23 Agosto 2023

Piccolo trattato intorno alla beatificazione di Michela Murgia

Nel maggio del 2020, durante la trasmissione radiofonica che conducevo a Radio Capital insieme a Edoardo Buffoni, avemmo ospite lo psichiatra Raffaele Morelli. La ragione erano certe sue dichiarazioni discutibili rilasciate nei giorni precedenti, che erano state da piú parti indicate come sessiste. Nel corso dell’intervista in cui avrebbe dovuto spiegare l’eventuale equivoco, il professore confermò invece le sue affermazioni e mentre lo incalzavo chiedendogliene conto, accadde una cosa che né io né Buffoni avevamo previsto: Morelli perse completamente le staffe e all’improvviso mi intimò «Zitta! Zitta! Zitta e ascolta! Sto parlando e non voglio essere interrotto!» Il video, ancora reperibile in rete, divenne virale e per giorni si parlò di quell’episodio con incredulità, come se fosse un unicum comportamentale, il caso straordinario di un uomo dai nervi poco saldi che non aveva potuto sopportare di essere contraddetto da una donna.

(Michela Murgia, Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, Einaudi, 2021)

Come sappiamo, della dipartita di Michela Murgia – scrittrice post-femminista, influencer e agitatrice politica che ci ha lasciati lo scorso 10 agosto per una grave malattia – si è discusso pubblicamente per parecchi giorni, in modo massiccio e polarizzato, principalmente secondo due versanti. Uno agiografico, in cui la maggior parte delle testate giornalistiche ne ha rievocata la figura carismatica, celebrando la sua forza, il suo impegno, le sue lotte per i diritti delle donne e le uguaglianze dei generi, la sua bontà e solidarietà verso le minoranze “arcobaleno” che non vedono riconosciute a sufficienza le loro istanze, l’importanza della sua opera letteraria e della sua eredità spirituale eccetera. Su quel versante, alla beatificazione quasi generale operata dalla stampa si affiancavano le manifestazioni di cordoglio personali espresse da giornalisti, politici e persone più o meno comuni che hanno ricordato con struggimento i momenti passati con lei, gli incontri diretti o indiretti, programmati o fortuiti, in cui le si era parlato, spesso traendone giovamento imperituro, e via discorrendo.

Nel secondo versante, quello critico e più problematico, alcune voci dissenzienti dalla narrazione mainstream, che non hanno a disposizione l’apparato dei media dominanti e si esprimono anche nei social, hanno messo in seria discussione il ruolo di intellettuale svolto da Michela Murgia, sottolineando come uno scrittore e/o un intellettuale che «si fa megafono più o meno sciatto o più o meno pubblicitariamente efficace delle tendenze culturali e gergali del suo ambiente e del pubblico che lo circonda (il patriarcato come Grande Vecchio, il folklorismo da Pro Loco, il queer come pseudoreligione giornalistico-accademica, l’inflazionata accusa di “fascismo” che in mancanza di uno straccio di idea ne svuota pericolosamente il concetto) allora sta svolgendo un altro mestiere: quello di chi cerca a tutti i costi il consenso “dei suoi” per battaglie sociali che possono essere più o meno condivisibili, ma che si svolgono su un altro piano. È insomma, un tale non-scrittore e non-intellettuale, un tipico influencer: esattamente come lo sono oggi alcuni leader di partito». Questo è il giudizio del critico bolognese Matteo Marchesini, mentre, fra gli altri, alcuni docenti dell’Università di Roma La Sapienza, come Guido Vitiello e Simone Pollo, hanno aggiunto qualche tassello a uno scenario più ampio della discussione che l’agguerrita fazione “agiografica” tentava di monopolizzare: «Gli intellettuali-influencer hanno un vizio anteriore: hanno letto poco, tardi e male, perfino intorno ai temi su cui scrivono», ha affermato il primo; «È caratteristico di queste figure di pseudointellettuali influencer l’autorappresentazione (e la percezione da parte dei fan/follower) come voci marginali scomode e vittime di un sistema oppressivo che vuole silenziarle con ogni mezzo. Una rappresentazione in palese contrasto con la realtà, dal momento che si tratta – come nel caso di Murgia, ma non solo – di persone pienamente inserite nel settore della produzione culturale e ben coccolate da settori della politica», è una considerazione del secondo.

A ciò possiamo aggiungere la voce di Ottavio Cappellani sulla rivista online MowMag, che a nostro avviso sintetizza in modo incisivo lo stato delle cose:

«Per Michela la letteratura non era solo “politica”, non era solo “pubblica”, era “comunitaria”. Le sue battaglie per la famiglia allargata in senso “queer” erano il logico e conseguente sviluppo della sua maniera di vivere la scrittura. L’ho vista bambina capricciosa, da quando aveva scoperto la malattia, al centro di una comunità della quale era orgogliosa. Aveva virato verso la narrazione di un “guru”, con tutto quello che questa parola comporta. La sua vanità era “larger than life” così come deve essere la buona letteratura. Essa debordava, esondava. La prospettiva della morte l’aveva resa luminosa di una teoria del gruppo inattaccabile. Se ci si pensa a posteriori è stata la sua morte perfetta: le ha dato il tempo di diventare ciò a cui aspirava; il centro di un mondo. Come una bambina. […]

La Murgia era fondamentalmente una fascista dell’antifascismo. Si credeva “migliore”. E forse questo controsenso non l’ha fatta essere efficace come avrebbe meritato. Ma tutti i bambini sono “fascisti” in qualche maniera: sono loro al centro del mondo ed è anche giusto che sia così. Forse per questo l’ho sempre guardata con un misto di terrore e tenerezza (non è la maniera con la quale si guardano i bambini?). La sua scomparsa ci lascia senza “la” nemica. Dovremo prendercela con le sue pallide imitazioni e questo un po’ ci fa passare la voglia e ci svuota e ci intristisce. Così come ci intristisce la scomparsa di una bambina capricciosa e geniale».

Da parte nostra, non abbiamo molto da aggiungere. Notiamo le reazioni violente di molte follower murgiane – non è una novità – contro i critici che si sono espressi, con l’ostentazione di un’ansia conformistica e di un’appartenenza ideologico-identitaria in cui sembra che le seguaci abbiano adottato Murgia come simbolo, per vedere riflessa su sé una sorta di “potere” derivato, seppure illusorio. È la chiara manifestazione di chi è convinto di aver assorbito – attraverso un transfert mistico – quella minuscola fetta di potere che oggi, dopo la scomparsa della guru-leader, sembra messa in pericolo dalle manifestazioni di dissenso. Riguardo al ruolo ancillare delle persone che le stavano vicino, riportiamo alcune considerazioni espresse da Guia Soncini sul sito Linkiesta:

«Nell’ampio campo intellettuale di coloro le cui idee non mi convincono, Michela Murgia era l’unica in grado di argomentare un pensiero. E quindi, inevitabilmente, circondata da emule goffe, di ancelle volenterose, di allieve che ripetono a memoria la poesia di Natale ma cui manca il guizzo. […] A cosa serve essere carismatiche, se poi quel che te ne viene è che nessuno di quelli che ti stanno intorno osa contraddirti, neanche quando si tratta di salvarti la vita? A cosa serve essere di successo, se le classifiche di vendita non possono renderti immortale? A cosa serve essere perentorie, se poi ti lasci morire per incuria?».

In questi giorni vediamo che le seguaci da un lato, e la stampa dominante dall’altro, stanno lavorando “a tenaglia” per creare un brand MichelaMurgia in chiave beatificante e consolidarlo con qualsiasi artificio, per mantenerlo nel tempo e continuare a beneficiarne sotto forma di luce riflessa, prestigio e proventi editoriali. Lo spauracchio da esorcizzare diventa l’oblio, che a medio termine comporterebbe l’estinzione del piccolo patrimonio capitalizzato dalla scrittrice-influencer, di cui molti seguaci – soprattutto le persone del suo entourage – si ritengono comproprietari. Per questo ogni critica o presa di distanza viene bollata sui social come “livore” o “infamia” (richiamando le regole mafiose), secondo categorie emotivo-tribali squilibrate e ricattatorie, fino al lancio di una fatwa dal tenore “siete finiti e non lo sapete, ma faremo un elenco, vi segnaleremo uno per uno!”. Una specie di delirio comunitario che ha investito anche romanzieri in vista, come il noto autore di gialli (o noir, tanto è uguale) Maurizio De Giovanni, che in una ispirata elegia su facebook dichiara:

«…Beata te che non senti il ridicolo verso vigliacco degli sciacalli, che aspettavano che te ne andassi per dire quello che gli avresti fatto rimangiare con una battuta delle tue. Beata te, che non devi vedere asini tronfi ragliare le loro non idee, addirittura pubblicando esaltazioni di infami bestialità come fossero ammissibili, come fossero accettabili…»

Qui, in particolare, ci chiediamo a chi si riferisca Maurizio De Giovanni con questa gragnuola di insulti. Si riferisce agli squallidi leoni da tastiera e odiatori che lanciano invettive e turpiloquio, oppure al genere di “inammissibili critiche” di cui stiamo parlando? Se fosse il secondo caso, allora ci si domanda in che stato mentale fosse mentre scriveva questa roba. Innanzitutto, il tono declamatorio e la terminologia usata rasentano il naïf infantile; poi, se si riferisce ai critici, i concetti che ha espresso sono falsi, perché Murgia la si è criticata anche in vita, non si è “aspettato che se ne andasse”, perché non si aveva certo paura di lei fino a tal punto; inoltre, non sarebbe bastata “una battuta delle sue” per mettere a tacere gli avversari, tutt’altro: le sue battute potevano casomai servire a mandare in visibilio i sostenitori, compreso chi ha scritto questa specie di elegia. Infine, sugli “asini che ragliano non idee” e approvano “infami bestialità come fossero ammissibili”: di quali bestialità si parla? Di idee dissenzienti o di altro? E per quale motivo “infami”? Si chiarisca, perché sembra che per De Giovanni le affermazioni che non piacciono debbano essere vietate, e chi trasgredisce andrebbe mandato al confino come durante il Ventennio.

Ora chiudiamo questa parentesi imbarazzante e andiamo al punto. Sappiamo che l’intera vicenda murgiana si è basata sulla iper-visibilità, sull’estremismo ideologico e sull’acquisto di quelle posizioni di potere a cui si è abbeverato l’intero suo entourage, usando ovviamente il parco buoi dei seguaci come strumento fondamentale per stare a galla. E a questo punto vogliamo affrontare una questione specifica che già avevamo posta in altra sede, ma che è stata colpevolmente ignorata, per la quale ora torniamo a rivolgerci al responsabile della casa editrice Einaudi che ha curato le pubblicazioni di Michela Murgia per ottenere una risposta. Partiamo dunque dal brano riportato in epigrafe: si tratta dell’incipit di Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, un sedicente saggio pubblicato nel 2021, che nella scheda promozionale pone come slogan una delle classiche affermazioni della peggiore propaganda femminista: «Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva». Il problema, qui, è che questo ragionamento vittimistico parte da un assunto completamente falso e intellettualmente disonesto, perché ciò che viene raccontato da Murgia in detto incipit è menzogna pura. Quella “intervista” telefonica fatta al Tg Zero di Radio Capital fu in realtà una vera e propria imboscata, come a volte accade nei salotti televisivi, in cui i due conduttori Michela Murgia e Edoardo Buffoni attuarono un attacco premeditato – in due contro uno – al noto psichiatra Raffaele Morelli, al chiaro scopo di logorarlo e farlo compromettere il più rapidamente possibile, per relegarlo dalla parte del torto e poterlo poi sottoporre alla gogna. Nellintervista, il dottor Morelli ebbe la grave colpa di “confermare le sue affermazioni”, dando così il via al linciaggio propedeutico a opera di Michela Murgia, fatto di toni via via più incalzanti, sprezzanti e aggressivi, che di fatto gli impedivano di parlare e di chiarire le sue posizioni, fino al punto in cui Morelli scoppiò nell’esclamazione esasperata «Zitta! Zitta! Zitta e ascolta! Sto parlando e non voglio essere interrotto!», che gli segnò il destino. Con lobiettivo raggiunto, i due conduttori erano quasi esultanti: nelle webcam di Radio Capital (che fanno prova, contro ogni contestazione) si vedono chiaramente Edoardo Buffoni e Michela Murgia ridacchiare e farsi cenni d’intesa nelle fasi finali dell’intervista-agguato, felici di essere prossimi alla meta, ossia all’abbattimento dell’avversario. Dunque, quanto scritto all’inizio del saggio di cui parliamo: “accadde una cosa che né io né Buffoni avevamo previsto” è un’odiosa menzogna, visto che tutto è stato calcolato e attuato proditoriamente.

Del “metodo Murgia” avemmo già modo di parlare, per fare chiarezza su certi aspetti, e non vogliamo ripeterci. Nel caso di specie, la presenza radiofonica di Edoardo Buffoni era puramente accessoria, perché, come scrivemmo, “in qualsiasi confronto è Michela Murgia a stabilire le regole d’ingaggio, è lei che conduce il dibattito verso la messa in difficoltà e l’umiliazione di qualsiasi avversario, che per lei diventa spesso nemico, non una persona con cui ragionare, ma una figura da abbattere e da finire quando è a terra”. E qui il dottor Morelli è stato prontamente condotto all’esasperazione: quando ha avuto l’ingenuità di pronunciare la frase “Zitta!” e di abbandonare l’intervista, è stato abbattuto. E, una volta a terra, Michela Murgia lo ha finito infilandolo nell’incipit di questo opportunistico “saggio”. Lo scopo finale era fare di Morelli carne da cannone e cibo per il proprio appetito. Sarebbe bastato scegliere parole diverse, come “Basta! Fammi parlare! Non mi interrompere, mi stai prevaricando!”, per evitare la trappola; ma egli pensava di trovarsi con due intervistatori, seppure di orientamento diverso, non con due cacciatori pronti a sparare. Il risultato di questa operazione è stato il rovesciamento della realtà: quando Morelli è prevaricato dall’inganno e dall’aggressione dei due avversari, viene fatto passare per il prevaricatore “che non aveva potuto sopportare di essere contraddetto da una donna”. E questa mistificazione bella e buona viene piazzata all’inizio del “saggio” che l’editore Einaudi ha avuto il fegato di pubblicare senza un filo di vergogna.

La prima domanda che poniamo al responsabile Einaudi è: come può l’editore non vergognarsi per aver pubblicato un saggio che inizia con un assunto del tipo “Siccome quel giorno il dottor Raffaele Morelli tentò di impedirmi di parlare dicendomi «Zitta!», io vi spiego come gli uomini cercano sempre di zittire le donne, perché non sopportano di essere contraddetti”? L’affermazione che si sia tentato di far tacere Michela Murgia è falsa, e il perché lo capirebbe anche un bambino: il dottor Morelli stava tentando semplicemente di parlare, dire quello che doveva dire, avvalersi del suo diritto, visto che era stato invitato per parlare di un suo libro, senza essere interrotto o soverchiato da lei, che invece lo stava schiacciando senza riguardi. Morelli diceva Sto parlando, lasciami parlare, e voleva essere ascoltato. Era questo e solo questo il problema. Voleva essere ascoltato, non zittire la controparte. Era un uomo che rivendicava con forza i suoi diritti, di fronte a una donna che rifiutava di accoglierli e lo affrontava con aggressività senza lasciargli spazio.

Con queste premesse, il “saggio” in discorso avrebbe dovuto più onestamente trattare il problema delle persone – uomini e donne – ai quali non viene permesso di esprimersi in un contraddittorio, perché soverchiati dalla violenza della controparte. Che sia uomo o sia donna. Dunque, gentile responsabile Einaudi, perché non avete pubblicato un saggio su questo argomento? Non occorre che risponda, il perché lo sappiamo. Gli intenti di questa operazione erano del tutto strumentali, economici e politici, che si son voluti realizzare con qualsiasi mezzo, anche attraverso volgari mistificazioni. Va da sé che la falsità dell’assunto su cui si basa questa pubblicazione ne inficia l’intero svolgimento, quindi è superfluo anche prendere questo libro in lettura. Non ce lo mandi, lo butteremmo nel cestino. Il rovesciamento della realtà fatto in un modo così protervo, arrogante, sfacciato, sfruttando il prepotere del mezzo, senza alcun riguardo per la dignità dell’interlocutore, che viene messo alla gogna, è una furba maschera di vittimismo che si trasforma in ipocrita operazione di lucro. Ebbene, tutto questo ci ripugna, e non possiamo che respingerlo inorriditi. Ancor più fermamente respingiamo l’idea – deviante, assurda e impraticabile – che certe frasi, certe forme di espressione o interlocuzione possano venire vietate da una forma di delirio censorio che vorrebbe rovesciare il senso delle cose, del convivere civile, della realtà stessa. Già lo scrivemmo: questa sorta di “populismo di sinistra” serve a dividere, estremizzare le posizioni, alimentare il conflitto, mantenere un’incompatibilità e un’incomunicabilità permanenti, che sole possono giustificare il proprio primato di aggressione. Quello che ora chiediamo è semplice: non imbatterci più in squallide operazioni del genere.

Paolo Ferrucci

Gruppo MAGOG