18 Giugno 2019

Vacanze romane con Sylvia Iparraguirre. L’icona della letteratura argentina fa un giro alla “Sapienza”, mi parla di Borges, si sdraia sul petto di Walt Whitman e dice, “le parole sono pericolose”

Tra poco compirà 71 anni, è stata una ragazza affascinante – lo intuisco dalle fotografie che la ritraggono con il suo professore di Università, Jorge Luis Borges – è una signora che continua a conturbare: autonoma, felice, dall’intelligenza rigorosa. Di Roma la affascinano i colori, così carichi, gli alberi, che le ricordano i quadri del Rinascimento, a pranzo, poco dopo, mi dirà, con docile fierezza, “sono sempre stata una donna indipendente, questo per me è importante”. Dirà anche un’altra cosa, su cui concordiamo, con certezza d’acciaio, “le parole sono pericolose”. Per me, Roma resta un’Idra: mi si attorciglia a spirale, spiro, non mi ispira.

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Una vasta fetta della letteratura argentina contemporanea giace sulle spalle di questa signora minuta e decisa, Sylvia Iparraguirre. La sua storia ho cercato di raccontarla in un ciclo di interviste pubblicate su Pangea (qui, qui e qui). La incontro per la prima volta, insieme alla professoressa Mercedes Ariza, che mi aiuta (il mio inglese è portuale, lo spagnolo non lo conosco ma amo ascoltarlo). “Molto presto nella mia vita (la frase è di Marguerite Duras) ho compreso, non con la ragione ma come si sanno le cose con naturalezza, che ho vissuto due vite: una visibile e un’altra invisibile. La vita invisibile cominciava e terminava con la lettura. In essa, convenivano balene bianche, castelli di Scozia, mummie e piramidi, i cavalieri di re Artù, un uomo naufragato in un’isola deserta. Non è, tuttavia, un mondo che si conclude nell’immaginario infantile. L’universo parallelo della vita invisibile è continuato nel tempo e giunge a oggi come uno spazio dove prendono forma e relazione personaggi, paesaggi, idee. Un luogo mitico, ideale, speculativo che ha forgiato una immagine mutevole di me e che si è esteso ed è divenuto tanto più complesso quanto più sono cresciuta come lettore”. Queste sono le frasi d’esordio de La vida invisible, l’ultimo libro di Sylvia Iparraguirre, pubblicato per Ampersand nel 2018, una autobiografia per libri e per incontri. Nel libro, Sylvia parla del suo rapporto con Borges, con Cortázar, “che uomo dolcissimo, è stato ospite a casa nostra, più di una volta”. Alla ‘Sapienza’, più tardi, parlerà di cosa significa “dirigere una rivista letteraria e fare resistenza culturale durante la dittatura militare”. La rivista, El Ornitorrinco fu fondata da Sylvia insieme al marito, Abelardo Castillo, e a Liliana Heker. Castillo, più grande di lei di 13 anni, morto due anni fa, è stato tra i grandi ‘movimentatori’ della cultura argentina del secondo Novecento. Con dedizione, Sylvia sta curando l’edizione dei diari. “Non era un uomo facile. Ci siamo sposati, abbiamo deciso di non avere figli, abbiamo passato una vita destinata alla scrittura. Ci dividevamo in due stanze, lui lavorava in una, aveva bisogno di musica, io in un’altra, nel silenzio. Non avevamo orari. Ci siamo amati, molto. Ma non ci siamo concessi nulla sul piano letterario, eravamo feroci, l’uno con i testi dell’altro”. Sylvia tiene gli occhiali da sole. La luce le dà fastidio, dice. La luce come una turba di lucertole, penso. Penso che abbia amato e sofferto, Sylvia. E tradotto la vita nella scrittura.

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Vent’anni fa Sylvia scrive il libro di maggior successo, La terra del fuoco. Nel 2001 il libro esce per Einaudi: complesso, alto, vigoroso. Come una appendice al romanzo, scrive Tierra del Fuego: una biografía del fin del mundo. In Italia questa scrittrice di genio è pubblicata da Crocetti (Luna Park) e da L’Asino d’Oro (Il ragazzo dai seni di gomma, Sotto questo cielo). Mi domando perché non sia stata invitata alla scorsa sessione del Salone del Libro di Torino, intitolato a Cortázar, insieme a Liliana Heker, per parlare di letteratura durante un regime canino, caino. Troppo lavoro, troppa fatica, forse. Mi regala un libro, Del día y de la noche, pubblicato in Argentina nel 2015. Piccole prose liriche. Una, Reclinando, frente a un río, ha per protagonista un dolcissimo Walt Whitman. Me la faccio leggere. “Celebro me stesso, dice il meraviglioso Walt Whitman, sdraiato tranquillamente sulla collina verde dove è sempre primavera. Con la sua ruvida camicia da contadino e il cappello di paglia, Walt, chinato, appollaiato su un gomito, mira l’Hudson mordendo un filo d’erba nel sole pomeridiano. Una celebrazione così innocente, così adamiticamente maschia… Il paesaggio che guarda lo commuove profondamente: una grande nazione si estende ai suoi piedi, con fiumi, montagne, uomini occupati e macchine poderose. Guarda, Walt Whitman, e pensa come tutto fluisca in armonia con quel punto, all’orizzonte: il futuro… Con quale naturalezza celebra e canta ciò che contiene tutto. Mi invade il desiderio intenso di chinarmi sul suo petto, sulla sua barba bianca mossa dal vento e lì, al suo fianco, cantarmi e celebrarmi. Ma è difficile. Bisognerebbe avere avuto un commercio molto prolungato e libero con il mondo, come lui, una fede indubitabile nel futuro per poter, solo in quel momento, tentare il canto”.

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L’autore dell’articolo insieme a Sylvia Iparraguirre, a Roma. In mezzo, Borges…

Sylvia mi spiega come un semplice pronome (voi al posto di lei), nella frase finale della Terra del fuoco, “una traduzione altrimenti impeccabile”, abbia alterato l’intero senso del romanzo. Ci sarebbe da scriverne un racconto borgesiano, le dico. Sylvia, icona della letteratura argentina, ride. Poi mi fa un regalo. Dentro una busta di carta. Il Diálogo con Borges di Victoria Ocampo, edito dalle edizioni di Sur nel 1969, cinquant’anni fa. Che regalo! In Italia il libro è stato pubblicato da Archinto, qualche anno fa. Per la prima volta, la Ocampo scava nella genealogia di Borges. “Nella sua famiglia ci sono diversi soldati e comandanti: crede che questo abbia avuto un ruolo nella sua vita, nella sua letteratura?”, chiede Victoria. E Borges, sornione, “Nella mia vita non lo so, nella letteratura sì. Non mi ha mai abbandonato la nostalgia di vivere quel destino epico che le divinità mi hanno negato, saggiamente, senza dubbio”. In un altro punto, si tocca l’intimo. “Non ho mai pensato di diventare famoso. Né di essere amato. Pensavo che essere amato fosse una specie di ingiustizia: non credevo di meritare alcun amore speciale e ricordo la vergogna, durante il mio compleanno, di ricevere tutti quei regali per cui non avevo fatto nulla, era una specie di impostura, non li meritavo”. Torno a Sylvia. “Oggi vengono da me e mi chiedono di pubblicare. Non si attende al linguaggio, non ci si imprime dentro un’opera. Ora la letteratura mi pare per lo più marketing”. Non si lamenta, come tutti, ha luce il suo viso.

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Dopo aver incontrato dei “burocrati della cultura”, come dice lei, disinteressati alla letteratura ma preoccupati del ‘business’ editoriale, la Iparraguirre non si scompone. “Che incontro interessante”, fa. Io, sconsolato, le chiedo, perché? “Li metterò in un mio racconto!”. E sorride. Così, la letteratura riscatta tutto. (d.b.)

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