facciata dell’inclusione e della collaborazione costruttiva per istanze comuni.

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Ma cominciamo a spiegarci. La “scrittrice, polemista, giornalista, editorialista, organizzatrice di eventi culturali, e chi più ne ha più ne metta” citata da Nadia Fusini non è altri che Chiara Valerio, la figura che il gruppo editoriale Gedi, proprietario dei quotidiani la Repubblica e La Stampa, sta cercando di investire di tutti i ruoli possibili, come prosecutrice della nota campagna di appropriazione culturale avviata dalla sua domina e consociata Michela Murgia, passata a miglior vita qualche tempo fa. Il volume di Virginia Woolf che Repubblica ha contrabbandato con un’edizione rubata ai Meridiani Mondadori è stato commercializzato con il logo “Robinson” (un vero furto, non importa se a monte c’era una licenza) e lanciato come “il libro che ci ha fatto aprire gli occhi sulla questione femminile”, corredandolo di mediocrissimi paratesti da instant book che ne hanno snaturato il senso, a beneficio di platee di lettrici che Woolf non la conoscono e mai la conosceranno, perché il massimo che possono fare è considerarla stupidamente “una di noi”. Un tentativo disonesto di attualizzare questa scrittrice epocale cucendole addosso inclinazioni e intenzioni giovanilistiche di oggi, tipiche dell’era dei social: un’operazione indegna, indicativa del sub-livello e della malafede di chi l’ha ideata e condotta.

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Il nocciolo del problema, però, resta l’organizzazione dell’ultima fiera Più Libri Più Liberi tenutasi a dicembre, di cui si è parlato molto e che ha suscitato polemiche di vario genere, dalla più chiassosa opportunistica e paradossale – l’invito a quella sorta di “filosofo”, già amico e protetto di Michela Murgia, che stava per essere condannato per maltrattamenti e violenza a una donna – fino alle rivendicazioni più concrete e sostanziali, di cui cercheremo di definire i contorni. Cominciamo quindi a mettere dei punti. Sappiamo che PLPL è una diretta emanazione dell’AIE, l’Associazione Italiana Editori; è sostenuta dal Centro per il libro e la lettura, dalla Regione Lazio, dal Comune di Roma, dalla Camera di Commercio di Roma, da Ministero degli Esteri. Il main media partner è la RAI, e il media partner è il Giornale della Libreria. Sciaguratamente, quando l’AIE ha deciso di nominare direttore di questa fiera proprio Chiara Valerio, in evidente ossequio a un patto di alleanza non scritto, la Valerio ha provveduto subito ad assegnare una supremazia di fatto al quotidiano la Repubblica e alle “firme del nostro giornale”, a cui è legata da forti interessi commerciali, assegnando loro uno stand gigantesco al piano alto della struttura e dando la massima propaganda a una serie di eventi collegati che ha condizionato, sopravanzato, stravolto lo svolgimento e il senso stesso di questa fiera romana dedicata alla piccola e media editoria.

Ai piccoli editori che sono stati penalizzati da questa impostazione, che protestano giustamente per gli scarsi risultati che hanno tratto dalla costosa partecipazione alla fiera – proprio a causa del monopolio esercitato da Repubblica nell’attrarre i visitatori –, esprimiamo tutta la nostra solidarietà. E dobbiamo fare presente, nostro malgrado, ciò che scrivemmo all’indomani della morte di Michela Murgia, quando le manovre di appropriazione della sua eredità commerciale e di potere erano già in atto e il pericolo di quel che sarebbe accaduto si stava già delineando, come spiegammo con chiarezza:

«In questi giorni vediamo che le seguaci da un lato, e la stampa dominante dall’altro, stanno lavorando “a tenaglia” per creare un brand MichelaMurgia in chiave beatificante e consolidarlo con qualsiasi artificio, per mantenerlo nel tempo e continuare a beneficiarne sotto forma di luce riflessa, prestigio e proventi editoriali. Lo spauracchio da esorcizzare diventa l’oblio, che a medio termine comporterebbe l’estinzione del patrimonio capitalizzato dalla scrittrice-influencer, di cui molti seguaci – soprattutto le persone del suo entourage – si ritengono comproprietari. Per questo ogni critica o presa di distanza viene bollata sui social come “livore” o “infamia” (richiamando le regole mafiose), secondo categorie emotivo-tribali squilibrate e ricattatorie, fino al lancio di una fatwa dal tenore “siete finiti e non lo sapete, ma faremo un elenco, vi segnaleremo uno per uno!”. (…) Sappiamo che l’intera vicenda murgiana si è basata sulla iper-visibilità, sull’estremismo ideologico e sull’acquisto di quelle posizioni di potere a cui si è abbeverato l’intero suo entourage, usando ovviamente il parco buoi dei seguaci come strumento fondamentale per stare a galla».

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Oggi questo patrimonio capitalizzato, com’è evidente, si è trasferito in capo all’ancella e consociata Chiara Valerio, che sembra ritenuta a tutti gli effetti l’interlocutrice principale di qualsiasi evento culturale a cui si voglia dare un peso, soprattutto perché si è legata a filo doppio al gruppo editoriale Gedi. In pratica, la beatificazione di Michela Murgiaè stata creata da Repubblica, che ne ha realizzato la collana di libri, l’ha imposta a una parte dell’opinione pubblica – quella che ci è cascata – con lo slogan “una donna libera” (come se le altre fossero schiave) e ha ben consolidato questo marchio, di cui Valerio riscuote virtualmente le royalties. È attraverso questo comitato d’affari – o “cupola” che dir si voglia – che gli interessati gestiscono la reputazione costruita, che rappresenta una valuta, nonché i proventi editoriali e i profitti degli eventi culturali.

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Ora, per capire meglio, chiediamoci che peso può avere il quotidiano la Repubblica in termini di potere mediatico e sostanziale. Sebbene le vendite di questo giornale, unite a quelle del gemello povero La Stampa, fatichino a raggiungere la tiratura del Corriere della Sera, resta il fatto che i primi due appartengono alla famigerata famiglia Elkann, detentrice dei destini dell’industria automobilistica italiana e di altre importanti realtà industriali a livello internazionale. Ne consegue che il gruppo Gedi non può azzardarsi minimamente a non favorire la reputazione dei suoi padroni, ed è per questo che l’incresciosa gestione degli stabilimenti italiani, dove la produzione di auto è ferma da tempo e gli operai sono tenuti lontani dalle fabbriche, stipendiati dalla cassa integrazione – ossia dall’Inps che usa i soldi di noi cittadini perché la proprietà si rifiuta di sacrificare una minima parte dei suoi profitti miliardari –, non viene mai trattata dai giornali di famiglia. Il padrone John Elkann è stato ripetutamente convocato dal nostro governo, insieme al suo Amministratore delegato, per rendere conto dei danni che sta provocando alla nostra economia industriale, e ogni volta ha rifiutato di presentarsi, mostrando un algido disprezzo per il nostro Paese, per il quale non nutre più alcun interesse, visto che produce tutto all’estero. Su questi argomenti i giornali di famiglia mantengono da sempre un assoluto silenzio (anche e soprattutto sulla questione, che ha risvolti penali, della fetta di eredità sottratta dai figli a Margherita Agnelli, che si stima intorno a un miliardo di euro); ma sappiamo che ciò è normale, potrebbe accadere in qualsiasi gruppo editoriale. Tuttavia risulta che la famiglia Elkann, oltre ai propri giornali, tenga alla catena anche il maggior partito politico di opposizione, il Partito Democratico, e questo è un problema decisamente più serio. Com’è noto, ogni partito politico di peso ha bisogno del sostegno costante di uno o più giornali, altrimenti scivolerebbe verso una condizione di irrilevanza, e il Partito Democratico gode regolarmente di una propaganda quotidiana offerta dai gemelli Repubblica e Stampa, che da tempo criticano senza requie il governo in carica a beneficio dell’opposizione. È per questa ragione che anche il Partito Democratico mantiene il silenzio sulle scellerate politiche industriali della famiglia Elkann e sulle torbide vicende familiari: non fa nessuna denuncia, nessuna presa di posizione, nessuna polemica sui media in merito a questi problemi, ma si concentra sugli attacchi continui alla politica del governo, ai suoi provvedimenti, alle paventate derive autoritarie eccetera. Nemmeno il sindacalista Maurizio Landini, promossosi tribuno della plebe che incita alla rivolta (in vista di un possibile golpe nel PD), si azzarda a toccare la famiglia Elkann: sembrano avere tutti paura – anzi il terrore – che per rappresaglia i giornali Repubblica e Stampa smettano di sostenerli.

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Alla luce di questo retroterra, sorge una considerazione: se Repubblica ha la forza di tenere per le palle l’intero PD, sindacato incluso, figuriamoci se non possa dettar legge alla più modesta Associazione Italiana Editori per farle accettare la propria agenda. È un compito fin troppo facile, specialmente se il grimaldello per farlo è rappresentato dalla “scrittrice, polemista, giornalista, editorialista, organizzatrice di eventi culturali, e chi più ne ha più ne metta” che si chiama Chiara Valerio ed è la vicaria in terra della beata Michela Murgia. Ancor più facile se si considera che Valerio non ha la stazza psicologica, la resistenza autoreferenziale e proditoria della Murgia, che in vita era una specie di carro armato pronto a schiacciare chiunque e sapeva ben decidere con la sua testa. Chiara Valerio tende all’opposto, non solo è priva di una visione strategica che sia affidabile, ma corre in avanti con la visionarietà entusiasta della bambina che deve affermare sé stessa, stando poco attenta a dove mette i piedi e capitombolando talvolta nei fossi. Lo stesso passo falso compiuto in PLPL, quello di invitare il sedicente “filosofo” che pochi giorni dopo sarebbe stato condannato in un processo per grave violenza contro la compagna, solo perché era un protetto di Michela Murgia, arrivando a dichiarare “sono garantista” per rintuzzare le polemiche e le defezioni di coloro che correvano a posizionarsi moralmente, è indicativo della sua pochezza di visione e incapacità di gestire le situazioni di crisi, per le quali – se si vogliono dirigere baracconi del genere – si deve essere attrezzati.

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Ma anche le sue prodezze teorico-argomentative raggiungono talvolta livelli imbarazzanti. Abbiamo visto a suo tempo come, nell’impellenza di rispondere su Repubblica al controverso articolo di Luca Ricolfi sul politicamente corretto, abbia sparato la più grossa baggianata che la storia movimentista femminile ricordi:

«per essere appartenenti alla non-categoria del maschio bianco eterosessuale non è necessario essere bianchi, maschi o eterosessuali ma solo occupare una posizione tale da non dover mai contrattare le risorse e, tra le risorse, il tempo».

Quindi, secondo la sua interpretazione, chiunque sia benestante, edonista e fruitore di servizi da parte di categorie svantaggiate, cioè dedito a «sfruttare il privilegio capitalistico che ci ha messi dalla parte del mondo che ordina delivery e non tra coloro che lo consegnano», sarebbe un Maschio Bianco Eterosessuale Privilegiato, anche se nei fatti è donna, o gay, o bisessuale e via elencando. Ormai, prenderla in giro per le sparate che fa è diventata attività diffusa, quasi come colpire la Croce Rossa: basta esporre alcuni esempi.

«Quando salgo su un motorino elettrico succedono due cose. La prima: mi sento nel film Matrix, poggio un dito su una porzione di schermo del mio iPhone e il bauletto dei caschi si apre. La seconda: dopo aver premuto il tasto di accensione mormoro brum brum, come i bambini al volante di un’automobile parcheggiata. (…) Ci raccontiamo che il nuovo arriva e irrompe con grande frastuono, e invece il nuovo della post-modernità giunge il silenzio. In bilico tra Enjoy the silence dei Depeche Mode e Rumore di Raffaella Carrà viviamo».

(incipit ed explicit dell’articolo su Repubblica, 12 dicembre 2021)

«Tutti, o almeno sicuramente io, pensiamo a Circe solo come ad un episodio dell’Odissea…». «Gli dei dell’Olimpo, nella versione della scrittrice statunitense, si dedicano a molteplici attività – mangiano, si tradiscono, litigano, si amano, ecc. – ma non leggono e non pubblicano libri perché leggere e pubblicare sono faccende umane e perché sono attività che richiedono fatica che gli dei rifuggono così come la magia che richiede a sua volta tempo, studio e dedizione».

(frammenti da una “lezione magistrale” all’Arena Robinson di Repubblica, 10 dicembre 2023)

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Insomma, sciocchezze e sproloqui puerili dispensati in una sorta di sindrome post-adolescenziale cronica, che evidentemente a Repubblica piacciono, soprattutto perché oggi Chiara Valerio è il braccio armato con cui mettere alla catena l’AIE e gli enti collegati sulle questioni di proprio interesse. Ma ora ci chiediamo: quali sono i danni che i piccoli editori partecipanti a Più Libri Più Liberi hanno subìto? Innanzitutto, è noto che questa fiera risulta essere una delle più costose rispetto alle possibilità di molti espositori, ed è tra le più contraddittorie, perché asseconda la logica iper-produttiva del settore, quella che favorisce i grandi gruppi penalizzando i piccoli editori. Prestare attenzione a questi ultimi significa avere attenzione per la qualità, per la ricerca e l’offerta di progetti capaci di diversificare e approfondire, e significa avere cura del lettore consapevole, più che del mero consumatore compulsivo che frequenta le librerie di catena. Invece, per l’AIE il “piccolo” e il “medio” rappresentano solo categorie di fatturato: per potervi rientrare non bisogna superare la soglia dei dieci milioni annui di fatturato (avete capito bene: dieci milioni), e già questo fa capire in che situazione ci si trova. “Piccola e media editoria” è un concetto che serve a far crescere la quantità di libri in circolazione, per ingrassare le aziende di distribuzione che trasportano i volumi avanti e indietro, prima alla libreria, poi di nuovo al magazzino per i resi, e infine al macero quando i volumi non trovano altri sbocchi. Ed è appena il caso di far notare che la distribuzione di libri in Italia è in mano ai tre grandi gruppi editoriali: Mondadori, Giunti, MeF (Feltrinelli-Messaggerie), con società che vampirizzano i piccoli editori trattenendo buona parte dei loro ricavi, e di conseguenza decidono quali possono sopravvivere e quali devono morire.

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Non contenta di assistere a questo salasso, l’AIE si è premurata di succhiare altri soldi con l’organizzazione di PLPL affidata a Chiara Valerio, dando così mandato al gruppo Gedi di monopolizzare l’attenzione del pubblico – deviando le risorse necessarie – attraverso gli eventi “di richiamo” con la partecipazione di vip e personaggi pubblici che rendono le platee gremite. Il prezzo del biglietto d’ingresso è stato aumentato da 10 a 13 euro, presumiamo per meglio foraggiare i grandi eventi, così i visitatori erano ancor meno propensi ad acquistare qualche libro agli stand degli espositori. L’organizzazione, naturalmente, si vanta di aver avuto molti visitatori, ma il numero complessivo di ingressi è un valore drogato, primo perché conta molte scolaresche, dunque gite organizzate dove i ragazzi gironzolano spensierati senza comprare niente, e secondo perché molti visitatori sono andati lì per vedere e ascoltare i personaggi pubblici, ed è a quei tavoli che acquistano libri, nell’atmosfera glamour dell’Arena Repubblica “con le sue firme”, non certo nei poveri stand dei piccoli editori. Ma diciamolo: volete mettere il gusto di andare a vedere Giancarlo Magalli che rievoca la figura di Raffaella Carrà? Volete mettere andare ad ascoltare Marco Travaglio che discetta sulla Russia e sul suo diritto di cancellare l’Ucraina dalle carte geografiche? E Marco Damilano che incita all’accoglimento indiscriminato dei migranti, Roberto Saviano che teorizza e descrive l’uso del kalashnikov, Vittorio Sgarbi che fa lezione sulla Natività, Renzo Arbore che arboreggia con Gegè Telesforo, e il nonnetto Corrado Augias che, preoccupato per la deriva autoritaria, dà lezioni di moralismo e si domanda “Dove andremo a finire”? E volete mettere Ascanio Celestini col suo pizzetto da scoppiato che discute insieme a Stefano Cappellini e Luigi Manconi sull’egemonia culturale della sinistra che ora viene scippata dalla destra, con le insegnanti progressiste fra il pubblico a bagnarsi le mutande? Volete mettere tutto questo, e tanto altro – lotta al patriarcato, femminismo palestinese, le foibe, magia, yoga, Gaza, maschi alleati, lezioni di podcast, viaggi nelle cucine etniche, giochi di ruolo ecc. – che non riusciamo a elencare perché rasenteremmo l’assurdo, essendo il programma lungo 81 pagine?

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Non c’è partita, dobbiamo riconoscerlo. L’arroganza della lobby che vince è il condimento di tutto questo, tipico di chi sente che avere un potere da gestire significa creare valore nel proprio gruppo d’interesse, per perpetuarne l’esercizio a fini consociativi, e ritiene una minaccia qualsiasi apertura all’altro. Questo potere protegge il potere, ed è avvilente vedere farne le spese le persone che continuano a buttare il sangue credendo nel proprio lavoro e nella propria missione. I vincenti amano solo i vincenti e si accoppiano fra loro, sono endogamici. Il problema è di contesto e di atteggiamenti, di legami che rischiano di diventare indissolubili, e sarebbe necessario voltare pagina, autogestirsi, tenere fuori le dinamiche tribali e i personaggi che infestano i parterre, bandire le manovre di vertice fra diversi gruppi in lotta, e le vendette trasversali, gli esibizionismi da arrampicatori morali, gli equilibrismi di quelli che giocano partite personali nell’area delle lettere, a caccia di premi e vantaggi. Sappiamo che i libri servono a parlare di cose di cui non si riesce a parlare altrimenti, perché qualunque medium alternativo sarebbe inadatto; dovrebbero sempre essere le opere a parlare, invece continuiamo a vedere gare di posizionamento fra gli autori per mostrare chi è più puro e conformista. È inutile ripeterlo, ma ci tocca farlo: il conformismo produce omologazione, le logiche settarie e di lobby allontanano fasce di pubblico dall’oggetto libro nella sua essenza vera, quella di strumento indipendente fondamentale per la vita di una sana democrazia. I gruppi di potere sono specialisti nel creare cordoni sanitari per delimitare, escludere, drenare le risorse dell’ambiente verso il proprio cerchio. L’editoria libera invece deve poter nutrire un sistema culturale, deve dialogare col mondo restituendone rappresentazioni non costrette da gabbie ideologiche. L’editoria libera, quella piccola, ha il compito di ampliare la visione del mondo, renderla meno settaria e condizionata dalle ricerche di mercato e di consenso. In una parola, più onesta.

Paolo Ferrucci

*In copertina: Roland Topor, Ciel ouvert, 1970

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