08 Agosto 2024

“Per fuggirti nuova e irromperti negli occhi”. Piccolo discorso su “Prodigi”, di Anna Ruotolo

Gentile Anna Ruotolo,

leggendo “Prodigi” (peQuod, 2023) ho pensato a quanto è umano il desiderio di essere amati, capace di riempire tutto, voglia di abitare totalmente in questo, che pare incredibile la sua forza di affermarsi, roba da bucarti lo stomaco e il cervello, e non dormire, e far sanguinare il cuore, come per una stimmate che si compie in noi e nessuno sa perché. Destino, valore della vita che folgora, dono, considerazione di ciò che ci accade e prende il largo, diventa noi, speranza, oppure noi che speravamo, che abbiamo conosciuto veramente e che conoscendo abbiamo compreso cos’è questa aspirazione così vicina all’uomo.

A un certo punto mi è apparso un ventaglio, sì, potrà sembrarle strano, ma è accaduto in me, nella mia fantasia di lettore. Il ventaglio che mi è apparso è quello che meglio descrive l’amore dei suoi versi. Mentre leggevo, le pagine aperte, hanno assunto forma ad arco, quasi perfetta, scandita regolarmente dal profilo dei fogli, e il bianco (la luce bianca che vi si rifletteva) ha rivelato la sua anima, e, al contempo, il suo opposto: esclusione o indifferenza per ciò che è esterno alla volontà del tema, vale a dire quanto di obliquo è nel mondo, stremato, ottusa pressione che non si piega alla poesia dei giorni, a quell’arco, all’attesa, alla luce rivelata, in cui si manifesta mirabilmente la poesia. Il ventaglio è forma femminile, che richiama non solo a una funzione, ma anche alla grazia, alla bellezza e all’eleganza del gesto, insieme al sentimento cui allude. Ecco il punto, la costola da cui scaturisce la parola, che è l’anello che tiene insieme le stecche dell’oggetto, come pure la rilegatura del libro, almeno come l’ho visto io.

È cristiana la voce: “[…] quando è la nascita della luce / e niente è stato ancora toccato” (pag. 40). Voce limpida che percorre tutta l’opera, continuamente segnata da distacchi e ritorni: “[…] vederti andare come certe domeniche d’inverno” (pag. 44). E subito dopo, appena alla pagina successiva, ecco che si dice:

“Sapevo del ritorno
lo diceva il vento lo dicevano
i vecchi con gli innesti dell’autunno
che questa terra di confine
sa di cosa parte il giorno
e di come rivengono giovani
le borse aperte dai libri abbandonati”.

La poesia termina con un verso bellissimo: “è sera d’acqua benedetta”. Si conferma l’andirivieni di speranza e disperazione, perdita e dono.

“Salto fiorentino”, che ricopio più sotto, è a mio parere il salto della fede, in grado di provare in che cosa consiste la fedeltà del cuore, di non sapere, eppure essere convinti della vita futura, in apparenza consolante, ma in realtà rischio acrobatico, perché ci sono i secoli da vincere, da sfidare, e persino tanta letteratura del niente, che incombe col suo peso.

“È questa la mia preghiera
quando andiamo santificando
i luoghi
perché sottili sotto i piedi
ci hanno trovati insieme:
ripeti le parole da venire
che tu conosci nel fondo,
dille una volta e mai più.
Solo, se mi vedrai vagare
nella striscia lunare
come sull’Arno una domenica
impastata nella testa
sull’acqua emozionata e livida,
toccare il sistema di un portale
straniero
per fuggirti nuova
e irromperti negli occhi
come da scoperta,
tienimi il filo da tirare
tienilo stretto, fa’ che non
frani in una luce
tra la paura e la sua fine”.

Impastata, mai parola fu più moderna e vera, più naturale e familiare, nel dire quanto sia coinvolta la persona nel significarla, disponendola nel pensiero proprio del canto. Paura e desiderio del sacrificio, di trovarsi di fronte a un momento estremo, forse punto di non ritorno, che non permette alla luce di passare. Luce carnale e allo stesso tempo trasfigurata, che in un attimo può far volgere tutto in tragedia. Ancora tre versi per continuare il discorso: “[…] hanno il gesto della fuga / la cadenza della barca / rossa e dura dal mare” (pag. 47). Discorso in chiaroscuro ma in sintonia con un’immagine precedente, a pagina 31: “[…] al passeggio chiarazzurro della barca”. In accordo col tema ricorrente del ritorno: “[…] senza contare se l’acqua ritorna / per bene al principio della fase / a pesare quanto pesò sotto le barche / per tenerle in vita” (pag. 42).

Barche come esseri umani, eccolo il prodigio!, è nella parola che rende misterioso il reale, in special modo nella parola ispirata, che può cambiare il nostro punto di vista, e quindi una parte del mondo, anche se minuscola. “Le parole si portano da un luogo / – tu sai – / per compensazione / per fare meno oscure le città / e l’ultima nave a partire / è l’abbandono (solleva l’acqua, / ritorna calma)” (pag. 56). Il prodigio sta nel creare e credere senza vedere, o vedere talmente attraverso lo specchio del sogno, da vedere giusto, e proprio nel mezzo, piantato lì, in centro a tutta l’incertezza del nostro vivere, come gesto che ci sovrasta, non gesto nostro, bensì atto che si fa tramite in noi di verità celeste, straordinaria.

Viene in mente Pasqua di Gerard Manley Hopkins, poesia in grado di espandere tutto il nostro sentire. Dunque la fotocopio e la infilo nella tasca interna della mia giacca, girando per Milano più confortato, più sicuro di me, pensando che quella lirica ha il suo luogo nel cuore, non altrove. “L’infinito testimonia di sé, nel chiuso del cuore”, scrive il teologo Romano Guardini, in un lontano libro sulla malinconia, del 1928.

Così entriamo nel merito di “Prodigi”, la sua inquietudine dolce, distillata di sentimenti tesi a condividere, cuore che avanza su tutto, prende il sopravvento, cuore cristiano che combatte la paura, perché si tratta proprio di una lotta che il cuore a volte ingaggia con noi stessi e con gli altri, o con noi stessi e di conseguenza con gli altri, e pare di non avere tregua per causa sua, quando molti pensano di non trovare rimedio, nel momento in cui esprimono il volere di una fine totale, persino della giustizia. Mi chiedo come si possa augurarsi questo, se la verità chiede di essere interpellata, oggi più che mai, lo dico perché di questo parla il libro, a mio avviso: verità, o rapporto aperto con la verità, che è una verità dolce, sensibile, non in affanno, paziente. La tensione di “Prodigi” non ci lascia, non disorienta, trova alimento in un tu che vive in carne e ossa, insieme al passare degli anni, al bene, senza sospettare che quel bene possa tramutarsi nel suo contrario, sintomo di insicurezza, di fede incerta, volubile. Al contrario assistiamo a un moltiplicarsi e intensificarsi delle immagini interiori, che sono allo stesso tempo patria ariosa e terrena, pane stellato, perché “Abbiamo sbagliato a disperare” (pag. 149), e la voce assume toni profondi, gli affetti battono alle porte del nostro animo: “[…] C’è l’abbraccio, la cupola che faccio / con le dita appena nate sul dorso delle tue” (pag. 16), “[…] e la notte dal tuo buon cuore / si diparte” (pag. 17). Già, il sapere di un libro è fedeltà e viene dalla gratitudine. Ora la notizia è la seguente: io che ho accettato di essere amato per quello che sono, così come sono, sapendo che sono attesa di essere amato; e tutto (voce, parola, pensiero, sentimento, poesia, gesto, esperienza, dolore), tutto corre dietro a questa attitudine in essere.

Vincenzo Gambardella

*In copertina: Giovanni Segantini, Petalo di rosa, 1890

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