Ciò che è beneficio per alcuni è venefico per altri. Non si può donare a Tizio senza derubare Caio.
(Thomas More, Utopia, 1516)
Secondo Thomas More, l’umanista e politico inglese – fatto decapitare da Enrico VIII a Tower Hill il 6 luglio 1535 – che mise radicalmente in discussione le strutture politico-economiche del suo tempo, era proprio il diritto individuale alla proprietà la causa principale della degenerazione e della miseria della società inglese. Nell’immaginaria isola-repubblica di Utopia, in cui racconta il viaggio di Raphael Hythlodaeus, sono proprio i concetti di mio e tuo che perdono significato, così come quello di denaro. Gli abitanti di Utopia non conoscono l’ineguaglianza, l’ozio, la discordia, perché non esiste la proprietà privata e non si usa il denaro come misura di ogni altra cosa. Non v’è distinzione fra lavoro manuale e intellettuale, sono banditi lo spreco e i consumi eccessivi, e le ricreazioni intellettuali sono garantite come ricompensa del lavoro produttivo, per sciogliere l’anima dalla servitù del corpo e coltivare lo spirito. In questo stava la vera felicità.
Queste condizioni di società “perfetta”, basata su una struttura agricola che fornisce i beni utili per la manifattura e l’artigianato, dove si produce solo per il consumo secondo le necessità e non per il mercato, richiamano alla mente quelle raccontate nel romanzo utopico di un semisconosciuto autore inglese, Robert D. Braine, che in Messages from Mars, By the Aid of the Telescope Plant, uscito nel 1892, descrive il mondo ideale incontrato sul pianeta Marte (denominato Oron) costruendolo per negazione e sottrazione:
“Gli Oroniti non hanno denaro – non hanno banche, né rapinatori – né cassieri di banca latitanti – né azioni – né obbligazioni – né società per azioni – e non ci sono nemmeno ferrovie, navi, marinai, e neanche città – niente porti, niente barche o canali, nessun ponte, nessun cavallo, niente vagoni”.
Troviamo questo riferimento nel dettagliatissimo saggio di Alessandra Calanchi, fino a dicembre 2023 docente di Letteratura e Cultura angloamericana all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, intitolato Trent’anni su Marte. Contro-narrazioni dell’invasione aliena (1880-1911), pubblicato da Mimesis, dove viene riportato alla luce un nucleo di romanzi utopici americani usciti fra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, quasi tutti incentrati sul racconto di società-modello immaginate sul Pianeta Rosso, in cui i Marziani sono esseri aperti e gentili, simili agli umani ma d’intelligenza superiore, con strutture sociali e tecnologiche molto avanzate, generosi nel dispensare consigli su come vivere meglio ed evitare nel nostro pianeta una deriva destruens che già all’epoca sembrava prefigurarsi. Sul testo di Robert Braine, Calanchi osserva:
“È curioso che un inglese, e non un americano, si impegni con tanta cura nella puntuale decostruzione del sistema americano capitalistico (non vi sono né denaro né banche) passando attraverso lo smantellamento della mitologia western (il cavallo, la ferrovia) e dei simboli della metropoli (i ponti, le navi, i moli, le città, i canali). Su Marte ‘science and technology have solved all problems, and people now benefit from the discovery of the Elixir of Life’”.
Per affrontare questo tema si deve partire da Percival Lowell, uomo d’affari, matematico e astronomo americano, che fonda un osservatorio a Flagstaff, Arizona, e osserva il Pianeta Rosso per quindici anni. Il suo primo trattato, Mars, esce nel 1895; il secondo trattato, Mars and Its Canals, nel 1906, seguito da Mars as the Abode of Life del 1908. Lowell, convinto che i canali di Marte fossero serviti a una vita intelligente per combattere la siccità convogliando le acque dai poli ghiacciati, si preoccupava – con grande anticipo – del degrado ambientale della Terra e dell’inquinamento del cielo, determinati dal comportamento dissennato dell’uomo, che rischiava di portare il nostro pianeta a una “Mars-like dessication”. Un richiamo ante litteram a quello che oggi chiamiamo Antropocene, l’era geologica attuale, determinata dai mutamenti irreversibili portati dalle attività umane all’ambiente naturale. Il grande interesse americano per il Pianeta Rosso si sviluppò in questo contesto, alimentando la cosiddetta “Marsmania” a cavallo dei due secoli. Il fatto che i canali di Marte somigliassero al Grand Canyon e la sua superficie rocciosa alle Rocky Mountains non fece che sollecitare l’immaginazione, a cui contribuì il celebre scienziato croato-statunitense Nikola Tesla, che nel 1900 affermò di aver ricevuto un’anomala “trasmissione elettrica” nel suo laboratorio tra le montagne del Colorado. Il presunto messaggio, concretizzato in un “uno, due tre”, lo convinse che provenisse da Marte, dimostrando non solo che i marziani conoscevano la matematica, ma che fosse necessaria una risposta da parte dei Terrestri.
In questo saggio Alessandra Calanchi prende in esame più di venti romanzi utopici otto-novecenteschi che raccontano di viaggi – materiali o psichici o medianici – sul pianeta Marte, o di esseri marziani a noi somiglianti che vengono a farci visita per istruirci e per condividere le reciproche esperienze. Nulla a che vedere con l’immaginario fantascientifico a cui siamo abituati, fatto – salve le dovute eccezioni – di invasioni aliene e guerre inter-galattiche, dove gli extraterrestri tendono a sopraffarci in modi diversi, che vanno dall’aggressione con avanzate armi di distruzione fino alla sostituzione dei nostri corpi. Il primo di questi romanzi è del 1880, l’autore Henry A. Gaston, il titolo Mars Revealed, or Seven Days in the Spirit Worlds. Containing an Account of the Spirit’s Trip to Mars; etc. L’ultimo che troviamo nel trentennio considerato uscì a puntate nel 1911: Ralph124C 41+. A Romance of the Year 2660, del geniale Hugo Gernsback, una specie di icona novecentesca del genere fantascientifico: inventore (presentò un’ottantina di brevetti), scrittore e ideatore della celebre rivista newyorchese “Amazing Stories”.
Per chiarire i diversi aspetti di questa particolare e variegata produzione letteraria, rivelatrice dell’immaginario americano di un secolo fa, ci siamo rivolti alla professoressa Calanchi, seguendo la sua scansione dei temi legati a queste narrazioni: il viaggio, l’incontro con l’altro, le strutture sociali, i paesaggi, l’immaginario tecnologico.
Come lei osserva, in queste storie il viaggio è l’esperienza di attraversamento per raggiungere l’utopia, per conoscerla e farla propria: più precisamente lo svolgimento di un progetto, che sia l’esplorazione o il pellegrinaggio o il viaggio della salute. Nella cultura angloamericana il viaggio è fondante due volte: prima nell’approdo via mare nel Nuovo Mondo in epoca puritana, poi nella conquista della Frontiera, il West, un’epoca – divenuta epopea e mito – che giunge alla fine proprio nel periodo di cui stiamo parlando. Vediamo che in questi romanzi il viaggio viene declinato in modi molto diversi: o con mezzi tecnologici, o con “trasmigrazioni” medianiche, o con puri viaggi mentali, o con uno sdoppiamento d’immagine come in The Man From Mars: His Moral, Politics and Religion di William Simpson, uscito nel 1891, in cui il marziano che visita la terra per incontrare un umano rimane di fatto su Marte, mentre è la sua immagine a “viaggiare” verso la Terra per ricomporsi lì come un ologramma, ovvero la sua “spiritual counterpart” (oggi diremmo “il suo avatar”). Quindi anche il teletrasporto, o qualcosa di simile, è stato anticipato, così come i viaggi psichici, che negli anni ruggenti del secondo Novecento sono diventati psichedelici. Nel romanzo del 1903 The Certainty of a Future Life in Mars. Being the Posthumous Papers of Bradford Torrey Todd di Louis Pope Gratacap (cognome che fa sorridere, alla luce della nostra nomenclatura), oltre alla scienza, spiritualità, religione, spiritismo troviamo addirittura una sorta di reincarnazione a livello interplanetario. Insomma raggiungere Marte, o farsene raggiungere, diventava imperativo, poco importava come farlo.
Mi piace l’immagine dell’avatar. È molto adatta e ci fa capire quanta modernità ci sia in questo romanzo dimenticato. E anche il teletrasporto, in fondo, è una versione laica della seduta spiritica, e i fisici prima o poi lo renderanno possibile. Siamo circondati da tanta tecnologia che non ci accorgiamo quanto questa sia stata inventata dagli scrittori molto prima che dagli ingegneri informatici!
L’incontro con l’alieno narrato in questi romanzi americani fa sorgere degli interrogativi. Nel 1897 lo scrittore britannico Herbert George Wells pubblica a puntate sul “Pearson’s Magazine” La guerra dei mondi, la celeberrima storia di invasione aliena che divenne matrice del genere fantascientifico come lo conosciamo. Una serie di esplosioni a intervalli regolari viene avvistata sul pianeta Marte, e successivamente enormi capsule piombano sulla terra conficcandosi in crateri. Da lì escono i marziani, tutt’altro che umani, che fanno terra bruciata con potenti armi di distruzione. Una minaccia del genere era inconcepibile fino a quel momento: “Alla fine del XIX secolo nessuno avrebbe creduto che le cose della Terra fossero osservate acutamente e attentamente da intelligenze superiori a quelle degli uomini…” si legge nel primo capitolo. La differenza fra questa visione apocalittica – europea – e quella proposta dagli autori americani in quegli stessi anni è estrema, polarmente incompatibile. Cosa può significare? Che l’autore europeo poteva concepire più o meno consciamente l’eventualità di una guerra “globale” con armi pesantissime – si vedano i futuri macelli della Grande Guerra – mentre l’americano/l’americana di quegli anni, entusiasta per l’ipotesi di apertura “cooperante” a nuovi mondi, non riusciva a contemplare questo scenario?
È una bella domanda, più idonea a un/a politologo/a o a un/a sociologo/a che a una letterata. C’è del vero in quello che dice, ma lo è solo per un certo periodo, perché poi l’idea dell’invasione prevale anche negli Stati Uniti, anzi diventa la “norma” (pensiamo alla guerra fredda, quando i marziani erano surrogati dei comunisti). Questi romanzi pre-fantascientifici raccolgono un mood che si definisce in termini di post-frontiera ma che interessa solo quello strato di persone (intellettuali, scienziati, ma anche gente comune, e molte donne), non numerosi, evidentemente, che si preoccupano più dei disastri che l’uomo sta realmente creando sulla terra che di ipotetiche minacce aliene. Ma questo non può diventare mainstream, perché “the show must go on”, e lo show è la politica imperialista, la colonizzazione, lo spostamento della frontiera nello spazio, ecc.
Vorrei aggiungere una cosa – le sue domande sono veramente di altissima qualità … lei dimostra una competenza tale da mettermi quasi in soggezione!
Vorrà scherzare, professoressa: sono interrogativi che escono proprio dalla ricchezza di dettagli, riferimenti e interrelazioni che lei offre nel suo studio. E uno dei temi portanti di questi romances, come lei correttamente li definisce, è l’organizzazione sociale marziana. È qui che vediamo quanto sia avanzato quel mondo immaginario, pur variamente declinato, rispetto alle “miserie” terrestri, a cominciare dalla parità di genere, dalla libertà degli individui. Un esempio rappresentativo è offerto da A Cityless and Countryless World di Henry Olerich, del 1893, dove già nella prefazione viene lodato con dovizia il progresso di quel pianeta rispetto al nostro; abbiamo “uno straniero dal fisico straordinario” che bussa alla porta di casa Unwin e viene accolto come ospite, per conversare amabilmente e parlare del suo pianeta di provenienza, Marte, indignandosi per le condizioni di sfruttamento delle mogli e dei figli che vede sulla Terra, e domandarsi “Perché mai una donna dovrebbe essere economicamente dipendente da un uomo; perché mai le donne non dovrebbero godere degli stessi privilegi degli uomini, in ogni campo”. Un tema fondante che vediamo ancora discutere dopo un secolo, come se poco fosse cambiato. Non solo: su Marte non esistono la casa e la famiglia in senso tradizionale, e la home concepita come custodia del nucleo diventa house, edificio in cui vive una comunità di persone che gode dei migliori comfort e mezzi di comunicazione, da cui la razza umana è ancora distante. Ci chiediamo con quale orrore una società come quella britannica, ad esempio – in quanto parente-matrice –, potesse vedere questi innovativi voli dell’immaginazione.
Questi romanzi sono una vera fucina di problematizzazione e innovazione, sia in termini di politiche di genere, sia in termini di quella che oggi chiamiamo “equitability”. Gli autori e le autrici usano Marte come una metafora di un mondo che può insegnarci a essere migliori, accettando per esempio la diversità, e riconoscendo a tutti gli stessi diritti.
Quanto ai paesaggi, come fa notare, questi romanzi utopici descrivono luoghi che non suscitano affatto un senso di straniamento, o displacement, come vediamo nella fantascienza successiva, ma al contrario sono accoglienti, talvolta in modo quasi mistico, come una nuova Frontiera che in un certo senso risarcisce della fine dell’epopea western. E poi, in alcuni di questi testi abbiamo come protagonista la scienza, nella persona di Thomas Alva Edison e addirittura di Nikola Tesla, il “gran khan” del progresso tecnologico del tempo. Edison’s Conquest of Mars dell’astronomo Garrett Putnam Serviss, uscito nel 1898, è un sequel di The War of The Worlds di Herbert George Wells, dove i marziani – diversamente dalle soluzioni idilliache che abbiamo visto – riprendono l’assalto alla Terra, ma il grande Edison riesce ad approntare gli strumenti e le armi per andare a combatterli sul loro terreno. “Perché dovremmo aspettare? Perché dovremmo correre il rischio di vedere le nostre città distrutte e le nostre terre devastate una seconda volta? Andiamo su Marte. Abbiamo i mezzi”. Dunque, abbiamo il contrattacco che porterebbe a una nuova colonizzazione.
Sì, Edison parla come Elon Musk. Ma in questo romanzo è animato da un autentico progetto di miglioramento sociale oltre che tecnologico. Chi oggi vuole andare su Marte non dimostra alcun rispetto dell’ambiente, fa scelte economiche disastrose e non ha certamente a cuore il destino dell’umanità – semmai di una minima parte di essa. Tutto il contrario delle nostre utopie.
Paolo Ferrucci