28 Novembre 2024

“Vivo nell’eternità”. Christian Dotremont, il poeta del fuoco e del vento

Precocissimo, Christian Dotremont iniziò a scrivere le prime poesie alle elementari, pubblicò i primi versi tredicenne, sulla rivista belga “Le Petit Vingtième”: negli stessi anni, sulla stessa rivista – dedicata alla creatività in fasce – esordiva Tintin, creatura del geniale disegnatore Hergé. Fin da subito, cioè, la parola, per Dotremont, non basta a se stessa: verbo, eco del sogno, ha i tratti inafferrabili del giaguaro acquattato tra i rami, fa la muta, come la serpe, è mutevole come la nube.

Inadatto alle norme, cacciato più volte dai collegi dove era via via inviato, Christian Dotremont, nato a Tervuren, Belgio, il 12 dicembre del 1922, scopre l’opera di Magritte e l’estro surrealista appena diciottenne. Nella Francia occupata, il ragazzino bussa alla porta di Paul Éluard, conosce Picasso, s’imbarca in riviste d’effimera durata, nate con paramenti onirici, “L’invention collective”, “La Main à Plume”. Come detta la giovinezza, sono gli anni dei manifesti, delle asserzioni che pur fittizie servono a consolidare un ego. Dotremont è un ‘agitatore’: presto si stanca delle asfittiche gerarchie ordite da Breton; il surrealismo sonnambulico, al collasso, lo sfinisce. In Belgio, così, il ragazzo fa da sé: secondo una tradizione di famiglia – il padre, Stanislav, scrittore, cattolico, era direttore di diversi giornali, tra cui “La Revue internationale de musique” – fonda riviste (“Les Deux Sœurs”) e case editrici; con una di queste, ideata a Lovanio, dal nome mirabile, “Le Serpent de mer”, si pubblica il poema Quand un homme parle des hommes.

Ma non è la poesia l’assoluta malia di Dotremont: egli esige la poesia come formula incantatoria, come oggetto magico. Da tempo, il poeta tentava una fusione tra verbo e segno, tra suono e sogno, tra poetica e pittura. Da un lato, legatosi al Partito comunista belga, fonda l’ennesima rivista incendiaria, “Le Surréalisme révolutionnaire”: all’urlo di “non possiamo cedere alla realtà”, il foglio, più lieve di un fuoco fatuo, durò l’istante di un numero, cedette alla realtà dei fatti. D’altro lato, nel 1948, Dotremont si fa apripista del movimento “sperimentale” CoBrA. Dietro il nome, che sta tra il nobile elapide e la trita spy story, la topografica banalità: il gruppo accoglieva artisti provenienti da Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam. Secondo una buona definizione:

“Tali artisti tentarono di trovare modelli non contaminati dalle convenzioni e dalle norme d’Occidente: i totem, i segni magici delle culture primitive, la calligrafia orientale, l’arte preistorica e medioevale. In verità, esplorarono le parti ancora intatte e vigorose della propria cultura come l’arte popolare nordica, i residui naif, le creazioni dei bambini o degli internati”.

Il gruppo – nel 2015 è uscito per Skira il catalogo CoBrA. Una grande avanguardia europea (1948-1951) – raccolto, naturalmente, intorno a una rivista (“Cobra”), durò, naturalmente, pochissimo: sfiorì nel 1951; Dotremont continuò ad agitarne, da solo, il vessillo.

Nel frattempo, il poeta aveva trovato la formula che lo renderà indifeso e indimenticato: il logogramma, sorta di “unità d’ispirazione verbale-grafica”, come dice lui. Che vuol dire? Che le parole, sotto l’azione del pennello, si spiumano, spauriscono, spariscono, prendono volo e vento. È come la concia del vocabolario. Se l’idea originaria di tali, infiniti Logogrammes rimanda all’arte estremo orientale, l’esito ha qualcosa della calligrafia araba.

In questa esplorazione, Christian Dotremont trova il luogo eletto in Lapponia. “Non avevo mai ingollato così tanto spazio”, scrive dopo il primo viaggio, compiuto nel ’56. E poi:

“Ero come obbligato alla solitudine, a quei giorni e giorni di silenzio. Ho fatto della solitudine un mezzo, un metodo, direi quasi una ragione. Sono come un monaco viaggiatore ateo… Quando sbarco a Ivalo, nella Lapponia finlandese, ho l’impressione di vivere nell’eternità, di essere eterno nella vita che scorre”.

La composizione dei logogrammi si compenetra alla scrittura lirica; nel 1955 Gallimard pubblica un suo atipico romanzo, La Pierre et l’oreiller (“Compresi finalmente perché si era attaccata a me: le offrivo avventura e regola, instabilità e stabilità allo stesso tempo, la stabilità del marito e l’instabilità dell’amante, il cuscino e la pietra”). A breve, è prevista la pubblicazione di un’ampia antologia lirica, Les grandes choses (con uno scritto di Yves Bonnefoy).

I canti dei lapponi, i riti della pastorizia, la liturgia che precede la caccia, le incisioni stellari sulle cortecce e sui tamburi, ispirano l’estrema arte di Dotremont (per capire cosa si intenda si veda: Johan Turi, Vita del lappone, Adelphi, 1991)

Da tempo malato, l’artista muore nell’agosto del 1979, a 56 anni, in un sanatorio, a Buizingen. Ha cercato di dipingere il vento, ha tentato di dare all’eco del verbo nitore di vetro, favore di paglia e di fuoco.

***

Grandi cose

Da lungo tempo, da prima degli alberi,
da prima ancora,

Dacché fu il silenzio,

E volevo dire verbo e romperlo
come il pane, quel silenzio,

Essere il portaborse portato dalla parola

Il canzoniere che non conosce canto
gridare a tutti i canti senza economia d’eco

Ridere tra i cocci, piangere
nel vestibolo delle case,

Ma mi arrivò la scrittura,

Per lungo tempo desiderai vedere
e accesi le lampade,

Volevo essere preso in flagrante delitto
tra camere tormentate di porte,

Brufolo brusio sul viso dello specchio,

Gente che marcia all’inginocchiatoio
del sole come un attore,

E il paesaggio che si acquatta, che dorme,
che continua a dilagare,

Mi comportavo come un detective e scoprii
crimini, tracce, impronte, la vittima
incestuosamente congiunta al colpevole,

Tutto era confessione, camminai
tra le evidenze serrandomi al segreto,

Non voglio perderlo,

In mezzo al magazzino delle cose
esposto all’abitudine

Hai rubato qualcosa per vivere, per nutrire
il segreto

Ma ho chiuso gli occhi
per fissare la chiave nella serratura,

E vedere i fiori del ghiaccio alle persiane
le fiamme che decorano i tappeti,

Aprire le persiane, sollevare il tetto lordo di nozioni,

E seguire, ben delineati, i sentieri delle feste
che non hanno luogo,

Le tenui dissolutezze, quelle fragili, dove tutto è un’ingiuria,

E perdere il filo, e procedere nel miraggio
che incanta i deserti,

Tra i suk dove serpenteggia il crotalo
mercante di incredibili,

Fissare ciò che non ha luogo né tempo,

Giungere così alle acque delle palpebre,

Ma ti ho guardata

Lo desideravo da tempo

A garanzia di ciò che è intorno e didentro

E trovare nel frutto il gusto del frutto che cerco

Avanzare nell’ombra sfilando la daga dello sguardo

E carezzare i lembi del sole

E fare ciò che immagino, e immaginare ciò che faccio,
amica mia

Bruciare alla fiamma della bolgia candela il grande libro
dove sono contemplate le grandi cose, e quelle piccole,

Ma tu li hai lasciati fare, abbarbicati di abbracci

Le stanze affacciavano sul suk, gli occhi
indossano i miei

Le case hanno sollevato i tetti per salutare
gli uomini in camino,

Le bestie si sono sparse sull’erba
sulle orme del lupo ebbro, soave

Gli elfi fluttuano con gli gnomi, gli alberi dormono
in piedi, nel muschio,

Nel cortile la più misera parola
diventò valanga,

Non c’era carta sui banchi
nessuna scrivania,

Ma il cielo lardellato di nubi

La tempesta che sfiora i cardi
i fiumi rutilanti nell’oro

Il tempo riposa sul cuscino, il segreto
si guarda nello specchio,

Ma non ti ho vista arrivare

Tengo gli occhi aperti
sulle grandi e le piccole cose

Grido dai tetti perché l’eco
frantumi il silenzio

E il mio volere viola l’invidia.

*

Lapponia

Albero intatto:
è l’esclamativo che deraglia la frase
mentre la frase si dilunga bianca

Nel giardino, l’albero porta
il suo nome e il suo passato:
qui comporta silenzio

Oltre il giardino nessun sud
nessuno zucchero né saponificio di gioia:
inverno è il mio sale, la mia sala

In questo troppo bianco foglio
lo sguardo è crimine della drittura:
liane rampicanti i tuoi boccioli

La frase non è che povero canto
penuria in questo biglietto ceruleo

In questo drappo l’amore
parla di un sole notturno
nel tempio dei Sami canta la renna
qui perdo i bagagli
e il linguaggio mi scaglia
nel lignaggio della bestia dove il fiato
si erge nella stalla e nel letto
in cui ricordo di te Paul
e di te Jean con le rime in mezzo

Il singolare albero metronomo
di una goffa grammatica
va a scuola di una palla di pietra
è genuflesso davanti al grande pavone
nel tempio e non dico nulla

Le parole sono foglie
sul taccuino del tuo albero e della tua frase
a cui si accorda l’estrema arpa

*

Insieme

Mia moglie è un roveto
sul mare, drappo in crollo:
l’albero sogna il fuoco
il vento una bandiera sbiadita
ma la guerra non è pace.
Non basta parlare al contrario
essere aragosta della lingua
per sfociare nel sogno.
Non basta sussurrare bel tempo
e aprire un ombrello
e chiudere un ombrello
mentre si prepara primavera.
Non basta ungere le pistole con il burro
e mettere le armi all’ombra degli ulivi.
Una menzogna rivela
che sogniamo la verità.
La piccola battigia dell’orecchio
fa rumore per svegliare
il ricordo dei morti
ma il sogno non dorme
ma la memoria non dorme
siamo al debutto
del verbo sognare.
Dovremmo tagliarci la testa
per indossare il casco dei nostri errori
dovremmo strapparci il cuore.
Una maschera non basta
a spaventarci e a farci ridere:
ridiamo per non respirare.
Non basta il brusio delle macchine
che frana sul tavolo dove scriviamo
perché per noi scrivere è dire grazie.
Non basta linciare gli innocenti
denunciare il pensiero, per capire
che il rosso non è sempre un cardinale.
Non basta chiudere le porte
per convincerci che la casa è bella:
non basta serrare gli occhi.
Tutto ciò che serve è una freccia
scoccata dal sole per abbagliare la notte:
dobbiamo soltanto stare insieme.

Christian Dotremont

*Ovunque, nella pagina, i logogrammi di Dotremont

Gruppo MAGOG