10 Gennaio 2020

Donne che hanno scotennato la Storia, uno scandalo vivente: la feroce Luisa del Nulla e la fatale Monaca portoghese

Negli stessi anni, in Francia, tra trafitture barocche, nel florido Seicento che da Richelieu sfoga in Luigi XIV, due donne – o meglio: due libri – scompaginano la storia della letteratura, l’identità dell’amare, il ceffo di Dio. Entrambe potrebbero essere scolpite dal Bernini, che in quel grumo d’anni eleva dal marmo Santa Teresa d’Avila, fustigate di fiamme. Queste, piuttosto, sono sante a contrario, sante sconce, sconclusionate, uno scandalo vivente.

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La prima è una donna ipotetica. Le Lettere di una monaca portoghese, apparse a Parigi per l’editore Claude Barbin nel 1669, si ritenevano, scavando tra i sotterfugi dell’anonimato, vergate da una fittizia francescana vissuta a Beja, Mariana Alcoforado. Di lei, eventualmente, andrebbe redatta una onirica biografia. “Il libro andò rapidamente esaurito e, altrettanto rapidamente, ristampato… Il contenuto di quel libbriccino in sedicesimo avrebbe scatenato uno dei più controversi casi editoriali di tutti i tempi. Quelle lettere diffondevano scandalo e indiscrezione rivelando come una giovane suora portoghese esponesse la sua passione disperata per un ufficiale francese”, scrive Brunella Schisa nell’edizione più nota delle fatali lettere, per Marsilio (1991). Il libro, che racconta l’amore impossibile, ustionato dall’assurdo, conquistò Rainer Maria Rilke, che lo tradusse in tedesco, concupì Racine, Rousseau, La Rochefoucauld. In Italia, segnalo una edizione Formiggini del 1925 (traduce Ada Salvatore); quella firmata da Piero Chiara (per Scalabrini, nel 1968); quella illustrata da Milo Manara (Nuages, 1997).

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La donna devota a Dio che si converte alla carne e si dissipa per un uomo che non le risponde, che silenzia i suoi desideri nell’indifferenza, affascina. Più che il convento, la vera cella è amare – è l’amore non corrisposto.

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Le lettere – cinque – dilagano nella patologia amorosa, nell’ossessione, nel torbido di un corpo traditore che surclassa la fede. Si ha più fede nell’arsura d’amore che in Dio. “Vorrei avere anche un ritratto di vostro fratello e di vostra cognata; amo tutto ciò che ha a che fare con voi e sono attaccatissima a quanto vi riguarda; mentre non sono disponibile verso me stessa. In certi momenti mi sembra che la mia sottomissione potrebbe spingermi a servire la donna che amate”. La parola esatta qui – da tenere a mente per dopo – è sottomissione. L’amore – creazione mentale, creatura demonica – fa deserto, prova fino allo sterminio. “Perché mi avete fatto conoscere le imperfezioni e i dispiaceri di un affetto effimero e le amarezze che comporta un violento amore quando non è ricambiato? E perché una cieca inclinazione e un destino crudele si accaniscono in genere per determinarci in favore di chi non può essere sensibile che per altri?”.

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Louise de Bellètre du Tronchay è donna speculare e contraria all’enigmatica Monaca portoghese. Louise non è una creatura letteraria, non si sottomette all’amore per un uomo, ma alla chiamata di Dio. Non è eletta al monastero, ma sprofonda nel sottosuolo della Salpêtrière, otto anni dopo la pubblicazione delle Lettere di una monaca portoghese. Così di lei ha scritto Benedetta Craveri nel 1994, sulla Repubblica: “Nata nel 1639, in un avito castello nei pressi di Angers, Louise de Bellère du Tronchay era bella, intelligente, gentile. Fin da bambina avrebbe desiderato prendere il velo, ma i suoi genitori, che l’amavano teneramente e nutrivano per lei ambizioni diverse, erano riusciti a distrarla dai suoi austeri propositi. Poi, a trent’anni passati, un giorno all’improvviso, Dio le aveva rivelato il suo volere in modo inappellabile. Una predica sulla conversione di Maria Maddalena… era stata la sua Via di Damasco. Mademoiselle du Tronchay si era identificata con la peccatrice dei Vangeli e, schiacciata da uno smisurato sentimento di colpa, aveva deciso di consacrarsi a una vita di severa espiazione. Spogliata di tutto e internata in un oscuro convento di provincia, la penitente non riusciva tuttavia a dimenticare di avere troppo a lungo anteposto le vanità del mondo all’amore di Dio. Il timore di essere dannata non le dava pace e la paura delle fiamme eterne la mettevano fuori di sé. Le sue urla e le sue convulsioni finirono col diventare intollerabili per la comunità che l’aveva accolta e, fallito ogni tentativo di calmarla, si rese necessario di rinchiuderla a Parigi, in quell’inferno in terra chiamato Hopital Général. L’Hopital era una istituzione recente, sorta agli inizi del regno di Luigi XIV come opera di misericordia e, al tempo stesso, come strumento di controllo poliziesco. Esso accoglieva vagabondi, malati, pazzi, criminali, vecchi e bambini e fungeva da ospizio, da prigione, da manicomio, da ospedale. Louise fu rinchiusa nell’edificio riservato alle donne, La Salpetrière, dove duemila internate vivevano in condizioni disumane, immerse nella sporcizia e nel lezzo, mangiate dai topi e dai vermi, costrette a una tragica promiscuità, abbandonate senza protezione alla violenza e alla follia delle loro compagne”.

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La mistica che propone Louise non è graffiante di luce, proviene dagli inferi, è un’estasi nell’umiliazione. “Che io possa sopportare tutti i mali immaginabili, sarò contenta pur di possederlo… La natura ne ha grande ripugnanza, ma bisogna preferire alla propria soddisfazione il piacere di Dio; è necessario che essa soffra, contro se stessa, il freddo, la fame, le ingiurie, i rifiuti, e che mangi un poco di zuppa fredda quando c’è; poiché non le si permette di farla riscaldare. Il giorno di venerdì santo, le mie padrone povere mi tolsero la scodella e la mia porzione, e mi lasciarono soltanto qualche rifiuto; ne riempirono i miei abiti; mi rimproverarono la mia follia; mi caricarono di maledizioni spaventose: Dio mi ha fatto la grazia di ringraziarle, di chiedere loro perdono”, scrive Louise al suo confessore. Le lettere, redatte tra il 1679 e il 1694, sono pubbliche, a Parigi, per cura di Padre Maillard, nel 1732. In Italia le edita, come Il trionfo delle umiliazioni, per la cura di Mino Bergamo, Marsilio (1994).

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Louise vaga tra i rifiuti perché si sente il rifiuto – vuole essere il rifiuto più di tutti rifiutato, vuole fare il vuoto, anela che tutta l’umanità gli sputi in faccia perché non resti altro che Dio e la sua faccia a sollevarla. Si costruisce il deserto: nell’agone dell’agonia e del sopruso non puoi vedere che Dio.

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Il nome che acquista Louise è Louise du Néant, Luisa del Nulla. In quel Néant c’è l’annientamento ma anche l’attributo divino. Sprofondare al fondo del fondo, discepola al disumano, fino al viso di Dio – oltre il niente c’è il Niente, equivalente a Tutto. “Me la sono presa pure con la natura corrotta; lei volle subito scusarsi; mi adirai contro di lei, e le dissi: ‘Taci miserabile, io ti perderò’. E allora mi misi sulla testa una corona di chiodi e me la conficcai quanto più potei. Dichiarai a questa vigliacca una guerra senza tregua, perché mi mette sempre nei guai nei confronti del mio caro Amore. Per mortificarla maggiormente mescolai dell’immondizia col pane che mangiava. Volle resistere ma io la costrinsi a ingoiarla, malgrado la sua ripugnanza”. Il ripugnante è argomento di splendore, secondo l’etica dello ‘stolto in Cristo’ (“Noi siamo stolti per la causa di Cristo… noi siamo deboli… noi siamo reietti… soffriamo la fame, la sete, nudi veniamo schiaffeggiati, vagabondi”, secondo le parole micidiali di Paolo ai Corinzi, bagliore di un cristianesimo estremista, l’unico).

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L’amore inabissa alla sottomissione, al ripugnante. Laclos pubblica nel 1782 Le relazioni pericolose: un romanzo per lettere, in francese, che dice l’indecente dell’amare. C’è una viziata affinità con Luisa del Nulla e con la Monaca portoghese.

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La figura (reale) di Luisa del Nulla e quella (fittizia) della Monaca portoghese, in realtà, sono il nodo del cristianesimo, fin dalle origini. Sono “la follia sui confini del cristianesimo”, come scrive Michel de Certeau in Fabula mistica. Il grande studioso trae l’esempio della donna umiliata, vigile nell’annientamento, dalla Storia lausiaca. Ne munge una riflessione possente: “Una donna, dunque. Non esce dalla cucina. Non esce dall’essere qualcosa che riguarda lo sbriciolamento e gli avanzi di cibo. Ne fa il suo corpo. Si sostenta nell’essere solo questo punto di abiezione, il ‘nulla’ che ripugna. Ecco ciò che ‘preferisce’: essere la spugna… Nessuna discontinuità fra lei e i rifiuti: non ‘mastica’; niente separa i resti dal suo corpo. Essa è questo resto, senza fine – infinito… Prende su di sé le funzioni corporee più umili e si perde in un insostenibile, al di sotto di ogni linguaggio. Ma il rifiuto ‘ripugnante’ permette alle altre donne di condividere i pasti, di avere in comune i segni vestimentari e corporali di elezione, di comunicare parole; l’esclusa rende possibile un’intera circolazione”. Per rendere possibile la vita – pur in adorazione – degli uomini, è chiesto l’uomo di cui fare pasto, il sacrificio, la candida preda. Le parole che sostengo, qui, sono rifiuti, ripugna, al di sotto di ogni linguaggio. Essere esclusa permette il rapporto esclusivo con il sacro – ma non se ne ha alcun riferimento che lo scempio, la scelleratezza di un buco, di un vuoto.

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Da una parte c’è la foga di visitare l’al di là dell’umano, certi che lì accada Dio; dall’altra la fuga nell’ossessione carnale, l’ingorgo nell’uomo sfidando la fede, minacciando i celesti. L’agnello è lupo – e viceversa. (d.b.)

*In copertina: Francesco Hayez, “La Maddalena”, ante 1833

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