Che la parola sia il più vile degli strumenti è un bene.
Il poeta, estremo liutaio…
Di una parola esiste il dolo, il bolo del male, il bene.
Tutti disprezzano la parola, ne abusano – la parola è sulla bocca di tutti.
Perché i segni siamo compresi bisogna sovvertirli.
Con le parole si inganna, le parole sono tortuose, un labirinto di ombre. Per il poeta, la parola è un pezzo di legno: è duro, va lavorato, a volte ti si conficcano le spine, sotto pelle. Spine che nessun medico sa estrarre.
Dal legno si ricava una cassa armonica, perché la parola abbia voce.
Questa infinita infamia della parola è il genio del poeta, che usa una materia vile, di tutti, per fare qualcosa di unico. Il romanziere usa la testa – fa fiction, d’altronde, finzione –: quello del poeta è un lavoro di mani. La parola va maneggiata per auscultare le segrete di un uomo – per arrivare lì dove non c’è voce, dove la parola muore.
Un caro amico artista, Angelo Borgese, che abita in Romagna ma viene da Catania, mi racconta dell’opera dei pupi. In casa, in un’ansa presso la cucina, ha appeso un pupo, è la figura di Rinaldo. Sullo scudo di Rinaldo, c’è la figura di un leone impennato. Dal volto di legno, ciuffi di pelo. Da lontano, il pupo sembra un cavaliere riccamente addobbato: gli arredi, però, sono umili lastre di ferro, battute e preparate per il teatro. Ciò che è semplice, impuro, appare magnifico, purissimo.
Angelo mi racconta sempre questo episodio. Durante l’opera dei pupi, l’emozione squarcia la gola degli astanti, Rinaldo lotta contro Orlando. Il pupazzo di Orlando, nello scontro, concitato, perde la spada – un uomo, dal pubblico, si alza e gli lancia il coltello che ha in tasca, con sé: “piglia questo per difenderti!”, urla (lo scrivo in italiano, immaginiamolo in dialetto). La storia è talmente vera che Orlando ha bisogno di aiuto, ora. La poesia ha vinto sulla realtà: in quell’istante, esiste solo la lotta tra Rinaldo e Orlando, e Orlando non può soccombere. Non c’è altra vita che quella che accade sul palco, recitata dai pupi, e quella di chi attende, nella platea improvvisata, all’aria. Eccolo, il rito.
La poesia è così – a un certo punto, per eccesso di verità, ti viene da tirare fuori un coltello, da figurarti Orlando. I pupi, in poesia, hanno vinto il puparo: non esistono più fili, e il filo del discorso è troncato.
Chi cammina lungo la costa, tra quella mondanità di nebbie e modanature inquiete, immagina mondi, non migliori, magari, ma diversi. Più di una volta, sull’Adriatico reso ligneo dal gelo, immoto, ho visto correre ghepardi; e un bambino che dopo aver addestrato turbe di leoni supera le dune.
Le dune sul mare: un deserto che si affaccia su un altro.
Le gru, sulla spiaggia, sembrano pterodattili.
La poesia di Enzo Travaglini, balbettio di verbi ossei, rosario ostinato, va per elementi primi e senza origine: la neve, il temporale, il Natale; la porta, l’abbraccio, l’aquilone; il cielo, l’albero, la notte; la candela, la casa, la pietra. Di ogni cosa Enzo scorge il lume e il messaggio, conosce l’arte di inchinarsi. Sa dare olio al dolore – non occorre sanare quando la cosa splende.
Sono rari i poeti: appena mostrano di credere a ciò che hanno scritto, svaniscono.
È difficile restare onesti e tramutare le briciole – come la vecchia serva narrata da Palladio nella Historia lausiaca – in un sacrario, gli sputi in acqua benedetta.
Spesso quando mi appare tra i nastri dell’inverno, urlo a Enzo, “Ciao, poeta!”.
Sono rari i poeti e non c’entra la sapienza nello scrivere, vana malizia. I poeti che si dicono re si difendono con una covata di castelli retorici; i poeti profeti vanno in giro spogli, oltre i confini del castello e della città, con cavallette tra le labbra.
Il poeta è sempre incredibile, ma visto, mai creduto.
“Ciao, poeta!”, gli dico. Enzo è allampanato, sorride, sfila, ingabbiato dal pudore – il poeta sembra invisibile, ed è ubiquo.
Il poeta non è migliore di altri, non è un giusto – indubbiamente, è buono.
*
Questa pagina introduce il libro di Enzo Travaglini, “Ad la’ de cunféin” (Il Vicolo, 2022). Enzo scrive poesie in dialetto romagnolo, nella variante riccionese. Qui scelgo alcune poesie, nella sua traduzione in italiano.
La prima neve
Nevica, e le scuole sono chiuse,
ma oggi è la neve la maestra.
Guarda i fiocchi, non puoi contarli
si compongono a formare una distesa
e poi ritorna, quella pace…
Adesso la strada riluce
e la notte ha un colore più vivo.
La prima neve è una pagina bianca,
è tutto così chiaro e tutto ancora da scrivere.
*
Il regalo di Natale
Nel silenzio, è lì che si nasconde;
viene di notte, come un sogno.
Sopra l’albero formiche di luce
stanno portando un pane più grande.
Il bambino non lo sa, ma è quello che ha chiesto.
*
La candela
Povera fanciulla, sottile come una candela
e dentro quel tormento
una fiamma, che divora la cera.
E la candela, ormai uno stoppino,
dentro la notte più nera, la candela
diventa un lumino.
E sua madre, con quel magone,
incomincia a pregare;
appoggiata alla colonna del silenzio, guarda
il marmo della chiesa non è quello della tomba.
*
Una mollica
Andiamo al forno, la mattina
l’odore del pane e quella fame, antica
ma il tempo come mastica
si vive, si muore
soltanto un poco, una mollica.