01 Dicembre 2023

“Volevo rendere il mondo migliore”. Alfredo Panzini, l’inattuale

Ha ragione Alfonso Berardinelli, recensendo sul Foglio l’ultimo lavoro di Stefano Brugnolo (Quodlibet, 2023), a dire che tra le macerie ideologiche del nostro tempo, in assenza di legami solidi che tengano uniti i popoli, l’unica ribellione possibile è quella dell’individuo contro la modernità. La quale sotto la maschera della Storia, si impone come prefigurazione del destino di noi tutti. Il libero esercizio di qualunque magistero intellettuale, verrebbe da dire, si misura esclusivamente sulla capacità di opporsi a tale moto, andando contro la forza d’urto di una volontà collettiva inesorabile. Per questo motivo, incappati nella figura di Alfredo Panzini (1863-1939), grazie al volume curato da Claudio Monti che raccoglie una parte significativa della sua produzione giornalistica, Alfredo Panzini: Fantasmi e persone. Un intellettuale controcorrente nel secolo della terza pagina, Biblion Edizioni, ne abbiamo riscoperto tutto il valore.

Nato a Senigallia ma cresciuto a Rimini, studente di Lettere moderne a Bologna con Carducci, scrittore, insegnante (per lunghi anni al Mamiani di Roma), accademico d’Italia nel ’29, antimoderno feroce e dissidente, “il Panzini”, come era solito chiamarlo il suo amico Giuseppe Prezzolini, è un autore tanto misconosciuto quanto sorprendente. Passato alla storia come reazionario in odore di fascismo (anche per la firma apposta al Manifesto degli intellettuali del 1925) di motivi per condannarlo all’oblio, quelli che definiscono il canone, ne trovarono a sufficienza. Cattolico fervente, tradizionalista convinto, sostenitore dei valori della famiglia, allergico ai rivolgimenti del costume, specie quelli femminili, e per questo bollato come misogino (ebbe per moglie una pittrice, Clelia Gabrielli, e per amiche due femministe convinte, Margherita Sarfatti e Sibilla Aleramo, pertanto se ne potrebbe discutere), Panzini può ben figurare come modello di un mondo che doveva esser spazzato via. Da cui, la damnatio memoriae che ne ha fatto un autore totalmente rimosso.

A distanza di anni, con buona pace degli oppositori, tuttavia possiamo concludere che mai etichette furono più semplicistiche quanto quelle utilizzate per definire l’autore romagnolo.

Dai carteggi con Arnoldo Mondadori e i direttori del Corriere della Sera Albertini, Ojetti, Maffi e Borrelli; all’incontro con Mircea Eliade e il rapporto con Mussolini e il fascismo; fino alla raccolta completa della collaborazione a Il Resto del Carlino: il libro, arricchito dalla prefazione di Alessandro Scarsella, rappresenta il primo, imprescindibile tassello di una nuova stagione della critica panziniana.

Tra le tante inesattezze circolate sul conto dell’autore, quella sulla presunta vicinanza con il regime fascista è forse la più ingiusta, per molteplici ragioni. Innanzitutto, la riforma della scuola gentiliana, di cui non condivide diversi aspetti, tra cui «l’enorme corpo burocratico» e l’allontanamento dalla tradizione cattolica, «in omaggio al pensiero laico», così come dello stesso Giovanni Gentile critica l’impianto filosofico e la concezione idealistica del «Dio inoggettivabile». Un altro dei motivi per cui non si può considerare Panzini un intellettuale fascista è l’amicizia con figure quali Marino Moretti, Mario Missiroli, Angelo Fortunato Formiggini e Aldo Spallicci, tutti accomunati, seppur in modi e contesti diversi, da una genuina ostilità verso il governo di Mussolini. Per non tacere della censura cui furono sottoposti alcuni articoli apparsi sul Corriere della Sera nel ’27 (che confluiranno ne La Lanterna di Diogene, il suo libro più noto), considerati troppo poco patriottici; e Diario sentimentale, resoconto sulla Prima guerra mondiale ritenuto così ostile alla Germania, con la quale frattanto si era stipulato il nefando Patto d’acciaio, da vietarne la ristampa. Infine, in una lettera a Prezzolini, punzecchiato proprio sul fascismo risponde:

«Io non sono fascista, perché il fascismo è socialismo, né può essere altrimenti».

E anche quando riconosce a Mussolini di aver ristabilito l’ordine in seguito alle contestazioni, gli scioperi, la violenza del biennio rosso, tuttavia non ne condividerà mai il “vitalismo”, né l’esaltazione dello Stato, che danneggia i corpi intermedi, e della civiltà industriale, cui oppone l’integrità di quella agricola.

Un conservatore di fine Ottocento, dunque: questo è Alfredo Panzini. Nondimeno, abilmente a suo agio nella frequentazione dei media (non mancheranno le esperienze con il cinema e la radio) che all’inizio del secolo irrompono sulla scena e modificano linguaggio, pubblico, mercato. La crescita tumultuosa della stampa gli consente di avere grande visibilità e raggiungere un numero di lettori cha con la sola produzione libraria non avrebbe mai intercettato. È la terza pagina il luogo per esprimere al meglio il proprio talento: l’attività sulle principali testate nazionali, periodici e quotidiani, in tal senso, testimonia di una presenza intensa e duratura nell’ambito del giornalismo culturale, facendo di Panzini un autore conteso dalle più importanti realtà editoriali dell’epoca. Per quanto nei confronti del grande pubblico (ovvero l’irruzione delle masse nella storia) non avrà mai particolare simpatia.

Il campione degli articoli raccolti da Claudio Monti, come già accennato, riguarda l’esperienza significativa al Resto del Carlino (dal 1912 al 1924) che, nel momento in cui l’autore viene sollecitato a collaborarvi, è diretto da Mario Missiroli e ospita firme di assoluto livello quali Giorgio Sorel, Giovanni Papini, Ernesto Bonaiuti, Ardengo Soffici ed Emilio Cecchi, per dirne solo alcuni. Il repertorio dei temi è assai ampio: novelle, elzeviri, ritratti di personaggi storici, racconti di viaggio; lo stesso si può dire degli argomenti: dalla politica (la guerra, la Germania e la Russia comunista), al costume (la scuola, le donne, il matrimonio, la nascente società dei consumi), fino alle degenerazioni della democrazia che, in un certo senso, prefigurano l’avvento del fascismo. Tra le battaglie che più accalorano Panzini vi è quella contro il fisco, segno evidente di uno Stato illiberale capace solo di angariare il povero cittadino («il Fisco che porta via ciò che è facilmente afferibile, e non per necessità supreme ma per rimediare al vuoto di amministrazioni insipienti o colpevoli»). Oppure quella combattuta in punta di penna per promuovere la lingua italiana, senza per questo disprezzare la peculiarità dei dialetti locali («[…] essi sono più antichi della lingua nazionale, la quale da essi proviene; e perché sono come la forza, la maniera, la conservazione della lingua italiana»). 

A tal proposito, vale la pena menzionare il suo Dizionario Moderno, vocabolario anarchico di tutte le parole che andava raccogliendo, molte di esse anche grazie alla frequentazione della stampa, la quale era, anzitutto, terreno di contaminazione linguistica e cerniera tra antico e moderno. Un amico, il critico del Corriere Piero Pancrazi, in occasione della sua morte, giunta qualche mese prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, lo definirà per questa natura bifronte «classicista tutto percorso e inquieto di sensibilità moderna», che forse è la vera cifra della biografia di Panzini. Una contraddizione solo apparente, in realtà più comune e diffusa di quanto si pensi, che fa parte dei tanti ribelli a disagio nel vestire fino in fondo i panni del presente. Lo stesso disagio che si prova dalle parti di Bellaria, ad esempio, dove la “casa rossa” in cui Panzini trascorreva le estati è rimasta quella di sempre, simile all’Arcadia del mito, ma i binari su di un lato dell’edificio per gli spostamenti interprovinciali suggeriscono quanto certi contrasti della Modernità siano arrivati pure lì.

Se anche il vicino Adriatico e le colline della Romagna celano il proprio volto, qualcosa ci dice che l’autore sapesse già come sarebbe andata a finire. Quando confessa allo storico rumeno Mircea Eliade, in visita a Roma, «Volevo rendere il mondo migliore», prende forma l’utopia della conservazione, e lo slancio non potrebbe essere più ardito di così.

Alberto Scuderi

Gruppo MAGOG