18 Aprile 2018

Lasciate tutto e datevi alla poesia! Robert Graves ci insegna che “il denaro può comprare ogni cosa eccetto la verità”

Metto insieme due cose. Seguirà commento.

Prima. Connie Palmen è una brava scrittrice olandese che ha scritto un bel romanzo sul tormentato (ma drammaticamente efficacissimo per la storia della poesia) matrimonio tra Sylvia Plath e Ted Hughes. Il libro s’intitola Tu l’hai detto ed è pubblicato in Italia da Iperborea. A un certo punto, sale in cattedra Marianne Moore, gran poetessa americana, amica di T.S. Eliot, Ezra Pound e compagnia poetante. “La grand old lady della poesia americana aveva consigliato ai giovani poeti di scegliere un lavoro facile che non consumasse troppe energie, in modo da poter comporre versi la sera e nei fine settimana”. Il consiglio, molto americano, non fa una grinza. Se vuoi fare il poeta, prima metti il pane sotto i denti – cioè, guadagnati uno stipendio, possibilmente buono e possibilmente lavorando poco – poi, nel tempo libero, scrivi. Chiunque scriva poesia sa che alla poesia non si comanda, magari accadesse “la sera e nei fine settimana”. Non è la poesia a obbedire ai nostri bisogni, è il poeta a obbedire ai suoi dettami.

Seconda. Robert Graves è tra i grandi poeti e pensatori del Novecento, troppo poco tradotto in Italia, dove c’è qualche romanzo (Io, Claudio, Belisario, Io, Gesù), gli studi mitologici (I miti greci), un tumultuoso libro di memorie (Addio a tutto questo), ma manca il meglio, le poesie. Forse fanno paura. Paura che non vendano – paura che diventiamo intelligenti leggendole. In un libro insolito, eccentrico, assoluto e arcinoto, La Dea Bianca (“uno dei pochi sommi capolavori del nostro secolo”: parola di Elémire Zolla), che tenta di delineare una “grammatica storica del mito poetico”, Graves dice le cose come stanno. La poesia, che è la quintessenza della vita, non ammette patti con la ‘società’. Il poeta è inchiodato totalmente al suo compito: se ne fotte del sopravvivere, perché lui vive, in piena intensità linguistica. “Privo come sono della coda, ossia del contatto con la civiltà urbana, tutto ciò che scrivo deve suonare assurdo e irrilevante a quelli che tra voi che sono ancora legati agli ingranaggi della macchina industriale, sia direttamente come operai, dirigenti, commercianti o pubblicitari, sia indirettamente come funzionari, editori, giornalisti, insegnanti o dipendenti di una rete radiofonica… Avete scelto il vostro lavoro perché vi permetteva un’entrata costante e il tempo libero necessario per rendere un prezioso culto a metà tempo alla Dea che adorato. Vi domanderete a che titolo io vi avverta che essa vuole essere servita a tempo pieno o non essere servita affatto”. Ha ragione Graves: la poesia chiede tutto al poeta, chiede il sacrificio supremo. Abolire una vita ‘normale’, normata, per penetrare l’eccedente e verificare la rinuncia. Ma questa è una scelta da… monaci. Appunto. Per avere uno sguardo lucido sull’uomo e sul mondo bisogna uscire dal mondo. Senza bisogno del deserto bianco – che ci incenerirebbe – basta passeggiare per il mondo da ‘usciti dal mondo’.

Robert Graves ne mette un’altra. Questa. “Un tempo la poesia serviva per ricordare all’uomo che doveva mantenersi in armonia con la famiglia delle creature viventi… oggi ci ricorda che l’uomo ha ignorato l’avvertimento e ha messo sottosopra la casa con i suoi capricciosi esperimenti filosofici, scientifici e industriali, attirando la rovina su se stesso e sulla sua famiglia. L’oggi è una civiltà in cui gli emblemi primi della poesia sono disonorati; in cui il serpente, il leone e l’aquila appartengono al tendone del circo; il bue, il salmone e il cinghiale all’industria del cibi in scatola; il cavallo da corsa e il levriero al botteghino delle scommesse; e il bosco sacro alla segheria. Una civiltà in cui la Luna è disprezzata come un satellite senza vita e la donna è ‘personale statale ausiliario’. In cui il denaro può comprare ogni cosa eccetto la verità, e chiunque eccetto il poeta posseduto dalla verità”. In alcune fotografie si vede Robert Graves con un enorme cappello nero davanti al paesaggio postumano di Maiorca, come se la parola del poeta possa evocare la vita e il dolore.

Nell’epoca in cui il poeta è privo di un ruolo e la poesia è un rammendo da tempo libero, un hobby come costruire vascelli con gli stuzzicadenti, proliferano i poeti – petulanti, nei loro aristocratici club da quattro aristogatti – e il verbo va trovato valicando il pudore. Che il poeta non abbia ‘un ruolo’ non è sintomo di libertà, ma prigionia nella sfiga: i frati, i ‘folli di Dio’, hanno un valore proprio perché non hanno nulla. A me sorprende che il Paese che ha imposto all’Occidente la lirica, d’amore (Petrarca) e di gioioso orrore (Dante), si occupi di vino e di cibo più che di poesia. Dovremmo avere un Centro Ricerche di Poesia, dove si affinano i massimi talenti della poesia recente; dovremmo avere un Ministero dedicato alla Poesia e stipendiare i poeti per lasciarli liberi di vagare, pensare, operare. Lo so che vi toccate le palle, perché uno Stato che stipendia gli artisti fa venire in mente la nebulosa sovietica. Vero. Ma. Non si capisce perché si finanzia la ricerca nel campo enogastronomico e non in quello letterario. Abbiamo abiurato l’unica cosa che abbiamo? Poi. Solo se assegni un ruolo a qualcosa, puoi scegliere di rifiutarlo. La rivoluzione estetica si fa rispondendo a un fatto concreto. Solo se mi dai l’alloro posso tramutarlo in ornamento per ratti. Per ora, è solo l’eco del nulla, il niente, l’annientamento domestico dei poeti nella loro piccola cuccia. (d.b.)

Gruppo MAGOG