«Ma stiamo rischiando di dimenticare di cosa si parlava: dobbiamo tornare al Diario del virus del Corriere della Sera, agli otto scrittori, con Francesco Piccolo messo stranamente in quarta fila e relegato a metà fascicolo. Ci chiedevamo il perché di questa retrocessione, ma vedendo Sandro Veronesi sul trono come dominus della staffetta, a pesare sulle teste di tutti, abbiamo la risposta: Veronesi è il vincitore del Premio Strega 2020, ce l’ha già in mano, ed è bene che si sappia subito».
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Questo lo avevamo scritto il 1° maggio scorso, con due mesi d’anticipo: la settantaquattresima edizione del Premio Strega aveva già deciso il vincitore da tempo, e i segnali erano univoci. Infatti, nel patetico “Diario del virus” del Corriere, l’apripista Sandro Veronesi veniva citato e omaggiato dagli scrittori successivi a più riprese, come se fosse il capobranco davanti al quale abbassare lo sguardo in segno di sottomissione: il classico comportamento della società letteraria come comunità animale, che rendeva tutto molto chiaro.
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Visto che tutto era definito, della serata finale di questo Premio Strega 2020 non resta altro che il siparietto imprevisto – e sciagurato – fra il conduttore e l’unica donna finalista:
«…credo che coagulino anche un pezzo della condizione femminile di questo inizio millennio, e lo dico – nel ringraziarla e salutarla e nell’augurare anche a lei buona gara – perché adesso con Corrado Augias proveremo a ragionare su un altro dei capitoli importanti – sui quali, tra l’altro, immagino che Valeria Parrella potrebbe tenerci tutta la sera – e cioè che cosa è cambiato con il “MeToo”, cos’è cambiato in questi ultimissimi anni…»
«E lei ne vuole parlare con Augias?»
«Sì!»
«Auguri!»
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Da questa magnifica esternazione, quasi immediatamente è partito il fuoco delle polemiche sui social e sui giornali: in pratica, due uomini – di cui uno ottantacinquenne – pretendono in un contesto culturale di parlare della condizione femminile di oggi e delle sue manifestazioni rivendicative, arrivando addirittura a quelle ostili e avvelenate del “MeToo” di qualche anno fa, con tutto ciò che hanno comportato. Francamente, non riusciamo a immaginare quali funzionari o programmisti Rai possano aver avuto una pensata tanto rozza, bassamente prevedibile, così di vecchio stampo da suscitare solo pena o irrisione ostile. Cosa potrà mai capire Corrado Augias, classe 1935, cosa potrebbe veramente insegnarci o suggerirci, insomma quale tipo di contributo potrebbe offrire un giornalista-scrittore che ha prodotto una quarantina di libri, creato e condotto programmi televisivi, svolto intensa attività giornalistica presso la fortezza di Repubblica, con tonnellate di articoli lettere trafiletti risposte su tutti gli argomenti possibili, un uomo del Novecento immerso nei più alti livelli del potere mediatico, che ha fatto una tale montagna di cose da far sorgere il sospetto che di ogni argomento trattato abbia finito per conservare solo una nozione canonica, di superficie, a tempo, finalizzata soprattutto a creare la sua pubblicistica del momento e a consolidare la sua posizione?
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Come nel noto bestseller Disputa su Dio e dintorni (Mondadori, 2009), scritto a quattro mani col teologo dell’Università San Raffaele di Milano Vito Mancuso, dove a pagina 246 le conclusioni di Augias risultano copiate pari pari dalla pagina 14 del saggio La creazione del biologo di Harvard Edward Osborne Wilson (Adelphi 2008), fatti salvi – come rilevarono i giornali dell’epoca – “un punto e virgola al posto di un punto e un altro al posto di una virgola; «terra» scritto minuscolo o «globo» al posto di «Terra»; un verbo cambiato («dobbiamo imporci» invece di «condividiamo»); una citazione di Dante dal canto di Ulisse per far risaltare gli studi liceali fatti in Italia; un più dubitativo «Non credo» al posto di un secco «No»; un fondamentale «Lei e io» al posto di «Io e lei»; un’aggiunta politicamente corretta sulla «libertà dal dolore e dal bisogno»”.
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E dire che la Disputa riporta una bibliografia di 90 volumi e un nutrito indice dei nomi, nei quali però Edward Osborne Wilson è del tutto assente. Ma di fronte agli addebiti Augias non si scompose più di tanto: «Questo libro è nato da un dialogo tra i sostenitori di due tesi contrapposte. Per la mia parte mi sono avvalso oltre che di convincimenti e riflessioni personali, di numerose testimonianze, dalle Confessioni di Agostino a internet, citando la fonte ogni volta che è stato possibile». Dunque, pare fosse difficilissimo reperire la fonte di Wilson, forse perché era marchiata Adelphi.
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Ma a questo punto la questione diventa: nella sua enorme pubblicistica, quanti passi potrebbe aver copiato Corrado Augias da altri libri o da fonti in rete, senza citarli? Qualcuno se la sentirebbe di certificare – assumendosene la responsabilità – che tutti i suoi testi sono originali e non plagiati? Mentre Augias sulla questione abilmente svicolò, il teologo Vito Mancuso fu invece molto chiaro: «Sono amareggiato, completamente sbalordito. Non capisco come sia potuta accadere una cosa del genere. Spero che Augias lo spiegherà anche perché colpisce il fatto che quel passaggio si trovi nelle conclusioni, dove lui parla in prima persona, dove parla di se stesso».
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Ma il caso Corrado Augias riguarda anche la sua indefessa attività recensoria: come osservò Luigi Mascheroninel 2008, “Nella sua Babele sul ‘Venerdì’ di Repubblica, il mese scorso ha affrontato col piglio intellettuale che tutti gli riconosciamo sei libri (robetta: due saggi di teologia e due di storia sui rapporti tra cristiani e musulmani, un romanzo della Nemirovsky e il D’Annunzio di Giordano Bruno Guerri), per un totale di 1400 pagine, e poi ne ha ‘segnalati’ altri otto (dalle misere 118 pagine del Dizionario dei luoghi non comuni di Samuel Butler alle 558 del mattone di Josè Rodriguez Dos Santos) per ulteriori 2451 pagine. Totale: 3852. Augias, che è il decano del giornalismo culturale, di certo le ha lette tutte. Ma dove trova il tempo per scrivere, rispondere tutti i giorni ai lettori di Repubblica, firmare commenti volanti, condurre una trasmissione tv (sui libri, ovviamente) e al sabato, magari, firmare su l’Almanacco dei libri?”.
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Quindi, per tornare alla nostra questione, il 2 luglio 2020, nella serata finale del Premio Strega, si è incaricato un vegliardo (perché ottantacinque anni non sono bazzecole) che ha vissuto per più di tre quarti nel Novecento di mettersi a discettare – con sussiego, fra l’altro – su un fenomeno del movimentismo femminista che solo pochi anni fa non si riusciva nemmeno a concepire, che ha spiazzato anche le nuove generazioni, che ha provocato deviazioni e derive impreviste, e che nemmeno si sa dove ci stia portando. Noi ci domandiamo, sul serio, cos’hanno nella testa gli autori, o i programmisti, o i funzionari, o i boiardi della tv di Stato che ancora concepiscono queste bravate. Quanti anni ha questa gente, che formazione può aver avuto, quale quoziente intellettivo, quale esperienza del sociale e del mondo può vantare. Vorremmo davvero saperlo.