04 Maggio 2021

“Io credo nel Giorno del Giudizio”. Dialogo con Atidel, musulmana

In un sobborgo di Parigi, primavera 2018, ancora lontani dalla pandemia.

Arriva come una ventata di aria fresca. Mangiamo a casa mia una cosa veloce e cominciamo l’intervista. Cristina si diverte molto a fotografarla anche perché lei è gentilissima e traspira vitalità. Dei musulmani del mio gruppo apprezzo molto la spiritualità. Il Mediterraneo ci accomuna. Parlando con lei mi accorgo di quanta vicinanza ci sia fra la siciliana cattolica e la franco-tunisina musulmana. Entrambe determinate all’uguaglianza fra uomo e donna.  

Atidel; photo Cristina Dogliani

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1. Come ti chiami, e perché i tuoi genitori hanno scelto proprio questo nome?

Atidel – Allora, mi chiamo Atidel, è questo il mio nome. I miei, soprattutto mia madre, erano fan di film e di cantanti egiziani tipo Farid al-Atrash, Abd el-Halim… Erano affascinati da tutto questo periodo dell’Egitto degli anni 50 che aveva prodotto moltissimi artisti. Mia madre aveva visto un film con questo attore e cantante, Farid al-Atrash, e sua sorella si chiamava Atidel. …Mi pare fosse la sorella (ci pensa un po’). O allora in uno dei suoi film c’era qualcuno che si chiamava così!

M.D. – Io lo trovo un nome bellissimo!

A. – Grazie! (Dice con la dolcezza che la contraddistingue). Fra l’altro ha un significato. Vuol dire: “L’eguaglianza e la giustizia”…

M.D. – Ah! (Esclamo, pensando a come questo nome la esprima interamente).

A. – (Ride pure lei). Ecco… cerco di essere fedele al significato del mio nome! E si usa anche come nome comune: el-Atidel è la bilancia, l’uguaglianza, la giustizia, la via di mezzo… Quando mia madre l’ha scelto, mio padre non ci ha trovato niente da ridire.

M.D. – Quindi è un nome egiziano… vuol dire che non si sente tanto in Tunisia, il tuo paese d’origine.

A. – No, in effetti non l’ho m ai sentito da nessun altra parte.

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2. Se non ti chiamassi in questo modo, che nome sceglieresti se potessi prenderlo in prestito ad un personaggio storico o reale del passato o del presente?

Atidel – Un personaggio reale o giusto un nome che ci piace?

M.D. – Un personaggio anche leggendario, letterario … Se tu non ti chiamassi così, a chi vorresti prenderlo in prestito?

A. – A me piace molto il nome Cleopatra (ride, quasi le suonasse troppo ambizioso).

M.D. – Uhuuu…

A. – Perché no? Ancora il legame con l’Egitto (ride)! Mi piaceva anche un film dell’epoca… credo si chiamasse “Xena, la guerriera”. Mi piace Xena perché mi ricorda proprio questa ragazza alta, bruna, che si sapeva difendere. Una guerriera che cerca di difendere i giusti, i deboli… Ho sempre amato le persone che vogliono difendere una causa giusta, che difendono gli oppressi. Sì, io sto sempre da questa parte. E mai dalla parte degli oppressori, quella dominante… (riflette) Proprio no!

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3. Sai che questa intervista anticipa il mio prossimo progetto letterario in cui sono intervistate persone note o sconosciute che avrebbero potuto condurre una vita comoda e vivere con tranquillità e facendo finta di nulla, ma che han deciso di sobbarcarsi rischi, disagi di ogni genere ed il biasimo della famiglia, degli amici e\o della società, per aver compiuto scelte “scomode”. Tu, secondo te, perché sei seduta su questa sedia e stai per essere intervistata?

Atidel – (Pausa. Riflette) Perché io, non lo so… Posso forse corrispondere alle caratteristiche di cui parli, perché effettivamente potrei vivere una vita molto tranquilla, comoda, ho sei figli, sono sposata, ho una bella casa, mio marito ed io stiamo bene economicamente, ho 46 anni e sono andata in pensione anticipata… Però non mi interessa vivere a casa, tranquillamente, come una vecchietta e occuparmi della casa, dei figli, cucina, compiti… Questo schema classico non mi è mai corrisposto e ho davvero un gran bisogno di mettere del pepe nella mia vita, di metterla in un certo senso “in pericolo” ed è proprio per questo che, giovanissima – ho preso la patente a 18 anni – ho deciso, per esempio, di prendere anche la patente di motocicletta, di nascosto da mia madre…

M.D. – (Rido, ammirata) Wow! Una motociclista!

A. – Eh, sì, ecco, una motociclista! Ho avuto la mia patente a 24 anni… Ogni giorno andavo a fare le lezioni e un bel giorno ho detto a mia madre: “Salve!”, sventolando un pezzo di carta rosa. Lei mi guarda e mi chiede cos’è: “Mamma, ho appena passato gli esami per la patente della moto!”. Lo sapevo che mi avrebbe rimproverata! Lei è contro queste cose (ridiamo), ma io l’ho fatto lo stesso… proprio perché ho bisogno di libertà, di mettermi alla prova, di dire a me stessa che ne sono capace. C’entra anche il mio passato: sono la più grande di quattro figli – l’unica femmina – e sono stata educata come un maschio mancato. A me la storia del “tu sei una femmina, non puoi, voi siete maschi, potete” mi ha sempre indisposta, soprattutto in Tunisia dove vado da quando sono piccola. C’è una grande differenza lì fra come si trattano i maschi e come si trattano le femmine…

M.D. – Anche in Sicilia!

A. – E ricordo benissimo che quando, per esempio, dicevo di voler scendere in paese a comprare un gelato, mi rispondevano: “No, non lo puoi fare! Sei femmina e non puoi andare da sola” (sorrido dentro di me della frase sentita milioni di volte, da ragazza, a Palermo), mentre i miei fratelli, che erano più giovani di me, potevano farlo benissimo! Quando mi vestivo e volevo portare i pantaloncini e le canottiere, mi dicevano: “Ma che fai? Non uscirai vestita così, spero?! Non puoi!”, mentre i miei fratelli uscivano a volte quasi a torso nudo e non era un problema per nessuno. Da quando sono piccola combatto contro questa discriminazione, questa ingiustizia.

M.D. – “Atidel”, la Giustizia (rido)…

A. – Ecco! Esattamente… Ma è normale! E sono arrivata persino ad essere rimproverata dai miei zii perché ero un po’ ribelle. Proprio non mi conformavo e non accettavo questa differenza di trattamento. La patente delle moto era anche perché mio fratello l’aveva passata prima di me ed io mi ero detta: “E perché io no?”. Sapevo che era malvisto, ma l’ho fatto lo stesso! Nel momento in cui credo che ciò che faccio è giusto e che non ci sia niente di male, perché no?

M.D. – E la partecipazione al gruppo interreligioso in quanto musulmana, è una scelta facile secondo te?

A. – Io trovo che sia facile, perché mi dico che è piuttosto un privilegio il potersi scoprire, conoscersi, far cadere la barriera del pregiudizio, delle idee acquisite…

M.D. – Tu trovi che la società occidentale di matrice cristiana ne abbia molti pregiudizi nei confronti dell’Islam?

A. – Di pregiudizi? Ma completamente! È tutto falsato da quello che dicono i media. Francamente, e penso lo si possa dire, c’è un odio verso l’Islam che è flagrante! Se si ascoltano i telegiornali non si parla che di Islam e terrorismo, di musulmani, di radicalizzazione… Si ha l’impressione che non ci sia che questo da mettere in prima pagina…

M.D. –… e che la Charia sia incompatibile con la laicità…

A. – Ecco, appunto! Si inganna l’opinione del pubblico. Alla fine che numero rappresentano le persone che fanno quelle cose, i terroristi? …Che poi non sono neanche dei musulmani! Se si guarda alla definizione di musulmano ci si può solo dire che sono lontanissimi dai valori che predica l’Islam! (Dice, quasi indignata). Sono dei teppisti come se ne ritrovano ovunque, ma ci si interessa a questi che rappresentano forse l’1% dei sedicenti, “supposti” musulmani – che poi non lo sono affatto – mentre del 98% dei musulmani che fanno del bene, che sono aperti, tolleranti, giusti, non se ne parla mai nelle trasmissioni. (Il pensiero mi va subito alle numerose associazioni caritatevoli come il Secours Islamique France). No, perché nelle trasmissioni ci dev’essere una notizia esplosiva! Nelle trasmissioni tipo i reality non ci si è mai soffermati a seguire la vita di un musulmano nel quotidiano. In quel caso si vederebbe quanto siano tranquilli. Lavorano come tutti, alcuni sono praticanti, altri meno praticanti. Quelli praticanti vanno a casa per la preghiera o vanno alla moschea e ritornano, non fanno male a nessuno, sono rispettosi… e poi sono come tutti gli altri. Di questo, proprio non se ne parla mai.

M.D. – Ma tu hai delle remore a dire che sei musulmana?

A. – Ah, per niente! Al contrario, ne vado fiera. Lo dico, tanto più che non si vede dal mio aspetto, come notavi tu. Anzi mi fa anche ridere perché so che la gente non immagina chi io sia per davvero, e quando lo dico restano tutti sbalorditi. Nessuno si aspetta che sia tunisina. Restano basiti: “Ma hai il padre francese, allora? O la madre? O sei una convertita (in francese si usa questa parola per indicare per lo più i francesi convertitisi all’Islam)”. E capita la stessa cosa in autobus, rer, metro o quando vado da qualche parte, sento le persone parlare in arabo…

M.D. – …e pensano che tu non le capisca! (Rido).

A. – Esatto! …A volte li ascolto e mi viene voglia di rispondere e a volte lo faccio anche! Anzi proprio con parole tipiche del dialetto tunisino, tipo ‘barcha”, che vuol dire “molto” in tunisino, mentre gli algerini e i marocchini dicono: “bzaf”. E se tu dici “barcha” subito ti dicono, “la tunisina!”. Così quando rispondo “chokran barcha” la gente rimane stupita e a volte il rapporto arriva persino a trasformarsi. Sentire che sei magrebina come loro fa scattare una certa complicità.

M.D. – Quando ero in Tunisia pensavano tutti che fossi tedesca, poi quando scoprivano che invece ero siciliana, cambiavano proprio atteggiamento… C’era più benevolenza.

A. – Ma sì, siamo cugini! Siamo vicini…

Manuela Diliberto insieme ad Atidel; photo Cristina Dogliani

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4. Ne L’Arte della guerra, scritta fra il 1519 e il 1520, Machiavelli diceva che “Gli uomini che vogliono fare una cosa, debbono prima con ogni industria prepararsi per essere, venendo l’Occasione, apparecchiati a soddisfare a quello che si hanno presupposto di operare”. Nelle piccole cose, o ancor più nelle grandi, è sufficiente impegnarsi con ogni industria, con grande zelo, tenacia e ostinazione, o si ha anche bisogno dell’Occasione?

Atidel – Bella domanda! Non so se me la pongo, in genere. Io, personalmente, cerco di introdurre nella mia vita elasticità e spirito di adattamento. Aggiungerei questo… tanto per cominciare io sono credente e so che quando Dio vuole fare le cose, è capace di metterle in modo tale che esse andranno proprio come vuole Lui. Non esiste il caso… io non ci credo! Ci sono quelli che ci credono e lo rispetto… ognuno crede ciò che vuole, ma io non penso che le cose si muovano per caso. Bisogna, certo, prepararsi un minimo per non essere destabilizzati dalle situazioni …ma a volte, anche preparandosi, si finisce per sorprendersi del modo in cui si reagisce! Invece, a quel minimo di preparazione, bisognerebbe aggiungere dell’ottimismo, il credere in se stessi e dirsi che qualunque sia la situazione, qualsiasi cosa si attraversi, bisogna vederne il lato migliore perché si crede in Dio, e questo rappresenta una grande, grande forza, perché si può dire che non ci abbandonerà mai. Io la sento questa forza. Ed è per questo che tutte le volte che mi accade qualcosa mi dico che c’è una soluzione da qualche parte o che la si può creare la soluzione… Nel tempo le cose che si rinnovano, ci sono degli eterni inizi, degli esempi che ci possono ispirare, dei casi successi ad altri che ci possono preparare, anche se non a tavolino, istintivamente. Un insieme di fattori fa sì che la vita la si possa affrontare in ogni momento complicato, anche se poi ci sono inevitabili passaggi dolorosi, difficilissimi. Io mi dico che quando si scende fino in fondo poi non si può che risalire! Non si può scendere più in basso. Questa è la visione della vita che cerco di condividere attorno a me.

M.D. – Sei figli si devono volere! (Rido).

A. – Sei figli si devono volere, esattamente! E per i figli bisogna essere l’esempio. Non puoi dire loro: “Forza, ci riuscirai!”, se neanche lo pensi. Mostrare loro l’esempio vuol dire rappresentare noi stessi l’esempio.

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5. A cosa pensi, cosa provi nei momenti più duri quando hai tutti contro e le critiche si abbattono numerose? A quale forza ti sei aggrappata?

Atidel – Devo essere franca, mi aggrappo alla forza di Dio… Perché anche se non si vede fisicamente, anche se non pratico come vorrei praticare per mancanza di tempo, di conoscenza – so che non studio abbastanza anche se spero un giorno di farlo – sono profondamente credente… Cioè so che Dio in ogni momento ci ascolta, vede tutto ciò che facciamo, è sempre presente. Ed è per questo che quando mi si dice: “Non si deve dire, non si deve fare…”, non posso, in ogni caso, farlo di nascosto, perché mi chiedo, chi è che mi vede in realtà? Mi posso forse nascondere dalle persone, ma non mi posso nascondere da Dio! Proprio per questo faccio molta attenzione: un giorno – io credo nel Giorno del Giudizio – verrà tutto alla luce e ti verrà chiesto il perché di tutte le tue azioni. E forse anche tutti gli altri ne saranno testimoni. E così cerco di relativizzare, di dirmi che può andare peggio… Da anni affronto una malattia per cui devo essere seguita costantemente, ma non mi lamento, non lo racconto, non scoccio gli altri con la mia storia, so bene che c’è di peggio… ci sono persone che non possono neanche lasciare l’ospedale… Io proibisco a me stessa di lamentarmi. La generazione prima di noi aveva molte più difficoltà e non si lamentava mai. E noi chi siamo per farlo? Viviamo in un’epoca formidabile, abbiamo tutto quello che serve e ancora di più, agevolazioni, benessere quando accanto a noi si muore di fame… (Nonostante la pandemia di oggi, non le si può dare ancora torto!) Come potremmo lamentarci? Bisogna smettere di farlo! Allora cerco di mantenere una certa decenza. E di non lamentarmi mai.

M.D. – (Mentre parla la riconosco nei mille momenti vissuti insieme, sempre allegra, sempre dolce, disponibile. Se c’è una lite nel gruppo lei è la prima a mettere insieme i pezzi, ad ascoltare tutti e tutte sempre benevolmente. Fra le mille attività che svolge e i sei figli, trova sempre spazio per gli altri). Aiutati che Dio ti aiuta, si dice da noi…

A. – Ah… io ne sono assolutamente convinta!

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6. Cosa fa la differenza fra il decidere di intraprendere la via più tortuosa e, invece, il far finta di niente?

Atidel – Io non guardo se la strada è difficile o meno, guardo l’interesse che c’è in essa per me e per gli altri. Cioè, se prendo la via facile e questo fa bene a me ma ferisce altre persone, tenderei allora a prendere più il cammino difficile. Sarà difficile per me, ma se posso risparmiare gli altri… tanto peggio! Sarò comunque in pace con la mia coscienza. Mi farebbe stare più tranquilla, perché mi rendo conto che preferisco far più piacere agli altri che fare piacere a me stessa. Forse suona stupido, ma a volte preferisco mettermi in secondo piano se questo può far piacere agli altri, può aiutare, se può dare una mano, essere utile… tanto peggio per me, io vengo dopo. È il mio modo di ragionare… 

M.D. – Allora il cammino difficile per te può anche essere il più piacevole.

A. – Sì, sì, mi ci ritrovo, sono in pace con la mia coscienza, mi sento meglio. Anche se è difficile, non importa, dopo andrà meglio!

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7. Una grande pena, una grande apprensione o una grande paura, possono giustificare la defezione da una scelta che in determinate circostanze può rivelarsi fatale sia per se stessi che per la collettività? Fino a che punto ci possiamo scusare quando a pagare per la nostra inerzia è anche qualcun altro?

Atidel – È una bella domanda! Ma io non mi sono mai trovata in situazioni in cui mettevo in pericolo la famiglia… Ed è vero che la mia famiglia è la vita, è tutto… non potrei mai mettere in pericolo la mia famiglia in nome delle mie idee, a tutti costi, costi quel che costi. Se fossi sola, lo farei… alla fine poco importa se mi costa anche la vita, ma se ho famiglia non posso agire in modo egoista dicendo “faccio il mio dovere e tanto peggio per la mia famiglia”… Cercherei di trovare una via di mezzo. Se assistessi a qualcosa di terribile non riuscirei proprio a stare zitta e a far finta di niente, anche perché dopo avrei un problema enorme di coscienza che mi perseguiterebbe ovunque… altri pagherebbero per il mio silenzio e la mia coscienza non sarebbe mai tranquilla. Allora denuncerei, ma chiedendo magari di non fare apparire il mio nome. Se dovessi esporlo però finirei per sceliere di proteggere la mia famiglia.

M.D. – E tu allora giustifichi chi defeziona?

A. – Io dico che ogni scelta merita rispetto. Noi non siamo al posto di quella persona. Anche se le conseguenze della scelta mancata di qualcuno dovessi pagarle io o la mia famiglia, mi direi comunque che siamo esseri umani… Probabilmente gliene vorrei a questa persona, gli chiederei perché non ha parlato, ma come poterla biasimare? Quello che invece mi darebbe fastidio sarebbe il non aver provato in nessun modo a parlare, a denunciare, magari anonimamente, di non essersi sforzato di trovare alcuna soluzione… È questo che non sopporterei: scappo, chiudo tutto, mi nascondo e sbrigatevela voi là fuori. Questo mai! È da vigliacchi! Si deve cercare di battersi per la giusta causa almeno. Si deve denunciare il fatto, anche nell’anonimato, per proteggere la famiglia, facendo tutto ciò che è in nostro potere… Non si può far finta di niente e battere subito in ritirata.

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8. Un mio conoscente conserva ben in mostra fra i suoi libri, nella libreria del suo salone, una copia di Mein Kampf. Davanti al mio stupore e alle mie domande ha spiegato seraficamente che si tratta dell’omaggio che i suoi genitori ricevettero il giorno del loro matrimonio in Germania, negli anni 30, come si usava fare per le coppie di giovani sposi, e che per lui non si tratta che di un caro ricordo di famiglia, e niente di più. Pensi che la sua spiegazione e la sua scelta siano comprensibili e legittime?

Atidel – Ancora una volta penso che si parli di esseri umani e che ogni scelta va rispettata. In questo caso però dico, va bene, è un caro ricordo di famiglia, ma perché devi necessariamente esporlo sopra il camino dove chiunque lo può vedere? È una cosa personale! Se proprio non si vuole distruggere tale ricordo, lo si può conservare in una valigia, in un cassetto! Ma perché lo si deve esporre disturbando altre persone? Alla fine è sempre una questione di rispetto. È come nella vita di tutti i giorni: tu mangi il maiale, io non mangio il maiale. Oggi a pranzo mi hai cucinato della pasta e ti ringrazio, ma avresti potuto farti un bel piatto di pasta con del prosciutto di Parma e io mangiare altro, non ci sarebbe stato niente di male… eppure sapendo che io non mangio il maiale, hai sentito come indispensabile non mangiare del maiale davanti a me. È la questione di non mettere a disagio gli altri, ecco, nella vita quotidiana come nella storia del libro. È necessario esporlo e rischiare che qualcuno si senta infastidito, irritato, insultato? E che abbia voglia di andarsene via da casa tua visto che un libro del genere crea imbarazzo e turba la conversazione? E non solo, c’è tutta la drammaticità del passato che può venirti in mente. Pensa se fossero Geneviève o Norbert gli invitati (due degli ebrei del nostro gruppo interreligioso)! No, non è bene questo. Per il resto non c’è nulla di buono nella censura in sé… Al contrario si deve mostrare, se ne deve parlare – prendi ad esempio l’ultimo dibattito sul rieditare o meno l’opera di Céline: ma che lo facciano! La cosa va discussa, perché appena proibisci, l’uomo si ammala di desiderio! Censurare, proibire non serve a niente. Spiegarlo invece, quello sì che serve. La gente del Front National (movimento di estrema destra in Francia), per esempio, ma che si esprimano! L’importante è avere degli argomenti validi per contestarli… Perché se si comincia a proibire…

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9. Se non fossi te ma fossi un’altra persona e ti incontrassi e avessi occasione di conoscerti un po’, con che parole descriveresti Atidel? Che descrizione ne daresti?

Atidel – Se non fossi me e incontrassi qualcuno come me?

M.D. – No, se incontrassi proprio te stessa!

A. – Non vorrei che ciò che dico sia preso per della presunzione

M.D. – Ma no…

A. – Ho dei difetti… ma non posso dire male di me! Io ho l’impressione di essere una persona gentile, che non è cattiva, è simpatica, cool… non so… (sembra un po’ imbarazzata) è questo il modo in cui vorrei che le persone mi sentissero e guardassero. Cerco di contribuire con questo, con l’essere accessibile, simpatica e sorridente, perché cerco di sentirmi a mio agio per andare verso l’altro. È come una calamita: attira! Io amo infatti ritrovare questo negli altri. Qualcuno davanti a me, tutto chiuso, che non guarda mai negli occhi, che non sorride, non invoglia ad andargli incontro. Invece qualcuno che sorride… tipo te, eh! Mi ritrovo in qualcuno come te che è aperto, sorridente, che ha l’aria di capire gli altri… Davvero! C’è un esempio davanti a me… approfittiamone! (Ride divertita, io, invece, di imbarazzo).

M.D. – Allora tu ti definiresti così…

A. – Sì, come una rispettosa… sì, aperta, rispettosa, piacevole, che cerca di far piacere agli altri. Questo prima di tutto. E anche qualcuno di cui ci si può fidare, sulla quale si può contare.

M.D. – Tu ispiri proprio questo, in effetti!

A. – Ma non so… Non posso dirlo perché non mi vedo, ma è così che vorrei che mi vedessero!

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10. Se non fossi Atidel, chi vorresti essere?

Atidel – Allora, visto che tu mi hai detto quello che facevi, ti devo confessare che sin da giovani io e la mia amica Zora siamo sempre state attratte dalla scoperta, dal mondo, dagli altri. Pensa, lei voleva essere un medico di Medici Senza Frontiere ed io volevo essere una archeologa! (Ridiamo). Esploratrice o archeologa. Ed è per questo che ci siamo iscritte ad un corso di greco antico. In primo e secondo liceo abbiamo fatto greco e non latino. Adoravamo la cultura greca, l’archeologia, lo studio degli scavi… Peccato che dopo, acchiappata dalla realtà, ho cambiato e ho fatto una scuola di commercio. Ma se mi chiedi chi mai avrei voluto essere, ecco, un’archeologa. …O anche un medico di Medici senza Frontiere, ma mai rinunciando alla mia famiglia, però!

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Domanda personale. Come vedi la donna musulmana in una società come quella francese? Pensi che in quanto musulmana tu ti debba privare di qualcosa nella società in cui vivi che è fortemente laica?

Atidel – No… Trovo che non ci sia incompatibilità. Non ci sono impedimenti del tipo “sono musulmana e allora non posso o non devo”, no, no. …Allora è perché non conosco alla fine così bene il Corano e non so cosa sia domandato nei dettagli alla donna musulmana. Non so se siano delle interpretazioni o degli sguardi diversi, ma per me alla fine essere musulmana non dev’essere per forza stare a casa con il velo, sottomessa, occuparsi dei bambini, non uscire, non avere una vita sociale. Di fatti ci sono quelli che pensano che bisogna avere quest’atteggiamento e che la donna debba essere completamente sottomessa…

M.D. – Ed è un equivoco dovuto ad un certo oscurantismo che è poi anche cristiano, ebraico, protestante, o è proprio all’Islam?

A. – No, penso sia piuttosto un problema di interpretazione. Infatti nel Corano o negli ḥadīth (insieme di racconti sulla vita del Profeta costituenti la Sunna) si dice che Dio vuole che ci si apra alla conoscenza e che si sia osservatori del mondo, che si impari quanto più si può della vita e del mondo che ci circonda e ci spinge alla scienza e alla conoscenza, uomo o donna che sia… questo è nel Corano. Noi qui parliamo della Francia, perché siamo francesi e la nostra è una cultura francese, ma se si va a vedere in altri paesi, in Arabia Saudita o in Iran, o in Asia, numerose sono le ricercatrici donne come le colleghe del CNRS francese. In tutti i paesi musulmani le donne lavorano anche e non sono confinate solo a casa ad occuparsi dei figli. Si può benissimo trovare un equilibrio fra le due sfere!

M.D. – C’è una scrittrice musulmana in Italia che dice che il velo si deve portare sulla testa e non nella testa. Che significato ha per te portare l’hijab?

A. – Allora… (parla scandendo le parole, come per essere più chiara possibile) Ci hanno sempre spiegato che il velo, alla base, se si guarda alle origini, ha come scopo quello di non attirare lo sguardo degli uomini, ed è una specie di protezione nei confronti della componente maschile. Per non attirare l’attenzione, etc… Si dice anche che il velo rappresenti una forma di “sottomissione” a Dio, e che il portarlo, un po’ come la kippah degli ebrei, è ricordarsi che si ha questo rapporto diretto con Dio. Il velo ci ricorda che siamo sottomessi a Dio. Questo è almeno quello che mi è stato spiegato, o per lo meno quello che ho recepito io. Poi per quello che riguarda la scrittrice italiana, sì, lei lo dice proprio bene: infatti non dev’essere nella testa!

M.D. – Cioè non deve limitare le donne nella libertà, nell’azione e soprattutto dev’essere una scelta libera.

A. – Sì, certo. E quando lei dice che non si deve averlo nella testa, forse intende, “non si deve pensare solo a questo, non si limita solo a questo”… Ma io ti dico – ho un’altra interpretazione della frase – io non ho bisogno di portarlo sulla testa, proprio perché l’ho già nella testa…

M.D. – È molto interessante quello che dici!

A. – Ecco quello che mi dice questa frase! Esattamente che io non ho bisogno di portarlo qui (indica la sua testa) per dirmi: “Sono sottomessa a Dio”… L’ho in permanenza nella testa. È vero! Le donne che lo portano sempre sulla testa paradossalmente possono dimenticare più facilmente i principi, i valori e farla diventare un’abitudine: “Ok, lo mostro a tutti, lo manifesto, sono musulmana, ho il velo, sono sottomessa a Dio”, e dall’altro lato il comportamento non è conforme a ciò che si porta sulla testa, o il modo di esprimersi, il linguaggio. Spesso sono donne che parlano male, che si prendono gioco degli altri, che non hanno tatto, rispetto… adesso esagero un po’, ma quello che voglio dirti è che il velo deve essere più che altro un atteggiamento. Non è che decido di portarlo e poi faccio quello che mi pare! E trovo che sia persino più condannabile il comportamento in chi lo porta, perché si è visibili e ci si aspetta da costoro un certo modo di fare. Porti il velo e devi essere umile, discreta, se non sei d’accordo lo devi dire con garbo e rispetto e in questo caso si deve stare più attente. Nel mio caso io non lo porto, e fra l’altro non si vede neanche che sono musulmana, ma io lo so bene che sono musulmana e so che Dio è con me e che sono sottomessa a Dio e ti posso dire che faccio molta attenzione al mio comportamento, al mio linguaggio, a rispettare gli altri… e non ho bisogno di portarlo il velo per ricordarmelo. Come ti ho detto prima, l’ho nella testa, e questo mi basta. E so che Dio lo sa. Ma so anche quanto sia difficile portarlo senza essere giudicate nella società francese in cui subito scatta il pregiudizio. Ho delle amiche che portano il velo che mi hanno detto: “Non ne posso più. Ovunque vada mi lanciano degli sguardi! Mi mancano di rispetto, mi spingono, mi sussurrano…”. E questo dà un gran fastidio! Allora mi dico, forse è meglio non portarlo per essere più se stesse e non dover attirare l’attenzione della gente. In genere si dovrebbe portare per essere discrete e non per attirare lo sguardo degli uomini, ma in questo modo si attira lo sguardo di tutti quanti gli altri, però! Allora mi dico che forse è meglio non portarlo e passare inosservate. Certo dopo l’Haj (il Grande Pellegrinaggio alla Mecca) si dovrebbe portare. Nel mondo musulmano tornare dall’Haj senza portare il velo è mal visto.

M.D. – Allora lo porteresti anche tu se andassi?

A. – Mah… non andrò di certo nell’immediato.

M.D. – Una volta anche in chiesa, durante la preghiera, le donne si coprivano il capo per esprimere la devozione davanti a Dio. Ne parla San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi. Poi nel tempo, con i cambiamenti sociali, questo sentimento si è interiorizzato e nessuno ha più sentito la necessità di portarlo, perché il sentimento è diventato implicito e il foulard, accessorio…  

A. – È l’intenzione del cuore che conta!

M.D. – Sono d’accordo con te: è la sensibilità che conta. Adesso devo confessarti una cosa… per la femminista che sono, l’idea del velo mi infastidisce un po’, perché sono soltanto le donne a portarlo… e anche perché è sempre stato uno strumento per manipolare la gente politicamente, come in Arabia Saudita, per esempio, dove la dinastia regnante è stata favorita dall’oscurantista Abdelwahhab nel XVIII secolo per assoggettare i sudditi attraverso la religione. Ghaleb Bencheikh dice che se si investisse più sull’educazione universitaria delle ragazze, alla fine questo velo perderebbe tutto il significato di cui è stato caricato e ridiventerebbe un pezzo di stoffa.

A. – Ma infatti è verissimo! Lui è molto bravo e cita sempre i testi sacri, ma per molti resta inaccessibile. E’ una cosa complicata: purtroppo molte persone non hanno semplicemente il livello scolastico per ascoltare persone come lui, e si limitano a quello che hanno imparato, alla loro credenza, senza approfondire o studiare, a quello che hanno capito e interpretato. E’ peccato… Sai anche fra musulmani ci sono delle incompatibilità, delle tensioni e a volte si ha difficoltà a rispettare l’interpretazione degli altri.

M.D. – Soprattutto che alla televisione e sui giornali si sentono parlare solo i fanatici…

A. – Ecco, infatti! E poi la gente dice: “Avete visto i musulmani come sono? Cosa pensano? Bisogna diffidare di loro!”. Bisognerebbe dare invece la parola al 98% che è normale.

M.D. – Sai che spesso domando a chi diffida dell’Islam o si scaglia contro, se ha mai letto il Corano e che la risposta è quasi sempre “no”?

A. – Assolutamente! Ma infatti per capire meglio un’altra religione, un paese, una storia, si dovrebbe scegliere di interessarsi, fare delle ricerche – e questo non è dato a tutti – e soprattutto bisogna avere la volontà di farlo! Chi critica il Corano spesso non l’ha mai letto! A chi giudica i musulmani mi viene da chiedere, ma siete realmente interessati a questa religione?

M.D. – La maggior parte degli Italiani ignora per esempio che Gesù, Īsā, sia uno dei profeti dell’Islam…

A. – E sì, L’Islam riprende i profeti del Giudaismo e del Cristianesimo… E per ritornare alla tua questione del velo, l’interessarsi all’educazione, all’atteggiamento, al modo di comportarsi – perché non è sufficiente mettersi il velo per dire che si è ineccepibili davanti a Dio – è questo il problema! Si obbliga la gente a mettere il velo, alla donna si dice che per essere musulmana è necessario velarsi, ma senza soffermarsi sul fatto che oltre a portare il velo bisogna essere in armonia con ciò che si porta, e cioè essere tollerante, aperta, generosa, benevola.

M.D. – Mi ricorda l’obbligo della messa per i cristiani. Certo ci si deve andare la domenica a messa, ma a volte le cattiverie che si sentono in chiesa… (rido).

A. – Soprattutto quando Dio non tollera il giudizio degli uomini … chi siamo noi per giudicare? Solo Dio può giudicare! Se tu giudichi è perché supponi che sia proprio tu ad avere la scienza infusa e a detenere la verità, mentre siamo tutti nel dubbio. Noi diciamo “allāhu ʾaʿlam”: “Solo Dio sa”. Cioé, nel caso mi sbagli, Dio solo conosce la verità. Anche negli ḥadīth il Profeta dice di non giudicare o minacciare, ma piuttosto dire: “Peccato che tu non l’abbia fatto…”, in modo che la prossima volta ti venga invece voglia di farlo.

M.D. – Grazie, Atidel.

A. – Ma grazie a te!

Manuela Diliberto

*In copertina: Atidel, Gruppo interreligioso, musulmana, in un ritratto fotografico di Cristina Dogliani.

Gruppo MAGOG