“Trovare le pietre di scarto. Erano tossici, di solito”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
Andatevi a leggere, tra un lasso di tempo e l’altro, le poesie di Gerard Manley Hopkins. Scoprirete, oltre a un ottimo poeta, delle domande. In un saggio su Hopkins, scritto all’inizio degli anni Trenta, il grande critico inglese F.R. Leavis osserva:
«Gerard Manley Hopkins morì nel 1889. Fu uno dei più straordinari inventori di tecniche che mai abbia scritto versi, e fu un grande poeta. Se avesse ricevuto l’attenzione che meritava, la storia della poesia inglese dal 1890 in poi sarebbe stata molto diversa».
E ci risiamo. Contiamo i casi in cui un poeta vivente riesca, non dico a sbarcare il lunario, ma almeno a dare dignità alla sua poesia. Non arriveremo a un gran numero. Eppure questo poeta vittoriano ha scritto, tra l’altro, due poemetti eccezionali: Il naufragio del Deutschland (riconosciuto come il suo capolavoro) e La perdita dell’Euridice. Mi soffermerò su quest’ultimo:
L’Euridice ‒ è te che riguardava, Dio:
a bordo, haimè!, trecento anime, alcune
mai dal sonno destate, tutte ignare,
precipitate per undici braccia
dove essa affondò! Un solo colpo
li percosse e ammainò, i cuori di quercia!
e dalle aeree, scoscese colline
suonarono a morto le campane dei greggi.
Per essersi vantata, a pieno carico,
di balle vincolate o di un mucchio di lingotti? ‒
Prezioso oltre misura, di ragazzi
e uomini il suo carico e tesoro.
Tornava da una crociera, scuola di marinai ‒
uomini, ragazzi audaci di lì a poco uomini:
doveva, la bufera,
inaridire a un tempo tronco e fiore?
Il poeta sembra fare quasi lo scalpo a Dio in persona: Doveva per forza la bufera affondare l’Euridice il 24 marzo del 1878? Dov’eri Dio? Ti riguardava. Non sottilizzava molto, Hopkins. Eppure la forza e la sottigliezza delle sue immagini sono la prova del suo genio. Ma i critici vittoriani non erano abituati a trovare simili qualità nella poesia del loro tempo. L’accettare Hopkins avrebbe significato rifondare i loro criteri poetici. Così non fu pubblicato nel 1889. Negli anni Trenta, invece e finalmente, lo si considerò un contemporaneo.
Potrei lasciar perdere ‒ la maledizione
del santuario in rovina, che nessuna mano o, peggio,
una mano che rapina si cura d’adornare,
bianco-sacri santuari invisitati;
ma il respirante tempio, la fuggevole
vita, questa forza così soavemente infusa,
questi sfidatori della morte, sì questa ciurma,
nell’Anticristo, sprofondati tutti ‒
Profondamente, certo, lo devo deplorare,
chiedendomi perché il mio Signore lo tollerò,
il lacerarsi di questa razza,
così intima, un tempo, della sua verità e grazia.
Dunque la domanda continua ad essere sempre la stessa: Perché lo tollerasti, Signore? Hopkins è deplorevole. Ma non lo siamo forse pure noi, o lo siamo stati almeno una volta? Disapprovando decisamente, biasimando, condannando qualsiasi disgrazia capiti o ci capiti tra capo e collo?
Oh a ragione hai pianto, madre che hai perso il figlio;
a ragione, sposa; a ragione, fidanzata sul punto d’esserlo:
sebbene il dolore non porti loro alcun bene
versate le lacrime volute dal triste vero amore.
Ma ai piedi di Cristo signore del tuono
accovacciatevi; già a terra, giù piegate il ginocchio:
«Santissimo, adorato, onnipotente,
salva il mio eroe, tu Eroe che salvi.
E che questa preghiera che ora senti
tu l’abbia, nell’attimo d’orrore, sentita,
l’abbia sentita e concesso la grazia
nel giorno che la grazia fu cercata».
Tutto è perduto, tutto è perduto. Solo il “triste vero amore” rimane. E forse una preghiera ancora, giacché Qualcuno l’ascolti, almeno per concedere la grazia cercata.
Non che l’inferno conosca redenzione,
ma per le anime affondate in parvenza di freschezza,
finché tutto bruci il fuoco del giudizio,
misericordia eterna cercherà la preghiera.
D’altronde, d’inferni ne è attraversato il mondo, e Dio probabilmente non vuole intervenire né interferire. Però una preghiera rimane sempre viva, quanto meno per gli innocenti che perdiamo, affinché la compassione vada finalmente in loro soccorso.