Vengo a sapere dell’esistenza di Alois Musil leggendo un libro di Alessandro Spina, Elogio dell’inattuale. Pubblicato dieci anni fa da Morcelliana, questo libro – insieme all’opera pressoché omnia di Spina – risulta “attualmente non disponibile”. Peccato.
Questo foglio va inteso come una specie di tour tra figure folgorate dall’oblio, filigranate nel niente, di libri perduti, intradotti, reprobi.
Il primo saggio di Elogio dell’inattuale – che raccoglie alcuni “brevi scritti comparsi sui giornali” – s’intitola L’altro Musil; Spina racconta, appunto, la storia di Alois Musil, cugino di Robert. È facile capire perché: Spina, in realtà Basili Khouzam, è nato a Bengasi da genitori maroniti originari di Aleppo; suoi sono i temi dello spaesamento, dell’esilio, del deserto inteso come monito, della sprezzatura e di una religione, per così dire, intrisa di cobra, di levantina scaltrezza. Il genio del dettaglio, della maniglia istoriata, della perfezione che mozza il fiato sono propri di Spina.
Alois Musil (1868-1944)
Alois Musil, cioè, sembra corrispondere al prototipo del personaggio ‘da romanzo’ amato da Spina. Nato in Moravia da povera gente nel 1868, l’altro Musil, carattere ostinato, ostile allo status quo, ha studiato teologia, è consacrato sacerdote nel 1891, si appassiona alle lingue semitiche, che approfondisce presso l’École biblique et archéologique française di Gerusalemme e poi a Beirut. Ha talento. Studia l’Islam, rivede nella vita dei beduini che si spostano lungo la Penisola Arabica lo stile dei patriarchi biblici. Compie diverse spedizioni archeologiche, la più importante delle quali, nel 1898, in Giordania, lo porta a scoprire il palazzo di Qusayr Amra, di epoca omayyade, risalente all’VIII secolo, ora Patrimonio dell’umanità. L’analisi degli affreschi e dell’architettura del complesso monumentale concorrono a fare di Alois Musil uno dei massimi arabisti dell’epoca. Nel 1908, con il cartografo austriaco Rudolf Thomasberger, attraversa e mappa i recessi della penisola araba; nel 1912 accompagna Sisto di Borbone-Parma in Mesopotamia, in una missione archeologica dai riflessi – va da sé – politici.
Alessandro Spina racconta Alois Musil attraverso il suo libro più importante, Arabia Deserta, pubblicato nel 1927, naturalmente inedito in Italia. Ne scrive in questo modo:
“La lezione che ci dà Alois è nella minuzia della descrizione. Sarebbe difficile trovare un altro libro altrettanto restio a prestarsi a chirurgia antologica: come volesse rubare al deserto il suo infinito ripetitivo a prima vista, singolare a ogni passo. Viene il sospetto che il deserto sia una controfigura del tempo, forse questa è similitudine pertinente. L’inventario del deserto è inattuabile, la navigazione del dotto pari a quello, ecco un’altra similitudine, di un veliero che solchi un oceano… Insomma, questo spazio sconcertante della natura sembra catturabile solo mentalmente, come ogni realtà soprannaturale”.
Il libro, nella sua misura ideale, sembra sovrapporsi al deserto: i fogli come dune, tra banchise sabbiose di bianco, le lettere, quasi scorpioni, rose del deserto, erosioni, eruzioni di oasi. Entrambi chiedono una lettura – le stelle capilettera – e la paura di perdersi; che il lettore si faccia orante.
Spina, a cui piace infilarsi nel roveto delle relazioni parentali – e che ritiene Musil, Robert, insieme a Thomas Mann e a Hugo von Hofmannsthal, uno dei suoi cari lari – ricorda l’unica volta in cui Robert Musil cita nei suoi diari la fisionomia del cugino, sacerdote berbero, così:
“Mio nonno è stato un uomo che ha spezzato la sua cerchia e in ciò ha avuto successo. Mio padre si è mosso completamente all’interno di ciò che gli era dato, adattandosi assolutamente alle possibilità e solo da ultimo (Vienna, Graz) senza successo. Io sono come mio nonno (in realtà incomprensibile a mio padre) ma senza successo. Alois ha ripetuto il destino di mio nonno, suo prozio”.
Avventuriero, non per forza avventato, capace di contrattare, di contrapporsi con il dono, Alois Musil, nel deserto, vestiva come i beduini: conosceva i capitribù che si muovevano in Arabia, stringeva legami, non solo di studio. Un esploratore ce lo consegna così:
“Con la sua presenza, la barba nera, il viso affilato, Alois Musil sembrava, vestito da nomade, un beduino come gli altri… Assiso su un cammello, con in mano un fucile, sembrava più a suo agio che di fronte a un altare”.
Parlava una trentina di dialetti arabi, le fotografie che lo immortalano in abiti beduini ricordano terribilmente quelle di T. E. Lawrence, scattate più tardi. In effetti, con qualche confusione cronologica – Musil è più grande di T.E. di vent’anni: pascolava nei deserti quando il futuro colonnello giocava ai soldatini a Tremadog – Alois Musil è detto il “Lawrence di Moravia”. Durante la Prima guerra mondiale, nel contesto arabo, i due giocarono in campi contrapposti. Alois Musil offrì i suoi servigi alla casa d’Asburgo, tentando di convincere le tribù beduine a non combattere gli ottomani ma, al contrario, a sollevarsi contro le mire inglesi. Tutti volevano quella cruda fetta di deserto: ciascuno operò tramite l’inganno e la delazione. Per Lawrence la costruzione di uno stato arabo era per lo più omerica, una fola a cui era bello appassionarsi, materia per un romanzo, possibilmente abissale; i maestri d’Albione riuscirono, con promesse e denari, a far proprie le recalcitranti tribù.
Il tema del trafugare le fedi, del contraffare e del contrabbando va tenuto sullo sfondo.
Alois Musil, il grande arabista, il sacerdote beduino, ne uscì sconfitto. Radicalmente. Gli restò da percorrere una vita di studi, sostituendo la cattedra alla carovana, presso la Univerzita Karlova a Praga. Aveva scelto di diventare cittadino ceco; gli rimproverarono di aver appoggiato gli Asburgo, di essere un doppiogiochista. Pubblicò cinquanta libri, quasi duemila articoli e cinquecento trascrizioni e traduzioni di poemi arabi, altrimenti perduti.
Dopo gli accordi di Monaco del 1938, preferì lasciare l’università e ritirarsi in una piccola casa, nella Boemia Centrale, dove Alois Musil morì, nell’aprile del 1944.
Alessandro Spina, nel suo articolo, ricorda che “quando si alzava il vento del deserto, la vasta scrivania era impicciata dalla sabbia talvolta rossiccia e in basso lo stesso macchinario dell’azienda si bloccava esausto: proprio gli stessi drammatici momenti di un capitano di mare quando l’acqua sembra persa da una furia fantasiosa e distruttiva”. La sabbia, come l’acqua, penetra in ogni fessura (l’azienda, come un vascello, perde la rotta, rovinata dai venti). Il deserto rende ogni mira un miraggio. Quando Spina invita, allora, a “seguire le tracce” di Alois Musil è come se ci invogliasse a sparire.
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Alois Musil, “Hegiaz. Un itinerario topografico”, 1926
Tornati ai nostri cammelli, legammo loro le zampe anteriori presso una collina. Ci sdraiammo intorno a loro, dopo la cena, temendo che gli animali, di buon umore, si spaventassero, di notte, alla vista di qualche predatore.
Lunedì primo maggio 1910 eravamo in sella dalle quattro del mattino (temperatura: 8 gradi). Risalimmo il ripido pendio del crinale di al-Cabd. I sentieri, tortuosi, ci portarono verso un terreno di rigogliose piante perenni. Alle sei abbiamo raggiunto la cupola di Mhakhak al-Cabd, che offre una splendida vista sulla pianura meridionale. Quest’ultima, a diverse centinaia di metri sotto di noi, sembrava immersa in un’acqua bluastra, da cui si allargavano densi vapori, scuri. Sopra la fitta foschia si ergevano, come isolotti, innumerevoli corni, coni, tronchi di cono, piramidi smussate, obelischi, e altre forme eccentriche, smussate e modellate dall’azione della pioggia, del vento, del gelo, che avevano letteralmente rosicchiato strati di roccia, depositando gli elementi più morbidi a est e sud-est, verso il deserto sabbioso di an-Nefud.
I raggi del sole nascente si riflettevano sulle cime: l’idea era quella di una pioggia dorata. L’altro lato della zona, invece, era avvolto da un’ombra rossa, scura.
*
Appena ripartiti con una nuova guida, udimmo, nella valle, grida di guerra. Mi voltai. Vidi una folla di selvagge forme, uomini e donne: ci inseguivano armati di fucili, lance, bastoni. Sulla destra, da un accampamento più piccolo, uscirono altri, a precipizio, verso di noi. Come bestie feroci, ci accerchiarono.
“Cristiani maledetti, dobbiamo uccidervi”, gridarono, colpendoci con il calcio del fucile, randellando i nostri cammelli, che fuggirono. Ciò che seguì è difficile da descrivere, ogni descrizione sarebbe impropria al cospetto della paura. Ci portarono in un campo più piccolo; Rif’at e Tuman furono condannati a morte perché cristiani; noi avremmo dovuto, secondo le rapaci mire dei Beli, subire la stessa sorte. Maltrattati, ridicolizzati, picchiati da quel branco di uomini, non riuscimmo a chiudere occhio per tutta la notte.
Il primo luglio del 1910, un grosso drappello del clan Shama’ giunse presso l’accampamento: ne seguì una battaglia agitata, complessa, che infine costrinse i nostri aguzzini a consegnarci. Fummo condotti presso le sorgenti di Abu Raka, nella valle di al-Gizel. Le nostre sofferenze continuarono. Fin dall’inizio avevo detto che stavamo viaggiando verso il capo dei Beli, sotto la sua protezione e che i Beli, dunque, stavano infrangendo un suo diretto ordine. La cosa ci fu di aiuto.
Verso mezzogiorno, nel campo di Abu Raka entrò un nero che prestava servizio presso Sliman eben Refade, il capo dei Beli. Tempo fa avevo guadagnato il suo favore con un dono considerevole, per questo prese le nostre parti. I negoziati andarono avanti a lungo, prima che ne uscissimo salvi. I nostri apparecchi fotografici erano compromessi, gli erbari distrutti, il mio taccuino scomparso. Finalmente, di sera lasciammo l’accampamento, con una nuova guida.
L’antica tribù dei Beli si accampa a sud dello Hwetat at-Tihama. Ad est il suo territorio si sviluppa fino alla stazione di Dar al-Hamra.