Ricordo che all’inizio fu rovistare in cassettoni da mitologia. Poi furono telefonate irrefrenabili. Una vita fa avevo casa editrice in Marietti, editore importante, risorto grazie alla scaltrezza editoriale di Giovanni Ungarelli, già dirigente in Mondadori e Rizzoli (si leccava le dita ricordandomi il ‘suo’ successo nel lanciare Alessandro Baricco, “…e dopo Baricco, Brullo!”, inneggiava, poveretto, e quanto mi manca, ora, in questa landa di squaletti). Lì, per la prima volta, sentii parlare di Vincenzo Gambardella, scrittore enigmatico, indorato nel pudore, inafferrabile. Aveva pubblicato Seduto sulla tempesta e quell’anno, il 2008, usciva con Il cappotto istriano. Ne dicevano – non a torto – meraviglie. “Trovo molto strano che quasi nessuno si sia occupato del magnifico romanzo Il cappotto istriano, opera seconda dello scrittore napoletano (ma milanese di adozione) Vincenzo Gambardella”, esordì, in una recensione assai partecipe, su il Giornale, Luca Doninelli, lanciando lo scrittore nell’agone della letteratura italiana ‘che conta’. Di Gambardella, poi, persi per un poco le tracce, finché, da una manciata di anni in qua (da Vincenzo sparafuoco detto Toccacielo, 2014), con la costanza di un mitragliere, lo scrittore – sempre recintato in una specie di indifesa lealtà – ha preso a pubblicare molto. Solo quest’anno, ad esempio, se ne esce con delle deliziose “pièce per burattini, marionette, pupazzi”, Spicchi di Calderón (con Ensemble) e con il romanzo napoletano – picaresca rassegna di personaggi d’improbabile bellezza – Come tutte le cose dell’universo (con Ad Est dell’Equatore, che ha adottato Gambardella come proprio scrittore ‘di punta’). Gambardella è uno dei più tenaci e capaci scrittori di oggi: uno che conosce il ‘mestiere’ e vi aderisce con la dedizione matta di un Robert Walser, senza cedimenti. Spesso ci sentiamo al telefono, lui che passa l’estate nella sua Campania e l’anno liturgicamente gelido a Milano. Spericolate discussioni sulla letteratura e sulla malattia dello scrivere. Questa volta lo fermo: è ora di parlare un po’ di te, gli dico. Vinco, finalmente, le sue vertiginose ritrosie. (d.b.)
Come arriva la scrittura in te, come si incunea nella tua vita, come ti seduce?
Arriva con la gioia, con la spinta della sorpresa di aver ricevuto una cosa impensabile, che è arrivata solo a me. È impossibile resistervi, eppure io faccio di tutto per rimandare il momento dell’azione, dello scrivere vero e proprio. Macché, tremo e basta, ma è il tremore che viene da una presenza, e di esserne irrimediabilmente coinvolto. Credo sia una specie di rivelazione: vedo tutta la forma del libro in un attimo. Il resto assomiglia a uno scavo, nel bisogno di far emergere la vita, l’amore, la fedeltà.
Come scrivi? Intendo. Da dove prendi le idee, e poi, hai una qualche disciplina nello scrivere?
Penso sempre allo scrivere, o alla letteratura in genere. All’inizio le idee mi vengono in modo apparentemente casuale, misterioso, poi capisco ma solo col tempo, e molto liberamente. L’idea è legata al senso e si presenta come qualcosa di assoluto, che deve essere detto. È un continuo lavoro d’invenzione nel variare vicende e situazioni narrative che ho vissuto o che mi hanno raccontato. Sono convinto però che la molla sia sempre determinata da una dimensione drammatica, quella dimensione che prende tutto e svela tutto di noi, del nostro vivere, della nostra anima, della nostra rovina, della nostra rassegnazione, del nostro reagire, della forza delle illusioni, della forza di credere nelle cose impossibili, nell’attesa che queste possano avverarsi. Una cosa particolare che mi capita da un po’ di tempo è la riscrittura di testi scritti quando avevo venti, trenta o quaranta anni, li riscopro è li reinvento, scoprendo una notevole resistenza loro, inimmaginabile allora. Devo dire che è una continua sorpresa.
Parlami dei maestri. Ne hai alcuni, oggi, in vita? Che rapporto hai con i maestri del passato?
Kafka è stato il primo. Diedero un documentario su di lui alla televisione e mi incuriosii. Andai a vedere se c’era qualcosa di suo nella libreria dei miei genitori e ci trovai i racconti. Indimenticabile!, ce l’ho ancora quel tascabile Longanesi. Poi lessi tanti poeti: Thomas S. Eliot, Dylan Thomas, Edgar Lee Master, Ferlinghetti, Ginsberg, Pound, Auden, Rimbaud, Montale, Pavese. Oggi non so, la sfilza dei grandi scrittori è infinita, ne scopro sempre di nuovi e di più grandi. La letteratura è un luogo senza fine. Per questo mi meraviglio quando sento dire che è già stato detto tutto, che la letteratura è in crisi. Per quanto mi riguarda faccio fatica a contenere le idee.
Un giudizio sulla narrativa, oggi. E sul sistema editoriale. E poi: cosa ami leggere?
Io mi sento fuori dai grandi giri. Per me scrivere è un dono, è una cosa che ti arriva gratis, ma che allo stesso tempo si pone nel solco della tradizione, quel solco corre avanti e avanti e avanti, velocissimamente, non si ferma mai, per restituire quello che si è ricevuto, dentro ci sono i Pasolini, i Calvino, i Gadda, i Montale, i Manzoni, i Leopardi, su su fino a Dante e al primo uomo che scrisse qualcosa. Non esclusi gli stranieri naturalmente. Ma una volta, ecco che cosa mi succede: propongo a un editore importante di aprire una collana di narrativa italiana, roba tosta, e lui mi risponde che prima bisogna trovare i soldi. A un altro tizio, invece, ho domandato come diavolo aveva fatto ad arrivare a pubblicare, che strade aveva dovuto percorrere, e quello mi ha detto che a lui non si può dire di no. Insomma le cose vanno così, o mi sbaglio? Meglio quindi leggere, ma leggere autori veri, non mi piace leggere qualunque cosa, non riesco a passare da Wilbur Smith a Isaac B. Singer, o da Camilleri a Carlo Emilio Gadda. Preferisco i secondi.
Qual è il tuo romanzo a cui sei più affezionato; di cosa parla il romanzo che stai scrivendo?
È Vinicio sparafuoco detto Toccacielo, nessuno ha scritto un romanzo così infuocato come Vinicio sparafuoco detto Toccacielo, e non esisterà mai nessuno che potrà eguagliare Vinicio sparafuoco detto Toccacielo, perché nessuno si è mai sognato di scrivere l’epica dei fuochisti di fuochi artificiali di Napoli e provincia. È una battaglia d’amore quella, una lettera a Dio, dell’uomo a Dio a forza di botti. Ma sono affezionato anche al mio ultimo libro, uscito qualche settimana fa, il romanzo Come tutte le cose dell’universo, pubblicato da Ad est dell’equatore. Parla di Napoli dal punto di vista di un banco di solidarietà. I personaggi sono veri ma hanno qualcosa di assoluto nella lotta che combattono contro il senso comune e i problemi della città. Nel frattempo ho appena finito un radiodramma, il teatro mi piace, ed è da un po’ che sto scrivendo un romanzo ambientato a Milano. Ma come diceva Papà Wojtyla: “La Chiesa in questo è reticente”. Quindi non aggiungo altro.
L’evento capitale della tua vita: qual è?
Il primo evento è il giorno che mi innamorai e fui abitato dalla poesia. Da allora ho continuato a innamorarmi e a scrivere. Il secondo è quando ho conosciuto gli amici del Centro Culturale di Milano, con Luca Doninelli e Davide Rondoni che organizzavano conferenze e incontri letterari, aiutando a capire che cos’è l’amicizia e il senso dello scrivere. Lì ho capito meglio Gesù e l’intramontabile Giovanni Testori, la cui opera per me è stata assai preziosa, addirittura vitale.
Più che un libro per l’isola deserta, consigliaci un libro assoluto per passare bene quel che resta di questa estate.
A proposito di isola deserta, leggete L’iguana Anna Maria Ortese, e a proposito di Testori consiglio Il Dio di Roserio. Per quanto riguarda i libri assoluti io proporrei Il dono di Nabokov. Grazie e buona lettura.