17 Aprile 2023

“Dobbiamo diventare delinquenti”. Peter Lamborn Wilson, il punk che piaceva a Cristina Campo

In Italia, le prime traduzioni di Peter Lamborn Wilson si devono a Cristina Campo: si tratta di alcune poesie da Almanack, pubblicate nel 1977 sulla rivista “Conoscenza religiosa”. La Campo assegna alla scrittura lirico-lisergica di Wilson, incrocio nuziale tra il bombardamento beat e l’apocalittica di William Blake, una natura meno cupa, più cauta, azzurra:

“Ancheggia il deserto contro
i bordi della città
sotto la superficie della sera”

“È questa stanza il suo oratorio
la sua orazione un attimo ghermito tra le sue palpebre
e l’alba che inclina gli orizzonti
verso un oriente di odoroso imbrunire.
All’estremo orlo della città
querce e cipressi di cimitero
afferrano i frammenti della notte
stracci votivi in rami neri”.

Le poesie – questa è l’impressione – sovraccariche di segni, hanno l’onere della liturgia, sono il monile di un percorso di studi. Peter Lamborn Wilson, in effetti, è un cercatore. Edite nell’ottobre del 1977, le traduzioni di quelle poesie hanno un valore simbolico, il nitore di un lascito: la Campo era morta quell’anno, in gennaio. Wilson continuerà a collaborare con “Conoscenza religiosa”, la rivista fondata da Elémire Zolla – e su cui hanno scritto, tra gli altri, Guido Ceronetti, Sergio Quinzio, Jorge Luis Borges, Abraham Joshua Heschel – fino al 1983: i titoli dei suoi interventi danno il senso di una sapienza violenta (si passa da articoli Sulle Metamorfosi, a testi sugli Angeli, La fisionomia del denaro e la Crestomazia fatimide). In uno di questi articoli, spesso eccentrici, Wilson parla dei nizariti, “conosciuti con il nome di assassini (alhašīšiyyūn), la cui figura carismatica fu Hasan-i Sabbah, detto il Vecchio della montagna, le cui gesta nel mondo islamico sono diventate leggendarie… Più che alle gesta dei nizariti Peter L. Wilson appare interessato al pensiero che sottende quelle imprese. La loro particolare ermeneutica spirituale (ta’wil) finirà per orientarli in modo radicale oltre il piano dell’evidenza sensibile, conducendoli a compiere scelte di vera e propria rottura. Ad esempio, nel modo di interpretare il concetto della ‘grande resurrezione’ (qiyamat), che portò all’abrogazione delle norme religiose sin allora vigenti. L’autore indugia a lungo sul valore della qiyamat, essa è, senza mezzi termini, un invito al paradiso: ‘La qiyamat rimane uno stato della coscienza a cui chiunque può aderire o in cui chiunque può entrare, un giardino senza mura, una setta senza chiesa, un momento perduto della storia islamica che non si lascia dimenticare’” (Federico Battistutta, Hakim Bey e il suo doppio).

Ne La tigre assenza, il libro che raccoglie l’opera poetica della Campo e le sue traduzioni, Peter Lamborn Wilson è presentato come “autore di numerose opere sulla poesia, l’arte, il pensiero islamici, e soprattutto persiani, pubblicate in Inghilterra e negli Stati Uniti”. Negli anni in cui Wilson collabora con “Conoscenza religiosa”, è a New York, rientrato dall’Iran rivoluzionato da Khomeyni, a casa di William Burroughs. I due condividevano l’utopia lisergica e la necessità di mollare questo mondo per una gita nei molteplici altri, con sfumature religiose; a Wilson, Burroughs deve il suo libro gnostico/nostalgico, Terre occidentali.

Peter Lamborn Wilson, pavoneggiato in versi devoti (“Tu non puoi camminare/ la memoria sospende persino il fiato/ certo la catena delle stagioni ora si rompe/ e tale espansione finisce in morte”), in verità è uno dei pensatori più aggressivi degli ultimi decenni. Nato nel 1945, la sua biografia è piena di nebbie. Si sa che ha studiato alla Columbia, ha fatto parte della Moorish Orthodox Church of America, gruppo anarco-sufi fondato da Warren Tartaglia, poeta beat, musicista jazz, morto giovanissimo per overdose di eroina, è stato sedotto da Timothy Leary e dai dettami dell’LSD. Poco più che ventenne, disgustato dal mondo americano, PLW vola in India a studiare la dottrina esoterica induista, lavora in un ospedale a Kathmandu, pratica meditazione in una grotta, sui rilievi lungo la riva orientale del Gange. Dopo un passaggio in Pakistan, alla ricerca di maestri e codici sufi, l’esperienza più importante di PLW si svolge in Iran, quando lavora al fianco di Henry Corbin. In Iran, PLW traduce testi dell’esoterismo sciita, e dal 1975 al 1978 dirige Sophia Perennis, la rivista in inglese legata all’Accademia iraniana imperiale di filosofia.

Il genio di Peter Lamborn Wilson, a un certo punto, è quello di fondere l’anarchismo alla mistica islamica, e di legarsi al sottosuolo della controcultura americana. Dopo aver scritto un libro sugli angeli, quarant’anni fa – tuttora ristampato e distribuito da Penguin Random House –, Peter Lamborn Wilson si maschera con uno pseudonimo rituale e corsaro, Hakim Bey, e comincia a elaborare la sua teoria del Chaos (1985), dello scandalo liberatorio (Scandal, 1988), forgiando una poetica della pirateria contemporanea (Pirate Utopias, 1995). Il suo libro più noto, manifesto dell’inadempienza civica, antistatalista, che alla rivolta sociale fonde la rivoluzione spirituale, s’intitola T.A.Z.: The Temporary Autonomous Zone, esce trent’anni fa, costantemente ristampato. Il libro – come altri di Hakim Bey, ma molto è ancora da tradurre – è edito in Italia da ShaKe, se smanettate in internet riuscite a scaricarlo gratuitamente.

Il libro è affascinante, la scrittura è corrosiva, PLW detto Hakim Bey parte delle enclave della pirateria del XVIII secolo e dal cyberpunk per teorizzare la costruzione di “zone temporaneamente autonome”, oltre ogni controllo e collisione statale.

“Siamo noi che viviamo nel presente condannati a non sperimentare mai autonomia, a non stare mai per un momento su di un pezzo di terra dominato solo dalla libertà? Siamo costretti o alla nostalgia del passato o a quella del futuro? Dobbiamo attendere che il mondo intero venga liberato dal controllo politico prima che anche uno solo di noi possa dire di conoscere la libertà?”.

L’idea è quella di promuovere un nomadismo dei sensi e del pensare, l’epica di chi surfa sul caos, consapevole di poterlo tramutare in eros:

“Paradosso: abbracciare il Caos non è scivolare verso l’Entropia, ma emergere in un’energia come di stelle, un modello di grazia istantanea – uno spontaneo ordine organico completamente differente dalle piramidi di carogne, di sultani, sorridenti boia. Dopo Caos viene Eros il principio d’ordine implicito nel niente dell’Uno inqualificato. Amore e struttura, sistema, l’unico codice non contaminato dalla schiavitù e dal sonno drogato. Dobbiamo divenire delinquenti e imbroglioni per proteggere la sua bellezza spirituale in una sfaccettatura di clandestinità, un giardino nascosto di spionaggio”.

Hakim Bey, di fatto, giustifica il disfattismo, l’aurora nichilista, il crimine come atto salutare, erotico; mescola hacker e raver, polluzione poetica e ribellismo tipicamente americano. È qualunquista e despota, depaupera ogni senso fino al solo significato: l’individuo, che urla, ego disossato nel rito. Eppure, in quest’era inerte, di masse obbedienti, di salutisti che si fanno biberon vaccinali, uno che impone il pensiero come sabotaggio, che predica “l’anti-lavoro”, il “samizdat per rimpiazzare tecniche sorpassate di propaganda/editoria”, la “riaffermazione dell’eros polimorfico… abbandonando ogni odio del mondo e la vergogna”, il “terrorismo poetico” e il “marxismo-stirnerismo”, per lo meno, rincuora. Perfino le azioni dada promosse da Hakim Bey divertono, voltano lo stantio al dionisiaco:

“Entrare nell’area-bancomat, cagare sul pavimento, uscire. Attacchinare in luoghi pubblici un volantino fotocopiato di un meraviglioso bambino dodicenne nudo che si masturba, chiaramente intitolato: La faccia di Dio”.

Molesto incrocio tra uno sciamano e un barbone, Hakim Bey, ritornato Peter Lamborn Wilson, An Anarchist in the Hudson Valley, ha passato il resto del tempo a distruggersi, spesso a contraddirsi (anche questa, in effetti, è pratica mistica). Intervistato da The Brooklyn Rail, il guru dei contro ha detto che “la musica industriale non mi piace, non mi piacciono i rave, credo sia disgustosa questa sonorità orgiastica vomitata da ogni singolo orifizio della civiltà moderna”. Benché affiliato al cyberpunk,

“Non ho mai avuto un computer, mai ho usato Internet. D’altronde, Internet si è rivelato l’esatta immagine del capitale globale. Non ha confini, come il capitale globale. Non può essere controllato dai governi, come il capitale globale. Ma infine, si rivelerà una forza armata mercenaria, un’azienda interstatale. Non parliamo della Rete come di una liberazione, non blateriamo di comunità virtuale o di cyberfemminismo… Fondamentalmente, resto un luddista. Alcune tecnologie danneggiano la vita comune. Bene. Bisogna tirare fuori i martelli e distruggerle. Azione diretta. Critica luddista, cioè: agire con la mazza”.

Contro le ‘rivoluzioni verdi’ imposte per decreto di Stato, contro i rivoltosi per mestiere (“Convincere milioni di persone a uscire in strada per sventolare simboli è un atto meramente politico. Se non comporta la costruzione di istituzioni economiche alternative non ha senso”) e i fondamentalisti islamici (“Non hanno idee, sono anticapitalisti ma amano la tecnologia e il denaro. Non offrono alternative a nulla”), fondamentalmente Hakim Bey è un uomo medioevale, ha la rabbia dei santi sacrileghi, è quasi un francescano.

Muore il 22 maggio del 2022, in stato di estasi.

Gruppo MAGOG