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Letterature
Il nuovo libro di Massimo Cacciari apparso per i tipi di Adelphi, Metafisica concreta, sin dal titolo mira allo sdoganamento di una parola scomoda e guardata con sospetto nella civiltà scientifico-tecnocratica odierna. Opportunamente Cacciari richiama il detto di Hegel, per cui la parola Metafisica è un termine dinanzi a cui ognuno, più o meno, si affretta a fuggire come davanti a un appestato.
Demonizzata e ostracizzata dal dominio del sapere, la metafisica è tuttavia la radice prima dell’interrogazione filosofica e la tensione ultima del pensiero, la sua verticalità che, in un circolo ideale, si ricongiunge proprio al tema dell’inizio del pensiero, tema che tanto aveva indagato lo stesso Cacciari in un suo vecchio libro.
La metafisica è la scienza degli enti in quanto tali, sottratti alla loro contingenza.
Benemerita la reintroduzione nel pensiero attuale della sorgente originaria e più pura della filosofia, anche se, purtroppo, tale riproposizione avviene con le modalità della prosa tipica di Cacciari, volutamente solenne e a ogni piè sospinto infiorettata con citazioni dal greco antico e dal tedesco feticisticamente esibite. Ci si chiede perché un uomo dagli studi severi, della dottrina e dell’intelligenza di Cacciari non possa esporre il proprio pensiero in una forma più colloquiale e meno composta professoralmente. “Less is more”, e a tale regola aurea non dovrebbero sottrarsi neanche i pensatori ormai istituzionalizzati come Cacciari.
Gli spunti più genuini della sua speculazione avrebbero avuto a nostro avviso molto migliore risalto se il libro fosse stato condensato e ridotto a un nucleo più essenziale. La riduzione all’osso, la scarnificazione giovano solo alla prosa filosofica, così come l’adozione di un linguaggio il più possibile piano e conversevole. Purtroppo, in Italia sembrano godere di credito solo i filosofemi esposti nella forma più ieratica e si presta fede solo alla finta solennità, alle scritture paludate. Si confondono il complicato con il profondo, le logomachie più inconcludenti e buone solo a rimpolpare i curriculum accademici con il reale dispiegarsi del pensiero. Considerazioni, queste, rivolte non a Cacciari, che è robusta mente filosofica e uomo di estesa cultura, ma alla preponderanza dei mestieranti italici della filosofia.
Dinanzi alle contorsioni della loro prosa mi torna sempre in mente una paginetta di Croce in Cultura e vita morale in cui il pensatore napoletano scriveva:
“Penso talvolta che il ciabattino napoletano che vedo ogni sera, nel tornare a casa mia, accanto al suo deschetto, occupato a lavorare di ago e succhiello, al lume di un candelotto protetto da un pezzo di carta bisunta, rappresenti l’utilità e la dignità sociale assai meglio del candidato universitario, che imbastisce il suo zibaldone sul Concetto della libertà o sulle Categorie kantiane”.
Considerazioni polemiche a parte, ribadiamo comunque l’importanza dell’operazione di Cacciari nel reintrodurre questa categoria tanto bistrattata e fraintesa. La filosofia, a differenza delle scienze, non è disciplina cumulativa o, per meglio dire, è cumulativa solo in senso apofatico e negativo. Quando il cogito di Cartesio dà avvio al soggettivismo moderno si crea uno spartiacque ineludibile del pensiero nel circoscrivere i limiti e gli ambiti della gnoseologia umana.Così, con la sintesi a priori di Kant, si delimitano una volta per tutte le colonne d’Ercole della conoscenza umana e la stessa prova dell’esistenza o inesistenza di Dio cessa di fare parte della ragione pura per essere ricondotto a puro postulato della ragione pratica.
In questo senso la filosofia cresce e si alimenta su se stessa, ma circoscrivendo sempre più i limiti del nostro potere conoscitivo, apprendendo in maniera implacabile dove la nostra ragione può spingersi e dove non potrà mai inoltrarsi. La filosofia finisce sempre col tornare alle sue categorie originarie e nel pensatore forse più significativo o almeno iconico del ventesimo secolo, Martin Heidegger, essa fa ritorno proprio ai fondamenti dell’ontologia, al problema dell’Essere e alla condizione dell’“Esserci”, del nostro essere gettati nel mondo. Si compie una catabasi alla nascita del pensiero occidentale nella Grecia antica ma, anche in questa riformulazione della nostra tradizione ontologica, rimane incerta perfino la definizione univoca del termine filosofia.
In venticinque secoli di pensiero occidentale non ci si è messi d’accordo nemmeno sull’oggetto della filosofia e sul preciso significato del termine! Né può esserci una definizione univoca e data una volta per tutte perché la filosofia perpetuamente ridefinisce se stessa in relazione ai problemi del proprio tempo, nel senso per cui, proprio per Hegel, essa è il proprio tempo appreso col pensiero.
Ne scaturisce un problema insormontabile, se la filosofia è l’apprendimento e la critica del proprio tempo, essa è né più e né meno che storicità riformulata teoricamente.
Ma essa è totalmente e integralmente storicità, in un circolo senza residui?
A un certo punto Cacciari discorre del nesso tra filosofia e storia della filosofia e si chiede, giustamente, come possa essere concepita se non vi fossero “filosofie perenni”. Presupposto della filosofia come metodologia del pensiero storico, annota Cacciari, è l’esistenza di filosofie che contrastano tale “sobrietà” nei loro stessi fondamenti. Se è così, la contraddizione sarebbe superabile solo nel caso che una “filosofia perenne” possa ergersi a storia della filosofia e, a tal proposito, Cacciari si richiama a un altro autorevolissimo pensatore contemporaneo, Gennaro Sasso, e al suo richiamo sull’impossibilità di fare storia della filosofia se non si cerca innanzitutto “la Filosofia”. E tale “Filosofia” è proprio la metafisica, la ricerca di ciò che è eterno ed extratemporale oltre le categorie finite e contingenti.
La filosofia è necessaria alla scienza ma resta da essa nettamente distinta e il criterio della verificazione epistemologica (o della falsificazione popperiana) non è pienamente ad essa applicabile.
La scienza mantiene una tensione cosmologica e, in ultimo, metafisica; tale è il suo tendere, la sua direzionalità che la apparenta alla filosofia in questo slancio di apprendimento “verticale”. Ma, a differenza delle scienze, la filosofia non sarà mai parametrabile sperimentalmente e, a costo di far credere alla caricatura del filosofo acchiappanuvole, essa farà sempre ritorno alle categorie eterne e atemporali, a quella sfera delle Idee platoniche in cui perpetuamente il nostro pensiero occidentale si dibatte.
Il detto di Whitehead per cui la filosofia dell’Occidente non è che una serie di glosse a Platone è ben lontano dall’ essere un’esagerazione retorica. Le questioni filosofiche, come evidenziato da Wittgenstein, sono formalmente indecidibili, insolubili. Un sistema filosofico potrà apparirci più argomentato, profondo e concatenato nelle sue intime parti rispetto a un altro ma non si potrò mai stabilire per via sperimentale il suo maggiore grado di verità. Potrò, al massimo, stabilire la sua maggiore o minore ottemperanza ai criteri della logica strettamente formale ma non il suo effettivo adeguarsi e corrispondere a una “Verita’” eterna e incontingente ma sottratta al nostro sguardo limitato proprio dal velo di Maia del contingente.
La filosofia, la “metafisica concreta” che dà il titolo al volume, rimane un’istanza perenne dell’essere umano, nuova e autorigenerata in ogni uomo, ma deve necessariamente arrendersi di fronte ai limiti delle nostre conoscenze e rassegnarsi all’ umiltà. Dire che la Verità corrisponde al pozzo di Democrito scontenterà molti ma altro non si può dire e l’illusione di ancorare la filosofia alla certezza tramite la saldatura con la Storia o con la Scienza non potrà sottrarci all’ effettiva realtà che a tornare sempre a galla è la pulsione metafisica, lo slancio verso le cose ultime che conferisce alla filosofia teorica una profonda parentela con la religione.
L’Essere di Heidegger è in ultima istanza Dio, seppur riformulato con una terminologia ligia ai crismi della disciplina ontologica. E il famoso e ormai abusato detto di Heidegger per cui solo un Dio ci può salvare è l’esplicito rimando al carattere propriamente religioso e cosmologico nel senso più pregnante del nostro interrogarci.
Alessio Magaddino