26 Febbraio 2018

“Bianchissimo (bianchissime mani) e due laghi d’azzurro gli occhi”: quando Cesare Cavalleri incontrò Pound (e polemizzò con Montale, e chiacchierava con Ungaretti…)

Per capire qualcosa della letteratura recente, occorre leggere ‘Leggere, rileggere’ (perdonate l’astioso bisticcio di parole), la rubrica che Cesare Cavalleri tiene da un bel tot su Avvenire, quotidiano su cui “scrive ininterrottamente dal primo numero del giornale, 4 dicembre 1968”. Su Avvenire, Cavalleri ha cominciato, ingaggiato da Raffaele Crovi, come critico della tivù, smettendo nel 1984 (“perché non c’era più la televisione”), poi s’è dato all’amore letterario, con la rubrica ‘Persone & parole’ (1985-2007) e ora con ‘Leggere, rileggere’. Una buona bussola per capire cosa è indispensabile leggere oggi (e cosa è bene conservare di ieri) è Letture, raccolta ampia di esperienze estetiche ed etiche di questo flâneur della letteratura, che nell’intro fa annunciare la morale a Borges, La meta es el olvido./ Yo he llegado antes (digitare su Google Traduttore per capire). Purtroppo, il tomo, edito da Ares nel 1998, si ferma ai decenni 1967-1997.

Cavalleri
Cesare Cavalleri, classe 1936, direttore di ‘Studi Cattolici’

Giornalista dall’intelligenza al cubo, Cavalleri, classe 1936, ha fondato, a Verona, la rivista Fogli, dirige, dal 1966, il mensile di approfondimento Studi Cattolici, ed è la mente delle Edizioni Ares. Mente tagliente – negli anni Sessanta ingaggia una polemica con Eugenio Montale, per altro adoratissimo; memorabili le sottili stroncature ai libri di Roberto Calasso e le madornali bordate contro i romanzi di Umberto Eco (“Eco è in costante commozione/ammirazione verso se stesso… come quei rompiscatole che in treno incominciano a raccontare per filo e per segno quello che gli è capitato da quando hanno, o credono di avere, l’uso della ragione… senza dar peso agli sbadigli e scatarra menti dei malcapitati interlocutori che volentieri cambierebbero scompartimento”) – e animo votato alla meraviglia (si spende in generosità multipla quando legge qualcosa che lo convince davvero, senza stare a guardare il pedigree dello scrittore o del poeta), Cavalleri è lettore sopraffino, alieno ai pregiudizi. Ha ‘scoperto’ e pubblicato per primo Il cavallo rosso di Eugenio Corti, oggi giudicato tra i grandi romanzi del secolo; ha letto e pubblicato un autore complesso come Alessandro Spina e un poeta di australe semplicità come Elio Fiore. Ama alla follia Saint-John Perse, è esegeta di Rimbaud, ritiene salutare il Gruppo 63, adora Buzzati e Flaiano ma gli è parso un esordio ‘col botto’ quello di Paolo Giordano (La solitudine dei numeri primi), ha chiacchierato con Giuseppe Ungaretti e salva il Pasolini poeta (lasciando ardere Petrolio nella sua tonante inutilità). Nella “conversazione con Jacopo Guerriero”, dal titolo “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria (Els La Scuola, Brescia 2018, pp.188, euro 16,00), Cavalleri, tra i grandi, anticonformisti intellettuali di oggi, racconta la sua vita. Eccone un sunto, per sketch.

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Ungaretti, mio dirimpettaio.

Ungaretti
Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

Il 1961 l’avevi trascorso a Roma. Lì avevi conosciuto Ungaretti, e in molti sanno che grado di apprezzamento gli riservi. Una cosa che mi sono sempre chiesto però è: a quell’epoca avevi già letto anche Saint-John Perse? Che Ungaretti tradusse e che, so bene, tu consideri stella polare.

No, cominciavo solo a leggerlo. Ungaretti abitava all’Eur come me, era mio dirimpettaio dall’altro lato della strada. Facevamo lunghe passeggiate insieme e più che della poesia parlavamo della vita. Mi fa molto piacere, però, portare l’attenzione sulla traduzione. Che per me è un incontro, l’incontro della grande poesia. I poeti veri sempre si condividono. Saint-John Perse, del resto, è stato tradotto da Eliot in inglese, da Hoffmansthal in tedesco. Basterebbe leggere.

Di quella traduzione con Ungaretti parlaste mai?

No. Del resto quello con lui era un incontro, ripeto, tra persone. Non se la dava mai da poeta, Ungaretti. Anche se il rovello perpetuo a tratti lo intuivi. Capivi che era sempre in cerca di un verso. Una volta eravamo a casa sua, intorno al suo tavolo rotondo, ingombro di libri… «Questa tavola si distrugge», esclamò dalla grotta della sua voce. Pareva voler tirare fuori una strofa dall’ipotesi che la tavola si stesse rovesciando.

Com’era Casa Ungaretti? Ti regalò mai dei libri?

Una casa molto semplice di arredamento casual-moderno, con molti libri. Mi regalò Un grido e paesaggi, con la dedica vergata a penna nel suo mitico inchiostro verde.

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Il leggendario silenzio di Pound? Tutto falso

Un altro gigante che hai conosciuto di persona è stato Ezra Pound…

Di persona l’ho incontrato una sola volta, a Venezia, durante un concerto al Conservatorio Benedetto Marcello. Era il 29 marzo 1971. Riconobbi subito il poeta in platea, assorto, rannicchiato, vivo. Bianchissimo (bianchissime le mani), i capelli ventati come nelle fotografie. Rivedo tutto. Gli siede accanto Olga Rudge. Al termine, Olga applaude. Gli rassetta il cappotto, fanno per uscire. Si risiedono per il bis. Poi, a velocità sorprendente, giù per le scale, per la strada. Ha indossato un colbacco di pelo. Li seguo pochi passi dietro. Sul Ponte dell’Accademia, Olga delicatamente indugia ai ripiani, ma lui riposa appena. Il suo leggendario silenzio: tutto falso. Con Olga parla fittamente, a voce bassissima, in inglese. Il suo silenzio è per gli altri. Alle fondamenta Cabalà trovo il coraggio di avvicinarmi: Pound mi consegna una mano gelata, guardandomi dritto in viso (i suoi occhi, improvvisi, due laghi d’azzurro), dopo essersi sveltamente passato il bastone nella sinistra. Olga Rudge, orgogliosamente grata, saluta sorridendo, giustamente in credito verso tutti.

Un brevissimo incontro, uno spunto per il racconto quasi poetico che lessi al Convegno organizzato dall’Ares a Milano nel 1992, per il ventennale della morte del gigante del ventesimo secolo. Ma posso dire di conoscere Pound perché di lui ho letto tutto quanto mi è stato possibile, e vorrei che l’Abc del leggere, oltretutto nella traduzione del compianto Rodolfo Quadrelli per Garzanti, fosse adottato nelle scuole. L’Ares pubblica la collana «Poundiana», diretta da Luca Gallesi.

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Flaiano mi piaceva molto. E decisi di scrivergli

Flaiano
Ennio Flaiano (1910-1972)

Allora come iniziò la frequentazione con Flaiano?

Ti racconterò molto semplicemente la storia di un’amicizia. Leggevo Flaiano sul «Corriere», mi piaceva molto, mi facevo dei volumetti di ritagli, di bricolage, di autoeditoria, che se vuoi ti farò vedere. Poi un giorno decisi di scrivergli, e lui, semplicemente, cominciò a rispondermi. Nell’epistolario di Flaiano pubblicato da Bompiani (Soltanto le parole, 1995), ci sono anche un paio di mie lettere. Piuttosto ingenue, data l’età, ma tant’è. Per farti una confidenza sul mio rapporto con lui: mi intrigava l’idea che una persona, dalla scrittura così distante, ironica, anche affilata, sapesse poi essere tanto affettuoso e gentile per corrispondenza. Con un giovane sconosciuto come me.

Poi a Roma andasti a trovarlo.

Sì, e mi regalò Il marziano a Roma, il suo più grande fiasco cui era affezionatissimo. E in effetti, bisogna riconoscerlo, teatralmente l’opera non vale molto. Ma è bellissima da leggere, piena di aforismi.

Di che cosa parlavate?

Di tutto. Del nostro tempo, dei letterati. Eravamo entrambi un po’ polemici contro gli intellettuali di allora, avevamo letto i libri di Elémire Zolla, ce l’avevamo con la volgarità della tecnica, della società dei consumi, con l’eclissi del buon gusto. In Flaiano io trovavo una vena da autentico moralista, naturaliter cristiano che, denunciando gli altri, denunciava sé stesso. Questo mi piaceva moltissimo. Denunciare e sentirsi coinvolto senza sentire la forza di tirarsi fuori dalla corrente.

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Giovanni Raboni, il grande poeta a cui ho chiesto una poesia per Natale

Raboni
Giovanni Raboni (1932-2004)

Al ’68, se non erro, risale la tua amicizia con Giovanni Raboni. È vero che ti dedicò una poesia?

Eravamo colleghi all’«Avvenire», lui critico cinematografico, io televisivo. Poi se ne dovette andare per aver elogiato il film I diavoli, di Ken Russell (1971), molto anticristiano, presentato alla Mostra cinematografica di Venezia. Siamo sempre rimasti in contatto, lo considero il poeta migliore della sua generazione e non gli ho mai nascosto le mie profonde riserve per la sua situazione famigliare e ideologica. Sì, mi cita in una poesia che gli avevo chiesto per il Natale 1969, poi confluita nella raccolta Cadenza d’inganno (1975): «Aver pietà dei ricchi cercarli […] Ma adesso, adesso – e Cesare che vuole / una poesia di Natale, da me! con l’aria che tira / di peste, tersa, meravigliosa / e questi botti sparsi per la boscaglia urbana, / caccia che ricomincia, compagni / fra non molto più numerosi in prigione / che sotto l’albero acceso o il vischio appeso al cornicione…». Il 20 ottobre 1975, ringraziando per la mia recensione a Cadenza d’inganno, scrisse: «Mi sono accorto, leggendo il tuo pezzo, che in fondo tu sei proprio uno degli interlocutori invisibili di molte cose scritte (o semplicemente pensate) da me in questi anni: e non solo per avermi “commissionato” una poesia di Natale…».

 

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