19 Ottobre 2021

Per Mario Andrea Rigoni, lo studioso micidiale. Dialogo con Raoul Bruni

Inutile favoleggiare di segni o di aureole del destino, eppure: Mario Andrea Rigoni cura la traduzione di Squartamento, per Adelphi, nel 1981, quarant’anni fa; da allora comincia in Italia la costante, decisiva scoperta di Emil Cioran, pensatore terribile. La figura di Mario Andrea Rigoni, statuaria, aristocratica, perfino minacciosa – vivaddio –, dall’empireo della vertigine, è legata inestricabilmente al rapporto con Cioran, raccontato, tra l’altro, dall’epistolario, pubblicato come Mon cher ami (2007) e da un libro di memorie, apparso in Francia con il titolo Cioran dans mes souvenirs (2009). Di Mario Andrea Rigoni, morto pochi giorni fa, professore emerito a Padova, autore di un’opera di brutale grandezza, aliena ai sofismi dell’accademia, al grigiore dei burocrati della saggistica, avrebbero dovuto parlare in tanti, continuamente: non è stato così, e questo è un vanto, il segno di un pensare pericoloso. Basta, in effetti, aprire, a caso, un libro qualsiasi di Rigoni per riconoscerne l’intransigenza, la veridica violenza: a lui dobbiamo una lettura ineluttabile di Leopardi – cementata, tra l’altro, nel ‘Meridiano’ Mondadori delle Poesie, nell’antologia La strage delle illusioni, per Adelphi (1992), ne Il pensiero di Leopardi, introdotto da Cioran. Ricalchiamo, per intendere il ritmo del pensare, il passo, uno stralcio dal breve saggio Nietzsche e Leopardi: alcuni rapporti e alcune considerazioni. “Sia Nietzsche che Leopardi sono pensatori estremi, che hanno osato gettare uno sguardo efferatamente lucido e senza pregiudizi sulla fisiologia del mondo, approdando a una visione non solo antimetafisica ma, nello stesso tempo, antistorica e antiumanistica, che resta – al di là di ogni voga culturale – il sigillo della loro perenne inattualità. Sia Nietzsche che Leopardi hanno coltivato una forma di pensiero puro, non nel senso che fosse solamente intellettuale (giacché, anzi, entrambi hanno sempre ignorato un tale, penoso, limite del pensiero) ma nel senso che fosse totalmente privo di scopo: è la mancanza assoluta di teleologia che genera quella riflessione brada e selvaggia in virtù della quale nelle loro opere irrompe e circola ad ogni momento un feroce vento di steppa”. Strappando tutte le cortine della filosofia, non resta che il deserto, la parola/petraia, il verminaio delle contraddizioni, la riflessione brada e selvaggia, la sola, infine. È dunque in questa lotta abbacinante – sulla cruna di un’intelligenza tetragona, che non s’inchina alle mode, che esaurisce e sedimenta spine – che ci getta Rigoni. Per capirne il genio, abbiamo dialogato con Raoul Bruni, amico e allievo di Rigoni, di cui ha curato alcuni lavori.

Come possiamo riassumere il percorso intellettuale di Mario Andrea Rigoni?

Uno degli insegnamenti fondamentali che devo a Rigoni è l’importanza della sintesi, della «brevità felice», come intitolammo una raccolta di studi sull’aforisma uscita per Marsilio nel 2006, prendendo a prestito l’espressione dalle Note azzurre di Carlo Dossi. In questo caso, però, non è facile rispettare la regola aurea della brevità. Rigoni lascia infatti un’opera straordinariamente multiforme e ricca: ricca per densità e profondità speculativa, più che per la mole, peraltro considerevole. Molti conoscono Rigoni soprattutto come studioso di Leopardi e Cioran, o come firma autorevole delle pagine culturali del “Corriere della Sera”: meno noti sono invece i suoi studi sul pensiero simbolico tra Medioevo e età barocca, riuniti nel volume Maschere della verità (Carocci 2006). L’ampio saggio che inaugura il libro, Una finestra aperta sul cuore. Note sulla metafora della Sinceritas nella tradizione occidentale, risale in realtà al 1974, e fu scritto da Rigoni a venticinque anni sulla base della sua tesi di laurea, discussa con Enzo Turolla, grande amico e mentore di un’altra grande figura scomparsa quest’anno, Roberto Calasso. In quel saggio di stile warburghiano, che spazia da Platone al surrealismo, c’è già la cifra peculiare del Rigoni saggista: una sconfinata erudizione dissimulata in uno stile di esemplare chiarezza e eleganza. Lo stesso stile che ritroviamo nei suoi Saggi sul pensiero leopardiano, usciti per la prima volta nel 1982 e poi ristampati molte volte e da editori diversi (tra cui Bompiani): l’edizione definitiva è apparsa l’anno scorso per La Scuola di Pitagora con il titolo Il pensiero di Leopardi. Varie generazioni di studiosi si sono avvicinate a Leopardi attraverso questo libro. Io lo scoprii alla fine degli anni Novanta, preparando un esame di letteratura italiana all’Università e ne rimasi subito folgorato. In quelle pagine si respirava un’aria totalmente diversa da quella, per lo più asfittica, della saggistica accademica. Leggendo i saggi di Rigoni si coglie sempre la presenza dello scrittore dietro lo studioso. Come scrittore (ammesso che sia possibile distinguere in modo netto il saggista dallo scrittore in senso stretto), Rigoni ha pubblicato varie raccolte di aforismi (tra cui le Variazioni sull’Impossibile, antologizzate anche da Gino Ruozzi nell’antologia dei “Meridiani” Scrittori italiani di aforismi), di racconti (ricordo solo il primo titolo, Dall’altra parte, uscito da Aragno nel 2010), e, ultimamente, un libro di poesie, Colloqui con il mio demone (2021). Saggi, aforismi, racconti, poesie (non di rado gnomiche o epigrammatiche): forme diverse che hanno però in comune un certo carattere frammentario. Sotto questo profilo, possiamo dire che Rigoni fu sempre fedele alla forma-frammento, romanticamente intesa.

Qual era il tuo rapporto con Rigoni? Quali interessi ti hanno legato a lui?

Come dicevo, prima di conoscere Rigoni di persona, l’avevo già incontrato sulla pagina e, a partire dalla scoperta del suo Pensiero di Leopardi, avevo letto con avidità tutti gli scritti a sua firma che ero riuscito a procurarmi. Nel 2004, dopo la laurea, gli scrissi una e-mail, quasi come una sorta di messaggio in bottiglia, senza contare troppo su un’eventuale risposta. Invece rispose subito e mi invitò ad andare a trovarlo a Padova. Fin dal primo incontro, Mario (così ha sempre voluto che lo chiamassi) fu molto gentile e generoso nei miei riguardi, e mi chiese subito di passare al tu, insomma: mi trattò subito come un amico, piuttosto che come un allievo. Da quel momento è iniziata una lunga frequentazione e un rapporto intenso di collaborazione, che mi ha arricchito enormemente. Si offrì di farmi da tutor quando ottenni la borsa di studio di dottorato e seguì sempre le mie ricerche da vicino, spesso ispirandole con suggerimenti preziosi. Abbiamo lavorato insieme a molti progetti. Nel 2007 affidò a me il compito di introdurre e curare il suo carteggio con Cioran, Mon cher ami, a cui teneva moltissimo. Fui anche molto onorato quando mi chiese di scrivere la postfazione per la riedizione Aragno del Pensiero di Leopardi, che mi diede l’opportunità di legare il mio nome a un libro che mi era così caro. Ma con Rigoni si poteva parlava di tutto, non solo di letteratura, arte o filosofia: per esempio, era un grande appassionato di cinema e spesso ci scambiavamo opinioni sugli ultimi film che avevamo visto. Finché sono rimasto in Italia ci siamo visti e frequentati spesso, anche al di là delle occasioni universitarie. Da quando mi sono trasferito a Varsavia, inevitabilmente, ci vedevamo molto meno, ma in compenso ci sentivamo a telefono o su WhatsApp (l’ultima nostra conversazione risale a circa due settimane fa). La sua perdita mi ha scosso molto e mi ha lasciato il grande rammarico di non averlo rivisto un’ultima volta.

Perché l’affinità particolare con Leopardi? Che cosa ci ha insegnato Rigoni di Leopardi?

Rigoni aveva una visione disincantata della vita, che poteva sfiorare il nichilismo; ma nutriva al tempo stesso una vivace curiosità per il mistero della vita, per l’«illaudabil maraviglia» dello spettacolo del mondo, per usare un’espressione di Leopardi che Mario amava citare. Quindi nella scelta di Leopardi come autore d’elezione ci fu senz’altro una forma di rispecchiamento. I contributi di Rigoni su Leopardi sono fondamentali, tanto da aver segnato una vera e propria svolta nella storia della critica. Rigoni fu il primo a mettere in discussione in modo netto la lettura in chiave “progressiva” di Leopardi, che aveva egemonizzato la critica leopardiana a partire dal secondo dopoguerra. Questa posizione eretica provocò a Rigoni diversi ostracismi in ambito accademico, che perdurano in parte ancora oggi. Da questo punto di vista neppure la prefazione di Cioran fu d’aiuto, dato che negli anni Ottanta in Italia l’autore del Précis aveva una fama ancora molto controversa. I saggi di Rigoni aprirono inoltre nuove vie interpretative: dall’approfondimento dei rapporti tra Leopardi e i romantici europei alle considerazioni sul paradossale platonismo del poeta; dalla rivalutazione del Discorso sullo stato presente dei costumi degl’Italiani alla segnalazione di alcune trascurate affinità tra l’estetica di Leopardi e quella di Croce. Bisogna inoltre ricordare che Rigoni curò anche un’eccellente commento alle Poesie leopardiane per i «Meridiani» Mondadori, che ha il merito di prestare attenzione non soltanto alle fonti ma anche alle “foci” dei Canti. Infine non possiamo trascurare la fortunata antologia adelphiana La strage delle illusioni, tradotta anche in francese e in tedesco, che ebbe il merito di rivalutare Leopardi anche come filosofo politico.

Una forma, credo, di inconsueta intransigenza ha legato Rigoni a Emil Cioran. Come si sono conosciuti e come si è sviluppato il loro rapporto, su quali coincidenze (o distanze)?

Nei suoi scritti Rigoni ha rievocato a più riprese il suo primo incontro con Cioran, che avvenne a Parigi, a casa di amici comuni, all’inizio degli anni Settanta. Come documentano le lettere raccolte in Mon cher ami, la scintilla iniziale fu innescata dal comune interesse per Leopardi, a cui Cioran si sentiva spiritualmente affine. L’idea di tradurre Cioran in italiano fu la conseguenza naturale dell’evolversi del rapporto tra i due. Bisogna inoltre ricordare che per Rigoni non fu facile trovare un editore disposto a pubblicare Cioran, che sarebbe diventato un autore di culto in Italia solo dopo l’approdo nel catalogo Adelphi. Credo che tradurre Cioran per Rigoni sia stato un fondamentale esercizio di stile, oltre che un impulso decisivo per cimentarsi a propria volta con la scrittura aforistica. Non a caso la traduzione italiana di Squartamento esce per Adelphi nel 1981, lo stesso anno in cui Rigoni esordisce come aforista nella rivista “In forma di parole”. L’amicizia tra Rigoni e Cioran è molto interessante non solo per le numerose affinità, ma anche per certe distanze. Una volta Cioran, romanticamente ostile a ogni fora di analisi, rimproverò Rigoni per aver accettato di curare il citato commento alle poesie di Leopardi per “I Meridiani”: «Leopardi merita tutti i sacrifici, tranne quello di un’edizione erudita. Non capisco perché abbia accettato un incarico così ingrato, così poco poetico», si legge in una lettera. Ma i contrasti tra i due si ricomponevano rapidamente; anzi, a volte Cioran (che, a differenza di Rigoni, non aveva figli, né poteva concepire l’idea di averne) mostra verso il suo interlocutore una sollecitudine quasi paterna. Gli scritti di Rigoni su Cioran (la maggior parte dei quali raccolti nel volumetto del 2004 In compagnia di Cioran), le numerose traduzioni Adelphi firmate o propiziate da Rigoni e, naturalmente, il carteggio Mon cher ami sono anche il frutto di questo straordinario rapporto di amicizia.

Sia nei suoi saggi sia negli articoli per il “Corriere della Sera” Rigoni si è occupato molto spesso dei poeti, sia antichi sia contemporanei: perché? Più in profondità: che cos’era per Rigoni la poesia, il poeta?

Questa domanda mi dà l’occasione di toccare un ambito dell’attività di Rigoni di cui non ho ancora avuto modo di parlare: gli articoli scritti per il “Corriere della Sera”. Rigoni ha collaborato regolarmente alle pagine culturali del “Corriere” per circa un quarantennio pubblicando centinaia di articoli, dei quali solo una piccola parte è stata raccolta in volume (si legga l’antologia Scorciatoie per l’abisso, Aragno 2015). Negli articoli Rigoni dava spesso il meglio di sé, intrecciando la cronaca culturale con la riflessione metafisica. Ed è vero che i poeti tornano spesso negli articoli di Rigoni: non soltanto, com’è ovvio, Leopardi, ma anche molti poeti europei e americani. Ricordo ad esempio pagine memorabili su Pessoa (di cui firmerà anche l’introduzione all’antologia poetica che uscì in edicola allegata al quotidiano), Celan, Różewicz, o Louise Glück, di cui Rigoni si occupò nel “Corriere” diversi anni prima della vittoria del Premio Nobel. Ad attirarlo verso la forma poetica, e in particolare verso la lirica, fu forse l’idea di poesia come ispirazione e del poeta come depositario di un’ispirazione metafisica. Negli ultimi anni, dopo che la malattia aveva iniziato a manifestarsi in modo sempre più preoccupante, Mario dedicò alla scrittura poetica tutte le sue energie creative; scrisse moltissimi testi, tant’è che a Colloqui con il mio demone seguirà presto un’altra raccolta, per cui, come mi disse per telefono, aveva già preso accordi con l’editore Elliot.

Qual è il libro a tuo avviso ‘necessario’ di Rigoni, e quello anomalo, che elude ogni classifica?

Credo che Rigoni abbia scritto più di un libro ‘necessario’, ma se fossi costretto a sceglierne uno solo indicherei senz’altro Il pensiero di Leopardi, destinato a rimanere tanto per la sua profondità ermeneutica quanto per il nitore stilistico. Tra i libri ‘anomali’, io rimango molto legato alle Variazioni sull’Impossibile, che condensa in forma aforistica il pensiero e l’opera del suo autore. In ogni caso, al di là delle mie personali predilezioni, sia le Variazioni sia Il pensiero di Leopardi possono rappresentare un’ottima porta d’ingresso per affrontare anche gli altri libri di Rigoni.

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La vertigine della lucidità

Leopardi è l’unico grande pensatore-poeta che l’Italia abbia avuto da molti secoli a oggi ed è anche l’unico scrittore italiano dell’Ottocento dalle cui pagine emani quel profumo di deserto in cui riconosciamo uno dei segni meno equivocabili del moderno: ma, per un’ironia del destino che certo ha colpito molte altre figure d’eccezione e tuttavia, nel caso di Leopardi, è forse ancora più paradossale, l’uomo che ha vissuto e cantato l’esperienza del deserto è divenuto non solo l’oggetto di una pletorica e inarrestabile produzione accademica, ma anche, nello stesso tempo, un caso disponibile alle più gratificanti e improbabili annessioni ideologiche. Uno dei saggi dell’umanità, che trova i propri antenati ideali soltanto in Buddha o in Qohelet, è stato costretto a rivestire l’abito miserabile dell’intellettuale moderno.

Da più di trent’anni, cioè da quando furono pubblicati il saggio di Luporini Leopardi progressivo e quello di Binni La nuova poetica leopardiana (1947), la critica – salvo rarissime eccezioni – suona invariabilmente la stessa corda della razionalità costruttiva, della partecipazione civile, della decisione eroica, del progressismo politico-sociale o scientifico di Leopardi. Abbiamo così assistito al capovolgimento di elementari dati obiettivi d’una qualsiasi lettura non diremo vergine e non diremo neppure spregiudicata, ma almeno non del tutto cieca, del pensatore e del poeta. Leopardi deride, insieme con tutti gli altri miti del suo e del nostro tempo, “le magnifiche sorti e progressive”? Ma è di fatto un progressista e, se tale non appare immediatamente, è perché si trova su un’onda più lunga. rispetto ai contemporanei. Attacca e demolisce la ragione? Ma è una ragione “storica”, non la ragione in generale. Esalta, sotto ogni punto di vista, la splendida, inarrivabile superiorità dell’antico rispetto al moderno? Ma ciò avviene in un momento in cui il suo pensiero non era ancora pienamente maturo e consapevole. Scrive, lui, materialista puro, versi o addirittura interi canti di intonazione platonica? Sogna un mondo totalmente diverso da questo? Si tratta appunto di una semplice metafora poetica. Predica l’attività (anche se soltanto come distrazione dall’infelicità del sentimento di vita)? Ecco una prova del suo impegno costruttivo. Canta la felicità dello stato selvaggio? Una denuncia del colonialismo bianco. Invidia la condizione animale, che non conosce l’intollerabile esperienza della noia? Anela alla suprema insensibilità della morte, come unico sbocco all’incolmabile infinità del desiderio? Non è molto più che un vizio o un vezzo del pensiero. Ripete la massima dell’antica sapienza greca o il lamento di Giobbe che meglio sarebbe non essere mai nati? È un tema secondario.

Una delle opere più sconvolgenti, e meno assimilabili, del pensiero moderno, viene, in tal modo, letteralmente mutilata e stravolta in una lettura domestica e rassicurante, secondo i dettami d’un wishful thinking obbligatorio e banale.

Non apparirà allora strano se, fino a oggi, è stato difficile accorgersi non solo che l’essenza dell’opera leopardiana risiede nella distruttività di un illuminismo assunto o rovesciato in termini assolutamente negativi, ma che il necessario correlato o complemento di questa sono l’apologia dell’illusione, dell’apparenza, della poesia, dello stile, la filosofia del dimenticare, il riso e l’ironia dissolvente.

[Si riproducono qui i primi paragrafi del saggio del 1982 La vertigine della lucidità, ora raccolto in Mario Andrea Rigoni, Il pensiero di Leopardi, prefazione di E. M. Cioran, nota di Raoul Bruni, Napoli, La Scuola di Pitagora, 2020].

 

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