Ci sentiamo con WhatsApp. Lui mi chiede della mia famiglia, io conosco a poco a poco quella sua. Da aprile ci scambiamo spesso notizie sulla pandemia in Danimarca e in Francia. Guardiamo entrambi con apprensione all’Italia, per diverse ragioni carissima ad entrambi. Quando a volte sono triste, o scoraggiata, so di poter contare su di lui. Non lo faccio mai, ma so che se gli scrivessi dicendogli che le cose non vanno, anche con due parole mi offrirebbe tutto un mondo. Quello concepito da lui, in cui l’ironia e l’umorismo hanno l’ultima parola.
Lo considero il più bel regalo di quello strano viaggio in Danimarca.
Ma cosa parli di pensione? Io sono giovane!
No, non sei giovane, sei solo infantile.
E resterò infantile finché non muoio.
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Sin da bambina mi è stato detto di essere la pronipote di Bertel Thorvaldsen, uno dei più grandi scultori del neoclassicismo, danese d’origine e romano di adozione. Nonostante un paio di secoli separino la sua data di nascita dalla mia, lo stesso suo taglio di occhi si ripropone inspiegabilmente in ogni generazione della mia famiglia paterna inclusa la mia. Da piccola, giocando con i miei cugini sotto il suo immenso ritratto ad olio, o da grande, consacrando anni di ricerca all’influenza dell’Antico nella sua opera, Thorvaldsen è finito con il diventare per me una sorta di direzione esistenziale. Così, accolta in passato al Thorvaldsen Museum di Copenaghen come una di famiglia e abituata all’agio dei miei soggiorni di studio sempre finanziati dall’Ecole Doctorale, non mi posi alcun problema quando nel giugno di due anni fa decisi di accettare su due piedi l’invito dello storico direttore del museo e della mia amica Giulia Longo, traduttrice e filosofa, a partire con tutta la mia famiglia alla volta di Copenaghen.
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Se i biglietti li avevamo trovati per una somma irrisoria a giugno, la partenza a settembre si annunciava complicata per via dell’alloggio di cui in passato non avevo mai dovuto occuparmi: nonostante fosse ormai troppo tardi, mi ostinavo a pretenderlo in centro, accanto al Museo. L’unica cosa che restava da fare a quel punto era sperimentare la vertigine dell’AirBnB. Diffidente fino al parossismo, ho sempre scartato questa possibilità per via della componente aleatoria della destinazione, a volte a casa stessa di qualcuno, a volte in comodi appartamenti o perfino su un materasso in un sottoscala (ho letto di un caso simile a New York).
Il fatto poi che ci si sia ritrovati ad aspettare per ben due ore a due passi dall’elegante isola pedonale di Copenaghen, lo Strøget, il proprietario del fantomatico appartamento celebrato dalle foto, non ha fatto che consolidare le mie convinzioni. Davanti all’ingresso muto di un appartamento fantasma eccoci per strada io, due bambine, il marito e le valigie, senza lo straccio di un alloggio. Così mentre discuto con il servizio clienti di AirBnB sull’impossibilità di trovare un alloggio a quello’ora io stessa e senza dover almeno sborsare 1000 euro, ecco che Giulia, che ci aveva accompagnato fino a lì prima di andare a fare lezione all’università, tira fuori le chiavi di casa e con il gesto dei grandi spiriti ce le porge senza battere ciglio. Abita a Østerbro, a nord est di Copenaghen. Ci si può andare con la metro. La casa non è di certo comoda per noi quattro, ma ce la cede volentieri. Lei dormirà sul divano. È in quel preciso momento che un signore vestito di chiaro, con gli occhiali ed i capelli bianchi fa irruzione nella nostra singolare scenetta, come in una pièce di Ionesco, in cui fra l’irritato e il sarcastico ognuno di noi tira fuori delle teorie sul cosa sia potuto mai accadere. Mi pare ci abbia parlato dapprima in francese. Ha chiesto se avessimo bisogno di aiuto. Sono abituata alla gentilezza dei danesi. Gli spieghiamo per sommi capi la situazione. Ci vuole aiutare e cerca di capire cosa sia successo. Infine in un italiano impeccabile ci propone di seguirlo. Possiamo aspettare che la situazione si sblocchi comodamente da lui che abita a qualche centinaio di metri. Io resto al telefono in filo diretto con AirBnB per insistere che siano loro, e non noi a cercare un altra soluzione per i giorni di permanenza. Il signore dai vestiti chiari, invece, continua a parlare con Giulia e mio marito, alternando francese e italiano con una disinvoltura impressionante. Lo seguiamo tutti un po’ storditi trascinando i trolley, ormai stanchi dal viaggio e dalle vicessitudini. Sembriamo i bambini del pifferaio magico, imbambolati dalla musica di un uomo vestito di bianco che seguiamo senza sapere perché fin dentro ad una delle palazzine che corrono lungo le vie perpendicolari allo Strøget. Dopo esser saliti per gli infiniti gradini di una scala di legno che mi pare interminabile, nel giro di qualche minuto ci troviamo seduti ad emiciclo in un appartamento tutto di legno e ancora luminoso. Lui si chiama Nils ed è lì perché possiamo riflettere con calma sul da farsi senza dover restare per strada con le valigie. Finalmente stacco con AirBnb che mi spiega che non c’è niente da fare, che l’albergo me lo devo trovare io e che la differenza è a carico nostro sono spiacenti, e mi guardo per la prima volta intorno. L’appartamento è molto accogliente, libri e quadri. Con Nils riflettiamo tutti insieme sulla vita e sul senso degli imprevisti. Nils pensa che questi intoppi abbiano sempre un significato. Che servano a qualcosa. Io invece gli spiego che alla mia età ormai ho solo voglia di godermi la città con la mia famiglia e non di trovare un senso alle seccature. Discutiamo molto su questo punto. Da quel momento lui sembra metter in moto tutto un apparato del ogni-cosa-anche-sgradevole-ha-un-senso ed io quello del una-cosa-sgradevole-è-solo-sgradevole.
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È allora che glielo chiedo, “Scusi, ma che lavoro fa lei per parlare così bene tutte queste lingue? È traduttore?”. Lui sorride, “Sono scrittore”, risponde. “E tu?”. Dal 2017 cerco di cambiare mentalmente la professione sulla mia carta da visita. “Veramente… anch’io”. Lui ci parla della sua letteratura, ma in modo modesto, più per intrattenerci che altro mentre io penso che definirmi “scrittrice” davanti a lui… La conversazione ritorna puntualmente sui benefici dell’imprevisto che rende la vita avventurosa. E proprio mentre discutiamo tutti insieme, mi chiama Harald, un amico carissimo con cui avevamo previsto l’aperitivo. Gli spiego costernata cosa sia successo. Lui si trova in centro. Mentre gli parlo Nils mi propone di farlo passare da lui. Ancora più sorpresa, balbetto qualcosa ad Harald. Nils con piglio deciso mi dice: “Passamelo!” e dopo essersi presentato con calma, spiega al mio amico dove abiti (almeno mi pare, io con Harald parlo in inglese e il danese lo capisco solo quando fa eco al tedesco). In pochi minuti Harald è da noi. Scendo e gli vado in contro. Dopo esserci salutati gli parlo del surreale invito di questo gentilissimo e assolutamente eccentrico benefattore. Ridiamo insieme, felici soprattutto di rivederci.
Una volta dentro Nils accoglie Harald con calore mentre lui lo guarda come incantato. Parliamo un po’ tutti insieme ridendo dell’accaduto e quando Nils si alza Harald mi dice all’orecchio: “Ma lo sai chi è quello?”. Lo guardo sorpresa. “È uno dei miei scrittori danesi preferiti! Proprio qualche giorno fa cercavo uno dei suoi libri e diventavo pazzo perché non riuscivo a trovarlo. È bravissimo!”. Certo che Nils non aveva proprio nulla di ordinario. Non l’avevamo tutti seguito senza fare storie? A quel punto avrei dato qualsiasi cosa per leggerlo! Glielo dissi. Dovetti insistere perché lui tirasse fuori con il pudore dei grandi una copia di Salinger’s Letters, il suo solo romanzo tradotto in inglese.
Quando Giulia ci lasciò, non so come Nils riuscì a convincerci di andare a piedi fino a casa sua, a tre chilometri e mezzo, cioè, da dove abitava. Non ci fu verso di smontare il suo ostinato entusiasmo: ci avrebbe accompagnati caricando una parte delle valigie sulla sua bici mentre Harald avrebbe caricato sulla sua l’altra parte. La marcia attraverso Copenaghen ci avrebbe risarciti del danno e il viaggio avrebbe preso una piega positiva. La stanchezza e la lunga distanza misero alla prova tutta la nostra benevolenza. Io non vedevo che nuvole oscure su un viaggio ormai compromesso. Attraversando il viale nel parco del Castello di Rosenborg decisi di scattare una foto per ricordarmi di quel momento in cui la commedia moderna faceva un bel buco nel cielo di carta. Al terzo chilometro di marcia fui grata al mio nuovo amico che con grande generosità mi spiegava Copenaghen e mi chiedeva quale tecnica usavo per scrivere. Tornando a Parigi decisi di immergermi il prima possibile nella lettura del libro di Nils, temendo come sempre i limiti della mia intransigenza di lettrice.
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Tu devi essere Dan, lo scrittore, Dan Moller.
Gli chiesi da cosa lo potesse dire.
“Dal modo in cui sei vestito!”, disse e scoppiò a ridere.
Non ebbi il tempo di chiedermi se esistesse un dress code per scrittori che l’uomo già mi stringeva una mano dandomi con l’altra un’entusiastica pacca sulle spalle.
Salinger’s Letters, uscito nel 2015 per Sandstone Press Limited, parla di Dan Moller, un dentista danese che adora scrivere o, piuttosto, di uno scrittore che come mestiere ha scelto di curare i denti. Nonostante il disperato tentativo di scorgere barlumi di normalità dove è possibile, il dottore soffre di una depressione profonda ed esistenziale che in alcuni casi si materializza e diventa “Amanda”.
Avrei ottenuto ciò per cui ero venuto. Avrei visto Salinger dal vivo almeno una volta nella mia vita. E mi sarei chiesto perché lo facessi.
Un giorno, il 17 aprile del 1987, il Dr. Moller viene raggiunto per telefono da uno sconosciuto americano che gli propone una curiosa transazione: cedere il prezioso carteggio che ha intrattenuto per anni con il reclusissimo e riservato J.D. Salinger, in cambio di un’ingente somma di denaro. Indifferente a tutto ciò che è importante per il mondo e interessato a ciò che esso per lo più ignora, Dan rifiuta la generosa offerta e fa una controproposta. Se deve volare fino a New York per cedere le adorate lettere, allora deve essere per incontrare almeno una volta chi le lettere le ha scritte: il suo idolo. L’incontro con Salinger, che avverrà nell’Ellis Island, ai piedi della Statua della Libertà, riserverà qualche sorpresa.
Non mi stupì che Michael avesse una sorella che fosse un autore di successo. Ogni membro della sua cricca sembrava essere di successo per qualche cosa.
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Se in questo libro la meta sembra dopo tutto secondaria, il percorso è un’avventura introspettiva verso il marasma interiore che è in ognuno di noi. Mi sono spesso chiesta in questi due anni il motivo per cui seguimmo tutti Nils, senza batter ciglio. In effetti, da che ho memoria, rientro tristemente nella categoria degli esseri indifferenti a tutto ciò che, certamente a ragione, genera entusiasmo e trasporto negli altri. Non so se ciò è dovuto più alla mia educazione (faticherei molto per trovare una persona più bislacca della mia mamma) o al fatto che l’unico motore che muova le mie rotelle sia un imprescindibile impulso ad aggrapparmi a tutto ciò che è marginale, ma soffermarsi su ciò che gli altri vedono come delle perfette inezie, bloccarsi per delle imbecillità da me considerate vitali, pare essere la mia principale occupazione da quando respiro. Penso di avere scorto in lui qualcosa del genere. Dissociata e dimidiata, aspiro ad uno scampolo di normalità cercando, attraverso la scrittura, di condurre gli altri verso la mia anomalia. Credo sia ciò che unisca Nils e me nel nostro discontinuo scambio di messaggi fatti di dettagli accessori per noi importantissimi: la rilevanza del mondano superfluo che per noi, e per schiere di filosofi, è sostanza del mondano essenziale.
Gli scrittori sono più incentrati su se stessi delle altre persone? Sì, si spera di sì. La vanità è il carburante che guida tutti gli scrittori. Gli scrittori sono più combattivi delle altre persone? Sì, si spera di sì. I conflitti stanno alla base di ogni letteratura. Gli scrittori sono più antipatici delle altre persone? No, non devono esserlo per sopravvivere. L’ego degli scrittori è più grande di quello degli altri? Sì, spera di sì, per il loro bene. Gli scrittori sono più di compagnia delle altre persone? No, sono come tutti gli altri. Alcuni sono divertenti, altri noiosi.
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Ovviamente mettere Nils e me nella stessa frase, oltre a porre l’accento sulla di lui grandezza e, come direbbe Vonnegut, sul mio grumetto di indifferenziata nientità, ha un solo interesse. L’unico che condividiamo. La creazione di un mondo. Il nostro. E allora ci ritroviamo spesso a parlare lo stesso linguaggio, uniti e persi dal nostro universo parallelo e invisibile che per il momento fa di me una povera stravagante e di lui un acclamato scrittore.
Hai portato Amanda? Fu la prima cosa che disse Boris quando ci incontrammo.
Certo che ho portato Amanda.
Indossa un impermeabile? Indagò Boris.
No. Amanda non ama l’abbigliamento da pioggia. Lei porta sempre con sé l’ombrello.
Chi non ha voglia di seguire Nils Schou nei suoi viaggi non capirà mai la bellezza che schiude l’ironia affilata e inconsapevole di Dan Moller attraverso le 218 pagine di Salinger’s Letters, incanto della riflessione, splendore della coscienza di sé, grazia di una cosmogonia privata e universale.
Perché alla fin fine, ammettiamolo, chi di noi può dire di non avere mai incrociato un eccentrico pifferaio vestito di bianco per strada, senza avere avuto l’inspiegabile desiderio di andargli dietro?
Manuela Diliberto