30 Maggio 2019

“Lasciate che qualcuno si prenda cura del lato avventuroso che è in ciascuno di noi… scrivo per dimostrare che il romanzo non morirà mai”: dialogo con Gianluca Barbera

Per me è un esempio di dedizione, di ascetismo nella cruna dei propri regni immaginari. Gianluca Barbera, dico, ti abbraccia con la foga di un orso polare, è corrosivo come Diogene e fragoroso come Falstaff, inafferrabile come l’Orson Welles di F for Fake. Di per sé, è un ‘personaggio’ egli stesso e un giorno, a sua insaputa, scriverò il romanzo che lo dipinga degnamente – ci vorrebbe l’acido di Swift e la torbida pietà di Dickens – dando sfogo a tutti gli aneddoti che mi ha raccontato e a tutte le grottesche audacie che gli ho visto compiere. Piuttosto, ho avuto una certa fortuna: ho visto la nascita e la crescita di uno scrittore ovidiano e monolitico. Voglio dire: da La truffa come una delle belle arti (2016) a Marco Polo (Castelvecchi, 2019) è come se uno avesse fatto il salto triplo tra equatore e Polo Sud. In tre anni Barbera ha realizzato quello che uno scrittore compie in trenta. Ha trovato una trama, ha studiato una strategia narrativa, ha esplorato un linguaggio, nell’Amazzonia verbale, trovando il proprio stile, il proprio canto. Ha trovato il solido platonico della ‘felicità’ narrativa, e non è poco, attraverso una disciplina totale (ergo: fatica, fatica, fatica). Di Marco Polo, per dire, avrò letto almeno tre versioni: in alcune era il ‘meraviglioso’ a zittire tutto il resto, in altre era la perizia nell’istoriare i dialoghi, magmatici, in altre ancora era il bastimento delle attese, delle scorciatoie enigmatiche, dello stupore bimbo a prevalere. Intendo: Barbera ha giocato con pesi, zavorre, bilance, s’è messo in sintonia con la propria stella, l’ha accudita, l’ha accettata e l’ha seguita. Senza gravità da bolide intellettualoide (lui, per altro, che in filosofia, mentre sbrana una ‘chianina’, ti spacca il sillogismo in quattro, ti vince con rapinosa astuzia retorica). Di questo libro apparentemente senza tempo – ma l’epigrafe di Michel Foucault funge da passepartout esegetico – narrato all’ombra di una yurta, secoli fa, a cavallo di una carovana veneziana nel Rinascimento, tra le truppe di Garibaldi e le retrovie di Napoleone o alla foce del Big Ben, in un Ottocento velato da fumi londinesi simili a una sindone, amo i momenti in cui tutto si fa intangibile, inavvertito, narrazione affidata allo specchio, arazzo da cui crolla l’ordito capitale, assembramento di castelli su un lago, che svaniscono appena appare il luccio dalla bocca infinita. “All’improvviso un uomo si fece avanti e mi puntò il dito contro. Tu non sei Marco Polo, disse. Lo fissai negli occhi, sentendomi avvampare. Nel suo sguardo vi era un che d’inconsolabile”. Questi istanti, amo, perché raccontare una storia significa dare concretezza a un mondo ma anche vanificarlo, basta una parola pronunciata con ghigno, un aggettivo di sbieco a sbiellare la gola. Qui, dunque, è convocato il pastore errante che racconta epopee omeriche fronteggiando il tramonto e l’imperativo di Borges, per cui ogni cosa non è duplice ma decuplicata dai nostri desideri. A chi mi chiede del romanzo di Barbera, dico: è come se Long John Silver avesse scritto Il Milione. Questo libro, in effetti, non va letto – a questo libro bisogna dedicare l’abbandono, su di esso occorre imbarcarsi. (d.b.)

Da Magellano a Marco Polo: al di là dei personaggi, c’è una evidente diversità di linguaggio. Hai perfezionato una tua lingua ‘all’avventura’, o su ogni personaggio avventi un linguaggio diverso, ti avvali di una immaginazione diversa?

Tra pensiero e parole corre una distanza che cerchiamo di colmare. La lingua di Marco Polo è una evoluzione di quella di Magellano. Una tappa di avvicinamento a un ideale di perfezione mai realizzabile. Scrivere romanzi equivale a inventare mondi, escogitare linguaggi, pur senza tradire i propri caratteri. Ho cominciato con un romanzo di pensiero (Finis mundi) per approdare a romanzi dove il pensiero è sciolto nell’azione. C’è, ma non si vede. Però lo si avverte.

Fin dalla copertina si è sull’avviso: il romanzo è “un inno all’arte del raccontare”. In questo, mi pare, giace già una poetica, una idea precisa di letteratura, in discordia, credo, con chi predica la morte del romanzo tradizionale. Denunciala.

Protagonista è l’antica e nobile arte del raccontare, di cui Marco Polo è la celebrazione. Un’arte connaturata nell’uomo. Per replicare a chi predica la morte del romanzo tradizionale, l’impossibilità di continuare a raccontare storie, si è costretti a scomodare la favola della volpe e dell’uva. Chi non può avere, disprezza. Quando a Samuel Johnson fu chiesto che ne pensasse della teoria di Berkeley, in base alla quale il mondo esisterebbe solo nella mente del soggetto, per confutarla gli bastò sferrare un calcio a una pietra. Mentre si sbraita che il romanzo tradizionale è finito, arrivano libri come Cent’anni di solitudine, La Storia, Il nome della rosa, La versione di Barney, Pastorale americana, Le particelle elementari, Le correzioni e spazzano via ogni refolo polemico. È la realtà a incaricarsi di fare piazza pulita. Fin dalle sue origini il romanzo è “narrazione di vicende familiari o di un singolo individuo, su uno sfondo storico o di fantasia” (Treccani). Questa forma d’arte ha conosciuto evoluzioni e specie nell’ultimo secolo il termine è stato associato a opere sperimentali di ogni sorta. Ma la sua natura originaria non può essere elusa. Non si capisce la ragione di tanto dogmatismo. L’arte e il pensiero, per loro natura, sono creatività, pluralismo, biodiversità. Tutte le forme attraverso cui si esprime il romanzo hanno pari dignità: ciò che conta è la caratura dell’opera.

In “Magellano” giocavi a fare il nome di Salgari (che a mio avviso poco c’entrava); in “Marco Polo”, piuttosto, vista la messe di riferimenti culturali e la spigliatezza narrativa, ti sfotto nominando Umberto Eco. Tu che dici?

Sono gli altri a dire chi siamo, anche se può non piacere. Perciò, se fai il nome di Umberto Eco, deve esserci un fondamento. Se il riferimento a Salgàri non ti persuade, diciamo che mi pongo tra Salgàri e Stevenson, con qualche traccia di Borges. Il mio Marco Polo è più Le mille e una notte che Il Milione, con rimandi alle atmosfere di Potocki (Manoscritto trovato a Saragozza). La “spigliatezza narrativa” fa parte dell’amore per l’azzardo, per l’avventura.

Torno alla mole di ‘dati’. Nel romanzo ci sono minuziose descrizioni di popoli scomparsi, il Prete Gianni, Ibn Battuta, la corte dei khan, il prodigio e il concreto. Come lavori? Quali sono le tue fonti e come s’innervano nel libro senza alterare la felicità della narrazione?

Volevo scrivere un libro da cui balzassero fuori folletti e spiritelli, come da una scatola magica. Marco Polo è un libro imbevuto di mistero, prodigi, avventure della mente. Una girandola di storie e incantamenti. Tra le fonti, oltre al Milione e alle Mille e una notte, Odorico da Pordenone, Ibn Battuta, Guglielmo di Rubruck, Ludovico de Varthema, Viktor Sklovskij, Attilio Brilli. Ma soprattutto John Mandeville, autore quasi coevo di Marco Polo, i cui Viaggi rivaleggiarono con Il Milione. Con la differenza che Mandeville non si era mai mosso di casa inventandosi tutto di sana pianta. Quanto al metodo: prendo una vicenda storica, un mito, e li sciolgo dentro una storia individuale, un punto di vista soggettivo. La letteratura è la lingua della soggettività, non dell’oggettività. Queste parole si adattano a un saggio: “Amundsen raggiunse il Polo Sud il 14 dicembre 1911, dopo un viaggio tra i ghiacci durato cinquantasei giorni, su una slitta trainata da cani”. Queste altre ci introducono nei territori del romanzo: “Quella mattina, di buon’ora, Amundsen, balzò sulla slitta e spronò i cani come mai aveva fatto prima: sentendo la meta avvicinarsi, una smania incontenibile si era impossessata di lui”.

Ti si potrebbe accusare di ‘disimpegno’, di costruire narrazioni sulle nuvole mentre il mondo arde: le tue, in effetti, non sono neppure profezie o distopie. Eppure, s’intravede, a tratti, nel cerchio di alcune frasi, una certa perizia etica (ad esempio, l’allusione sul senso della finzione, oppure sull’evanescenza effervescente della vita). Cosa rispondi?

Il mondo arde da sempre. Sono in tanti a occuparsi del quotidiano. Lasciate che qualcuno coltivi il giardino dell’immaginazione, si prenda cura del lato avventuroso che è in ciascuno di noi. Anche in questo sta la dimensione etica dei miei libri. Tuttavia, eccome se mi occupo del presente. Quel che faccio è tralasciare l’effimero. Magellano è un romanzo sul tradimento. Marco Polo sul potere della parola e sul confine – labile – tra vero e falso. Se mi occupo così spesso di temi quali l’inganno, la truffa, l’impostura, è perché non posso fare a meno di registrare come alla base dei comportamenti umani vi sia l’insincerità.

In perpetuo estro creativo, so che hai terminato un romanzo sulla vita di Jessie James e stai completando una vasta raccolta di racconti ‘d’avventura’ ambientati in diverse ere storiche (alcuni sono già usciti su questo e altri fogli). Che cosa ti anima a questa ossessione quasi wagneriana nella scrittura?

Forse cerco di recuperare il tempo perduto. Sarebbe una storia lunga da raccontare. È come se avessi perso dieci anni. Un po’ come accaduto a Roy Hobbs, protagonista de Il migliore di Bernard Malamud. Gli scrittori sono persone ambiziose. E io vado in cerca della chimerica parola definitiva.

Domanda intima. Chi è la “Cecilia” a cui dedichi il libro?

Mia moglie. Non le avevo mai dedicato un libro e di questo si era dispiaciuta. No so perché non lo avessi fatto. Forse lo ritenevo un atto di presunzione, non esente da goffaggine. Era giunto il momento di rimediare. Quale occasione migliore di questa, dal momento che Marco Polo, tra quelli che ho scritto, è il libro che sento più mio?

Domanda vaga. Dimmi il libro e l’incontro che hanno, in qualche modo, formato la tua vita da scrittore.

Il primo romanzo che ho letto è stato Barra tutta a dritta di Gianni Caratelli. Me lo assegnò la maestra, in terza elementare, se ben ricordo. Chissà perché scelse proprio quel libro. Fu un segno del destino. Si trattava di un libro di mare. Le avventure di uno studente che si imbarca come mozzo su una nave mercantile in procinto di salpare per un giro intorno al mondo. Quando con Magellano è arrivato il successo, non ho potuto fare a meno di pensare a come tutto è cominciato. Ho rintracciato quel romanzo su un sito di libri usati e l’ho acquistato. Proprio la stessa edizione. È stata un’emozione aprire il pacco e ritrovarmelo tra le mani. Non era come lo ricordavo; ma rileggerlo mi ha procurato dei brividi. Naturalmente gli autori che mi hanno influenzato sono altri, ma quel libro è stato un percorso iniziatico.

Gruppo MAGOG