La collina delle cause perse. Voci dall’Antologia di Spoon River
Poesia
Enzo Fontana
Analogia del mare con il deserto. Nel mare levita il male Leviatano, onnipossente creatura; nel deserto si rivela Dio: nella roccia, nell’arbusto in fiamme, nella sete. Paradosso estenuante: il mare è imbevibile acqua, imbevuta di sale; il Dio del deserto fa sgorgare fiumi da arature arse, lingue di ossificata terra. Per adempiere il deserto, viatico alla Promessa, Mosè dilata le acque del mare. Il mare, portale del deserto.
Mendica lingue del deserto, Iddio, per dirsi.
Ismaele, primogenito di Abramo, è il figlio sacrificato al deserto. Ismaele è il nome fittizio del narratore di Moby Dick (“Call me Ishmael”): storia di oceani, dunque, di deserti – il capodoglio è leviatanico iddio, latteo verbo, velo. “E fu, Dio, con il ragazzo che crebbe e abitò il deserto e divenne un grande arciere” (Gen 21, 20). L’arciere come il marinaio che arma la fiocina: armi con la punta, da scagliare, servono nel deserto come nel mare. La freccia, icona dello spirito; la caccia, figura della grande cerca; tutto, nei vasti spazi, è preda. Ubriachi di notte, il deserto sembra il mare; desertica appare, a tratti, la distesa marina.
Midbar, per l’ebreo pellegrino, è il deserto, il luogo inospitale, inabitabile: parola che sa di nettare – è la serratura che spalanca la Promessa – e che terrorizza. Midbar è l’alcova che dischiude dabar, la parola di Dio: setacciare i deserti per trovare arbusto grammaticale. “Uomini trasognati” abitano il deserto, racconta Leo Frobenius; il deserto, aspra terra di grandi narratori. L’oasi splende come un fuoco, e le stelle esistono a patto che uno le racconti.
Una leggenda dei tuareg dell’Ifoghas – in Mali, secondo le nostre geometrie geografiche – racconta di “sette ladroni Tuareg che rubarono la cammella preferita di Sidi Nuah (Noè) per mangiarsela”. L’uomo, “protetto di Allah, scoprì i predoni e li punì facendoli tramutare chi in sciacallo, chi in camaleonte, chi in varano”. La cammella, eletta in cielo, diventò costellazione – la nostra Orsa Minore:
“il suo occhio fu la stella più brillante: da allora il piccolo astro luminosissimo indica alle carovane e ai viandanti del Sahara la via del settentrione”.
Eppure, c’è mare e mare, c’è deserto e deserto. Ciascuno ha la propria cruna, la propria rivelazione. Cristina Campo, nell’introduzione ai ‘suoi’ Detti e fatti dei Padri del deserto, parla degli “asceti atterriti” in fuga dalle capitali dell’epoca – Alessandria, Costantinopoli, Roma – che “affondavano nei deserti di Scete e di Nitria, di Palestina e di Siria”. Siria, Egitto, Terra Promessa. Inesausto esodo dall’Africa settentrionale a Israele: sulla soglia del deserto o nel suo cuore – si attraversa un deserto, ad esso ci si cuce: la voce come scroscio di sabbie, agrimensura di pietre.
I deserti non sono uguali – c’è chi nel deserto va per seppellire il suo cuore, chi per donarlo; chi il deserto lo abita, estremo graffio divino. Chi è abitato da un deserto, chi vuole far germogliare la propria anima – disseccando il resto – nel deserto; e chi del deserto fa casa, lo conosce per ciò che è. Ineffabile alterigia dei Tuareg, che non sono riconducibili a un reame, a un credo.
Straordinaria guida nel desertificare, Charles de Foucauld, indagatore di deserti. Prima a Beni-Abbès, poi a Tamanrasset: ricoveri frugali, a dirotto, nel vento (studiare i legami che appropriano il vento ai deserti; alle acque). Impara la lingua dei Tuareg, traduce il Vangelo nella lingua del deserto. È come un nuovo annuncio. Da Beni-Abbès scrive:
“Se io potessi, ma non posso, fare qualcos’altro che perdermi, totalmente, nell’unione alla sua divina volontà, io preferirei, per me, l’insuccesso totale e la perpetua solitudine e i fallimenti in tutto. Elegi abjectus esse. C’è in questo un’unione all’abiezione e alla Croce del nostro divino Beneamato, che mi è parsa sempre desiderabile tra tutte…”.
Elegi abjectus esse in domo dei mei/ magis quam habitare in tabernaculis peccatorum, traduce Girolamo. La Nova Vulgata, magia esegetica, fa sparire l’abjectus, obietta sull’abiezione; la resa – per carità, più prossima all’emanazione ebraica – è dunque: elegi ad limen esse in domo dei…
Inesorabile banditismo dei Tuareg: fecero di fratel Carlo una preda; ebbe l’abiezione che prediligeva. Gente che aveva gratificato lo punì: fu derubato, oltraggiato, ucciso. Il martirio nel deserto.
Ma questa è altra storia.
Nel 1926, a Parigi, dieci anni dopo la morte di Charles de Foucauld, in edizione di pregio – Les Editions d’Art Devambez – due stravaganti avventurieri, Louis Audouin-Dubreuil e Georges-Marie Haardt, radunarono, con un titolo suggestivo, Les Nuits du Hoggar, una serie di “poèmes Tuareg”, di cui qui si offre un breve repertorio. Arruolati da André Citroën – l’industriale delle automobili – attraversarono il Sahara in lungo e in largo, da Figuig (Marocco) a Savè (Benin), poi da Béchar (Algeria) a Timbuctù (Mali). Si fecero scortare dai Tuareg, di cui cominciarono ad amare i canti. Naturalmente, la spedizione non aveva nulla di ‘spirituale’: animata da interessi economici, piuttosto, lateralmente culturali, sottilmente turistici, ha aperto la via a fenomeni come la “Parigi-Dakar”.
D’altronde, da decenni, gli europei inviavano nei deserti d’ogni dove i propri esploratori, di ogni sorta, da Frobenius a T.E. Lawrence a Marcel Griaule, forse nell’incerto tentativo di domare le vastità. Ma qualcosa resta sempre refrattario allo studio. Così, questi poemi autenticamente Tuareg hanno refoli provenzali, figura del trobar leu: quando si fa riferimento a une jeune fille, la nostra mente romanzesca non può non andare alle Ragazze da marito di Henry de Montherlant (lì da venire), come se potessimo creare analogie tra le livide raffinatezze parigine e i corsivi rocciosi dell’Haggar, tra il cinismo del seduttore flâneur e l’audacia del guerriero stellare, tra l’epica della decadenza e l’invito all’eroismo.
Piuttosto, visto il pullulare di sciacalli, demoni del deserto, anime in carne dei Tuareg, dovremmo pensare che lo stesso estro unisca Praga al Tassili: le arabescate belve di Kafka, in Sciacalli e Arabi, che latrano, “purezza, null’altro che purezza chiediamo!”, sembrano pronte alla riscossa, mareggiata d’oasi.
Non fosse che oggi gli antichi destrieri sono destinati a posare per pittoresche cartoline; viaggiano in auto, a tutta musica – occidentale, spesso.
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Poesie dei Tuareg
La gazzella ferita
La gazzella che hai colpito
viene a morire sotto le tamerici
presso il rifugio dove conducevo le mie prede
mentre stavo lavando i vestiti.
L’abbiamo trovata la sera
ritornando al campo.
Il corpo ancora vigile
le palpebre che non
coprivano ancora
i lunghi occhi tristi.
Ho riconosciuto il tuo marchio
sotto la lama del giavellotto
che ha trafitto la bestia.
Mi credi come lei?
Rispondimi, ti prego:
il tuo sguardo ha ferito
il mio cuore con la stessa esattezza.
*
Segreto
O pietra, pietra senza età
pietra vecchia quanto il mondo
guancia di arenaria scalfita dal vento
incido su di te il mio segreto.
Ripeto eternamente che Nahilla, figlia di Nadir,
ama Shebboun, il più intrepido tra i guerrieri.
*
La montagna spoglia
Un tempo i fianchi di questa montagna erano ricoperti di fiori.
I dromedari dei nostri nemici hanno falciato le corolle profumate.
Oggi questa montagna sembra una ragazza da marito, dimentica di sé;
sembra una giovane sposa che ha conosciuto le braccia del conquistatore e ora svanisce, tra vampate di vergogna.
*
Elogio del mio destriero
Per ali ho il mio destriero:
lode a Dio, della forza il possidente,
che mi ha dato questo cavallo striato
in grado di portarmi da colei che amo
incurante della distanza che ci separa.
*
Elogio di Kouka
Kouka eccelle su ogni altra donna
come una corona di vigne sulle erbacce.
Kouka eccelle su ogni altra donna
come una palma svetta tra i cespugli.
Kouka eccelle su ogni altra donna
come uno scudo di rame su quelli di cuoio.
Kauka eccelle su ogni altra donna
come una tunica di seta su quelle volgari.
Kauka eccelle su ogni altra donna
come un giavellotto tra le crude lance della terra.