La definizione più appropriata di Spinoza l’ha data un suo ‘avversario’ nel ring del pensiero. “Egli, che aveva amato il suo Signore Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima – quante volte e con quale forza ne parla nelle prime opere e nell’Ethica – venne scelto da Dio stesso per uccidere Dio. I tempi erano giunti al loro compimento, l’uomo doveva uccidere Dio, ma chi meglio di colui che Lo aveva amato più di ogni altra cosa al mondo avrebbe potuto ucciderlo? O meglio: Dio non aveva potuto essere ucciso se non da colui che Lo aveva amato al di sopra di tutti i tesori della terra. Era necessario un uomo simile, perché gli uomini potessero credere che egli aveva di fatto, e non solo a parole, perpetrato questo delitto dei delitti, questa impresa più eroica di ogni altra impresa”. Questa lucidità spietata, da chi lima il vetro con la propria carotide, è di Lev Sestov, in quel saggio, I favoriti e i diseredati della storia. La sorte storica di Spinoza, interno al libro miracoloso, salutare, un salterio che esalta, La bilancia di Giobbe. Non è un caso che dopo questo saggio ne appaia un altro, La notte di Gethsemani, dedicato alla “filosofia di Pascal”. Spinoza e Pascal, nella lettura di Sestov, sono due lati dello stesso specchio – e forse soltanto Sestov, indagatore dell’incurabile filosofico, può scrivere questo, “Spinoza fece tutto questo. Suggerì agli uomini che si può amare Dio con tutto il cuore e tutta l’anima, come l’hanno amato i salmisti e i profeti, anche quando Dio non esiste”, che formula mirabile, da sregolare le palpebre in foglie, in vento, e a farci restare qui, ossessi insonni.
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Probabilmente, Lev Sestov percepiva una affinità perfino eroica con la vita di Spinoza, che per pensare accettò il ripudio, il rifiuto, lo sputo. Baruch significa “Benedetto” e nel libro omonimo del canone biblico è scritto: “Così non è mai avvenuto sotto il cielo: a Gerusalemme mangiano le carni dei figli. Il Potente li pone sotto il rango di altri regni, desolazione e schifo presso i popoli in cui li ha perduti” (2, 4-5). Spinoza è figlio del ripudio e della fede sotterrata – viene da ebrei sefarditi, marrani – fu scomunicato dalla comunità ebraica di Amsterdam (“che nessuno si avvicini a lui più di quattro gomiti; che nessuno dimori sotto il suo stesso tetto…”), è lì a molare lenti, con le sorelle che lo espropriano dell’eredità – che lui si fa docilmente estorcere – rifiutò di insegnare perché non sapeva patteggiare con le accademie, morì in fiera e nobile povertà, a 44 anni.
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Per conoscere Spinoza è lo Spinoza di Giuseppe Rensi, tuttavia, il formidabile passepartout. Nell’edizione appena pubblicata da Aragno, il testo di Rensi edito dal geniale Formiggini nel 1929 è avvicinato all’edizione Bocca del 1941, più ampia, “pubblicata dopo la sua morte”, che “non poté essere da Lui riveduta e ritoccata”. Rensi, pensatore anomalo, laterale, da leggere a dovere, di cui Aragno ha cominciato a pubblicare alcuni testi (Su Leopardi, a cura di Raoul Bruni, è uscito lo scorso anno), fa stampare a Formiggini il suo Spinoza dopo la fatidica Apologia dell’ateismo (1925) e l’Apologia dello scetticismo (1926). Per lo meno, Rensi sa scrivere. Ha una certa brillantezza – incipit: “Il grandioso sforzo di Spinoza è quello di guardare la realtà non con occhi umani, ma con quelli stessi della realtà se essa ne possedesse” – e una spiccata verve drammatica, d’istinto leopardiano – nel capitolo su L’Essere: “Guarda d’intorno a te, guarda le cose, guarda l’universo. Che ti presenta la realtà? Un turbine di oggetti, di mondi e di insetti, di astri e di fiori, di uomini e di minerali, innumeri forme di materia e forme di vita, gettate fuori di continuo dal seno inesausto della natura e di continuo riassorbite in esso. Un moto continuo di produzione, d’estinzione e di nuova produzione. Tutto ciò che c’è scompare. Tutto ciò che è scomparso si riproduce. La rosa, che oggi ondeggia sul suo stelo, domani è sfiorita”.
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Ma la ‘chicca’, come si dice, di questo libro, curato con aristocratico disincanto da Luca Orlandini, è in fondo, una brezza di pagine, 241-244. Il testo – a cui è stato dato titolo ottimo: Una voragine di pensiero – è un inedito di Guido Ceronetti. Ceronetti che parla di Spinoza e dello Spinoza di Rensi. Tradotto in carta da una trasmissione radiofonica del 2003, in onda su Radio Rai 3. “Mi ha affascinato il libro di Rensi, prima di tutto; e poi, su questa strada, ho amato Spinoza”, fa, il sapiente. E poi. “A differenza del suo maestro unico, Cartesio, Spinoza ha bevuto i succhi talmudici e biblici della sinagoga di Amsterdam, che poi lo ripagò maledicendolo in una forma oggi per noi spaventosa – ‘sia maledetto di giorno, sia maledetto di notte, nessuno gli dia l’acqua da bere’ – perché aveva deluso il grande Rabbino Morteira, che vedeva in lui una futura colonna della sinagoga. Ma Spinoza serviva il suo cammino verso la verità, e aveva modificato il pensiero teologico della comunità. E quindi era veramente un eretico. Questo pensiero eretico, però, è per me anche eretico non in senso teologico, ma in quanto proprio non sembra dare spazio he a delle metalliche formule geometriche in cui non c’è spazio per il sogno”. Prima di consigliare la lettura di Rensi – “autore italiano che consiglio vivamente a chi ama la filosofia e il pensare, il denken proprio, non l’oziare, così, attraverso i libri” – l’impavido, impareggiabile Ceronetti propone Spinoza come allenamento mentale per i ragazzi. Proprio così. “Leggere tutta l’Ethica non è certamente una lettura facile; dico, a dir poco, non è facile. È veramente un osso duro. Però, se non impariamo a rosicchiare degli ossi duri, i denti non ce li moliamo. Quindi è consigliabile, per i giovani, leggere Spinoza, partire subito dal difficile, perché almeno, così, del facile ci resterà un certo disgusto”. Imparare l’arte del disgusto, dopo aver assaggiato la vertigine, è necessario. (d.b.)