16 Maggio 2019

“Quindi è consigliabile, per i giovani, leggere Spinoza, partire subito dal difficile, perché almeno, così, del facile ci resterà un certo disgusto”: sbuca un inedito di Guido Ceronetti, il maestro estremo

La definizione più appropriata di Spinoza l’ha data un suo ‘avversario’ nel ring del pensiero. “Egli, che aveva amato il suo Signore Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima – quante volte e con quale forza ne parla nelle prime opere e nell’Ethica – venne scelto da Dio stesso per uccidere Dio. I tempi erano giunti al loro compimento, l’uomo doveva uccidere Dio, ma chi meglio di colui che Lo aveva amato più di ogni altra cosa al mondo avrebbe potuto ucciderlo? O meglio: Dio non aveva potuto essere ucciso se non da colui che Lo aveva amato al di sopra di tutti i tesori della terra. Era necessario un uomo simile, perché gli uomini potessero credere che egli aveva di fatto, e non solo a parole, perpetrato questo delitto dei delitti, questa impresa più eroica di ogni altra impresa”. Questa lucidità spietata, da chi lima il vetro con la propria carotide, è di Lev Sestov, in quel saggio, I favoriti e i diseredati della storia. La sorte storica di Spinoza, interno al libro miracoloso, salutare, un salterio che esalta, La bilancia di Giobbe. Non è un caso che dopo questo saggio ne appaia un altro, La notte di Gethsemani, dedicato alla “filosofia di Pascal”. Spinoza e Pascal, nella lettura di Sestov, sono due lati dello stesso specchio – e forse soltanto Sestov, indagatore dell’incurabile filosofico, può scrivere questo, “Spinoza fece tutto questo. Suggerì agli uomini che si può amare Dio con tutto il cuore e tutta l’anima, come l’hanno amato i salmisti e i profeti, anche quando Dio non esiste”, che formula mirabile, da sregolare le palpebre in foglie, in vento, e a farci restare qui, ossessi insonni.

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Probabilmente, Lev Sestov percepiva una affinità perfino eroica con la vita di Spinoza, che per pensare accettò il ripudio, il rifiuto, lo sputo. Baruch significa “Benedetto” e nel libro omonimo del canone biblico è scritto: “Così non è mai avvenuto sotto il cielo: a Gerusalemme mangiano le carni dei figli. Il Potente li pone sotto il rango di altri regni, desolazione e schifo presso i popoli in cui li ha perduti” (2, 4-5). Spinoza è figlio del ripudio e della fede sotterrata – viene da ebrei sefarditi, marrani – fu scomunicato dalla comunità ebraica di Amsterdam (“che nessuno si avvicini a lui più di quattro gomiti; che nessuno dimori sotto il suo stesso tetto…”), è lì a molare lenti, con le sorelle che lo espropriano dell’eredità – che lui si fa docilmente estorcere – rifiutò di insegnare perché non sapeva patteggiare con le accademie, morì in fiera e nobile povertà, a 44 anni.

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Per conoscere Spinoza è lo Spinoza di Giuseppe Rensi, tuttavia, il formidabile passepartout. Nell’edizione appena pubblicata da Aragno, il testo di Rensi edito dal geniale Formiggini nel 1929 è avvicinato all’edizione Bocca del 1941, più ampia, “pubblicata dopo la sua morte”, che “non poté essere da Lui riveduta e ritoccata”. Rensi, pensatore anomalo, laterale, da leggere a dovere, di cui Aragno ha cominciato a pubblicare alcuni testi (Su Leopardi, a cura di Raoul Bruni, è uscito lo scorso anno), fa stampare a Formiggini il suo Spinoza dopo la fatidica Apologia dell’ateismo (1925) e l’Apologia dello scetticismo (1926). Per lo meno, Rensi sa scrivere. Ha una certa brillantezza – incipit: “Il grandioso sforzo di Spinoza è quello di guardare la realtà non con occhi umani, ma con quelli stessi della realtà se essa ne possedesse” – e una spiccata verve drammatica, d’istinto leopardiano – nel capitolo su L’Essere: “Guarda d’intorno a te, guarda le cose, guarda l’universo. Che ti presenta la realtà? Un turbine di oggetti, di mondi e di insetti, di astri e di fiori, di uomini e di minerali, innumeri forme di materia e forme di vita, gettate fuori di continuo dal seno inesausto della natura e di continuo riassorbite in esso. Un moto continuo di produzione, d’estinzione e di nuova produzione. Tutto ciò che c’è scompare. Tutto ciò che è scomparso si riproduce. La rosa, che oggi ondeggia sul suo stelo, domani è sfiorita”.

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Ma la ‘chicca’, come si dice, di questo libro, curato con aristocratico disincanto da Luca Orlandini, è in fondo, una brezza di pagine, 241-244. Il testo – a cui è stato dato titolo ottimo: Una voragine di pensiero – è un inedito di Guido Ceronetti. Ceronetti che parla di Spinoza e dello Spinoza di Rensi. Tradotto in carta da una trasmissione radiofonica del 2003, in onda su Radio Rai 3. “Mi ha affascinato il libro di Rensi, prima di tutto; e poi, su questa strada, ho amato Spinoza”, fa, il sapiente. E poi. “A differenza del suo maestro unico, Cartesio, Spinoza ha bevuto i succhi talmudici e biblici della sinagoga di Amsterdam, che poi lo ripagò maledicendolo in una forma oggi per noi spaventosa – ‘sia maledetto di giorno, sia maledetto di notte, nessuno gli dia l’acqua da bere’ – perché aveva deluso il grande Rabbino Morteira, che vedeva in lui una futura colonna della sinagoga. Ma Spinoza serviva il suo cammino verso la verità, e aveva modificato il pensiero teologico della comunità. E quindi era veramente un eretico. Questo pensiero eretico, però, è per me anche eretico non in senso teologico, ma in quanto proprio non sembra dare spazio he a delle metalliche formule geometriche in cui non c’è spazio per il sogno”. Prima di consigliare la lettura di Rensi – “autore italiano che consiglio vivamente a chi ama la filosofia e il pensare, il denken proprio, non l’oziare, così, attraverso i libri” – l’impavido, impareggiabile Ceronetti propone Spinoza come allenamento mentale per i ragazzi. Proprio così. “Leggere tutta l’Ethica non è certamente una lettura facile; dico, a dir poco, non è facile. È veramente un osso duro. Però, se non impariamo a rosicchiare degli ossi duri, i denti non ce li moliamo. Quindi è consigliabile, per i giovani, leggere Spinoza, partire subito dal difficile, perché almeno, così, del facile ci resterà un certo disgusto”. Imparare l’arte del disgusto, dopo aver assaggiato la vertigine, è necessario. (d.b.)

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