
“Domani” è già passato. Ovvero: perché uno scrittore si ostina a essere contemporaneo?
Opinioni
Antonio Coda
Del romanzo ne parlava da anni. Di un romanzo che raccogliesse la sfida della crisi radicale, intendo – non siamo più gli spavaldi ‘nichilisti’ di primo Novecento, che godono nel danzare sull’abisso, siamo nel precipizio, arresi al niente, e neppure ce ne accorgiamo, basta lo stipendio a decuplicare i sorrisi. Un romanzo che – senza infingimenti estetici e figliolanze sperimentaliste – si radicasse nella Storia, irradiando la storia di una teoria di personaggi. Storico e critico della letteratura (l’imponente ciclo La poesia del Novecento, in cinque volumi), poeta (Attestato), Giuliano Ladolfi, che quest’anno compie settant’anni, è marmorizzato nella generosità: nel 1996 fonda, insieme a Marco Merlin, la rivista “Atelier”, fucina di talenti della poesia contemporanea, che oggi, in perpetua evoluzione, è diventata “International”. Il gesto critico di Ladolfi, lucido, si somma alla virtù umana: non si è mai sottratto al consiglio, alla lettura, all’incoraggiamento allo studio. Letteratura come spina vitale, come slancio alla luce, vigore nell’esistere. Qualche anno fa Giuliano Ladolfi diventa anche Giuliano Ladolfi Editore, cioè uno dei rari spazi editoriali in cui la poesia e una saggistica fuori dagli schemi consueti – claustrofobicamente legati al redditizio, al reddito accademico – può esprimersi. Rompendo gli indugi, Ladolfi pubblica il suo romanzo, L’orlo del tempo, azzardato in modo doppio: nella visione formale – dal 1968 al 2008 s’intrecciano, per ‘drammi’, le storie gloriose e meschine di alcuni ragazzi – e nel concetto etico. Insomma, Ladolfi, dal sottosuolo che è il tempo presente, che è la vita con tutta la sua infamia, scava la luce, si ostina al bene. Un gesto quasi ‘rivoluzionario’, in un momento editoriale che premia il grigiore romanzesco, l’impegno immediato – cioè, senza prospettiva di pensiero – e il vagabondaggio nel malandrino maledettismo di quinta mano. “Siamo sull’orlo del tempo e vaghiamo come mosche cocchiere su un carro guidato da personaggi misteriosi”, mi dice Ladolfi, interpretando, con un candore letterario dai risvolti tragici, il millennio.
Intanto, perché quel titolo, “L’orlo del tempo”? Perché quel cerchio storico (1968-2008) che sembra un gorgo dove tutto è messo in discussione, dove un nuovo mondo s’avvia, s’avvalora sulle ceneri dell’altro?
Le tre domande si integrano e si completano: sono convinto che stiamo vivendo un’epoca di profondi cambiamenti, non unica, ma sicuramente singolare. Mi ha sempre affascinato il passaggio dal Medio Evo all’Umanesimo-Rinascimento, durante il quale sono stati mutati i paradigmi di interpretazione del mondo, della realtà e dell’esistenza umana. Se prima ogni aspetto interpretativo verteva sull’Eterno, dopo si è spostato sull’uomo. Ora, ho scorto diverse analogie con il periodo in cui si svolge la vicenda narrata nel romanzo: si consuma la crisi della Modernità e siamo entrati nella Postmodernità o Età Globalizzata, come ho chiarito nel primo tomo del testo “La poesia del Novecento: la poesia dalla fuga alla ricerca della realtà”. Questo è il momento storico in cui si consumano gli esiti della crisi della civiltà occidentale, iniziata durante il Seicento, quando cioè è stata distrutta la sintesi classico-cristiana. Dopo i falliti tentativi di ideare una spiegazione sui quesiti esistenziali, operati dall’Illuminismo, dal Romanticismo, dal Positivismo, ci si è accorti che l’uomo non è più in grado di capire se stesso e il mondo, per cui si perde ogni punto di orientamento, perché non si conoscono più i motivi dell’esistenza propria e del realtà. Si tratta di una crisi di senso. Dopo la consapevolezza maturata nella fase del Decadentismo e durata fino agli Anni Settanta del secolo scorso, attraverso la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione delle ideologie siamo entrati in una fase “liquida” (Z. Bauman) e non abbiamo ancora trovato la rotta su cui incamminarci anche perché la globalizzazione economica, migratoria, tecnologica e informatica sta ponendo all’umanità problemi sconosciuti per i quali non sono state ancora elaborate categorie interpretative. Il problema principale odierno non è soltanto quello ecologico, sociale, politico, culturale; il problema fondamentale assume carattere epistemologico e sta alla base di ogni altro problema: il senso della nostra esistenza. I personaggi del racconto vivono in se stessi questa crisi, si arrovellano per capirla, sono instabili, profondi e superficiali, esplorano, ma sbattono la testa contro una realtà indecifrabile.
Diverse possono essere sfaccettature interpretative. Il lato storico va individuato nel periodo che va dal 1968 al 2008 con i relativi cambiamenti economici che comportano il passaggio da un mercato nazionale a un mercato globalizzato; quello sociale con il mutamento dei rapporti tra le generazioni; quello gnoseologico contraddistinto dall’irruzione del relativismo, che rimette in crisi millenarie certezze; quello letterario che dalla tradizione attinge gli strumenti per una rappresentazione postmoderna. Il profondo mutamento viene colto in modo particolare nelle problematiche presentate che vanno dall’educazione all’affettività, ai rapporti interpersonali e familiari, al lavoro, alla religiosità, alla vita e alla morte, mediante un’introspezione psicologica, in cui la luce delle certezze si attenua in un grigio indistinto, secondo il quale il bene e il male si sovrappongono in modo inscindibile. Non si tratta di avanzare nuove interpretazioni del mondo, ma di portare alla luce il tragico smarrimento di ogni certezza, il quale corrode l’animo dei protagonisti, segnati da vicende personali meravigliose, esaltanti e contemporaneamente meschine e deprimenti, capaci di mettere a nudo l’intima contraddittorietà dell’essere umano e dell’attuale periodo storico.
Mi pare un romanzo sulla ‘condizione umana’ (mimo Malraux) e sul ‘tramonto dell’Occidente’: è così?
Sì, il nucleo è proprio la condizione umana al tramonto dell’Occidente, i cui valori rivelano tutta la loro fragilità e non perché non siano validi, ma perché la contingenza storica li mette in discussione: famiglia, educazione, religione, cultura, rapporti sociali. Non dimentichiamo poi anche la relazione con noi stessi, riveduta e corretta da un secolo di psicanalisi, di studi e controstudi su ipotesi verificabili e non verificabili. Siamo sull’orlo del tempo e vaghiamo come mosche cocchiere su un carro guidato da personaggi misteriosi; ci sono sconosciuti i motivi del viaggio, la durata e la meta, come il viaggiatore cerimonioso di Caproni. Siamo soltanto certi di essere in cammino.
Uno storico della letteratura, un interprete della letteratura contemporanea, un poeta e un traduttore che scrive un romanzo: perché? Quali scrittori leggi per affinare il tuo stile? Percepisco che avevi da dire alcune cose che né la forma saggistica né quella poetica riuscivano ad esaurire, è così?
Chi ha letto i miei scritti, sia i saggi sia le poesie, non faticherà trovare analogie con il romanzo al punto che i diversi testi si possono integrare e chiarire a vicenda. Perché un romanzo allora? Perché desideravo che il mio pensiero si “incarnasse” in personaggi, in vicende, in relazioni, i rapporti. La critica letteraria offre la possibilità di razionalizzare il nostro pensiero. La poesia lo folgora in esplosioni che richiedono occhi esperti e profondi del lettore. Il romanzo, come il cinema, li espone ai nostri occhi in tutta la complessità di una realtà contraddittoria e sempre emergente. Mi sembra di vederli vivere, operare, gioire, soffrire, interrogarsi, parlare, tacere, macerarsi… Il romanzo è una rappresentazione in movimento a tutto tondo, a colori. I protagonisti, Valentino, Luisa, Guido, Andrea, Gabriele, Giulia, sono persone che vivono nelle proprie vicende il travaglio della fine di un’epoca nella ricerca di nuovi orizzonti di umanità, di valori e di senso.
Gli scrittori che hanno segnato la mia vita sono i grandi romanzieri classici: russi, francesi, tedeschi, inglesi, americani, sudamericani, giapponesi, la grande scuola manzoniana e verghiana, come pure i nostri neorealisti e l’Umberto Eco del Nome della rosa… Ricordo soltanto che durante gli anni della scuola media ho divorato tutta la biblioteca del collegio in cui studiavo.
Estrapolo una frase. “Ogni tanto nella nostra vita occorre ‘fare deserto’, chiuderci in noi stessi e lasciare che le sensazioni interne vengano alla luce senza opporre resistenza”. Oggi non c’è deserto, c’è solo palco, palcoscenico. Qual è l’importanza del deserto?
Oggi c’è solo palcoscenico: tutti ambiscono al quarto d’ora di pubblicità, tutti aspirano a una vita di successo all’interno di una visibilità continua. Non si ammettono le sconfitte, le debolezze. Nei film, nei romanzi sembra prevalere soltanto la figura del vincente. “Uno su mille ce la fa” cantava Gianni Morandi. Ma gli altri novecentonovantanove che fanno? Sono degli esclusi, dei derelitti, degli sfiduciati e diciamo il 999 su 1000 e cioè praticamente tutti. Oggi, si ripete nel gergo calcistico, per trionfare, bisogna essere “cattivi”, farsi largo a gomitate. Nella vita, quindi, ci vuole una dose di malizia che aizza gli uni contro gli altri, come avviene nel settore economico, nello spettacolo, nella carriera ecc. Non si capisce che esistono altri modi per realizzare se stessi e le proprie doti: l’attenzione al prossimo, la riservatezza, l’amore, la bontà, l’affetto, la comprensione… Ecco perché, seguendo Agostino, ogni tanto è necessario uscire dal frastuono massmediatico e rifugiarsi in se stessi (“Redi in te ipsum. In interiore homine habitat veritas”). I nostri classici, greci e latini, una volta erano maestri di umanità, ora in senso contrario lo sono i vincenti. Il “deserto” prevede il recupero dei valori prettamente umani: il corretto rapporto con noi stessi, con il mondo, con gli altri, con i propri obiettivi, con il senso della vita, perché il problema attuale per la maggior parte di noi non è il cibo, ma l’apparenza, il consumismo, la solitudine.
Il romanzo mette il dito nella distruzione di tutti i valori che hanno costruito le fondamenta della civiltà europea. Cito ancora un passo. “La famiglia da comunità educativa è diventata comunità affettiva e i genitori riversano su di loro speranze e frustrazioni. Non è giusto che i veri educatori siano i nonni”. Che fine ha fatto la famiglia, cosa è diventata? E cos’è l’amore?
Non è una novità che la famiglia sia in crisi, come pure l’educazione. Il mutamento del modello familiare ha influito sul rapporto con i figli. Tale situazione non comporta affatto una valutazione negativa e un rimpianto del passato. Il mutamento epocale è una realtà con la quale occorre rapportarsi. Il problema educativo odierno non va affrontato singolarmente, ma, nell’età della comunicazione informatica e massmediatica, coinvolge l’intero sistema sociale. La crisi della famiglia si basa sulla crisi di identità del singolo genitore che con difficoltà avverte la responsabilità educativa, distratto da mille altre preoccupazioni e occupazioni, come il lavoro, il divertimento e l’evasione. “Che fine ha fatto la famiglia?” Questa domanda rimanda a un’altra domanda: quale tipo di famiglia? Le parole stesse non veicolano più un senso comune. E poi, come possiamo pensare che i nostri ragazzi costruiscano una personalità salda, se accanto a genitori in difficoltà si pone la possibilità d’accesso a un sistema di comunicazione, il cui fine fondamentale è il risultato economico e non il valore della persona? E l’amore? Anche in questo caso: quale tipo di amore nella società “liquida”? Con ciò non si nega affatto la speranza: ai giovani viene delegato il compito di prospettare un nuovo tipo di identità dell’adulto, come in fin dei conti tentano Gabriele e Andrea.
Parlo della tua esperienza da editore, eccitante, credo, ma difficilissima. Cosa è diventata la cultura, il senso della cultura, la poesia in questo ultimo ventennio? Ti faccio un esempio. Alcuni autori della cosiddetta ‘generazione decisiva’ (Temporelli, Ielmini, Ponso, Turina) decidono, consapevolmente, di ‘farsi fuori’ dai giochi letterari che contano, altri giocano la propria estetica con gesto feroce (così era in “Atelier”, ad esempio), non certo istituzionale. Insomma, si percepisce, da anni, che un’era è finita… però… il teatrino continua. Commenti.
Ai due significati tradizionali di “cultura”, uno elitario di patrimonio artistico e letterario acquisito tramite lo studio e un secondo come complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico, si è aggiunto un terzo come “promozione dei beni di consumo”: la cultura è diventata veicolo di business e assoggettata, come quasi tutte le manifestazioni umane, al mercato. All’esame della situazione attuale della poesia abbiamo dedicato due convegni nazionali (Firenze 6 febbraio 2017 e Milano 12 aprile 2018), i cui atti sono stati pubblicati nel testo La fucina della poesia (2018). A fronte di circa due e più milioni di scrittori in versi è difficile trovare due decine di migliaia di lettori di pubblicazioni contemporanee. Le grandi case editrici raramente investono in questo settore, i mass media vi dedicano pochissimo spazio. È un avvenimento quando la radio o la televisione presentano un poeta, un vero poeta e non un cantautore. L’università molto raramente ne fa oggetto di studio. I giovani non conoscono neppure i nomi dei poeti viventi. L’attuale grande produzione è diventata “invisibile”. «Atelier» fin dalla fondazione (1996) ha proposto e propone un altro modello di poesia, fondata sul valore della persona umana come essere individuale e sociale. E proprio questo tipo di poesia, soggetto all’emarginazione, nella società “emporiocentrica” costituisce una vera e propria forma di “resistenza” all’effetto di commercializzazione che ha invaso altre forme d’arte, come la pittura, la scultura, la narrativa, la musica, e si pone come valore morale accanto alle virtù civiche e culturali, alla fiducia reciproca, al senso del dovere, che costituiscono il vero collante per quegli elementi che costituiscono la società civile.
Se il “consumatore ideale” o produttore di poesia oggi possiede estrema libertà di scrittura e si adatta a schemi sentimentali, avanguardisti, espressionisti, sperimentali e se possiede estrema libertà di pubblicazione e di promozione (pubblicazioni in proprio, pubblicazioni senza selezione, reading, presentazioni, blog, giornali online, siti personali ecc.), la rivista «Atelier» propone una poesia in cui è presente il segno dell’intero essere umano, del suo trovarsi nel presente, del suo essere storia, individuo, cultura e civiltà, della sua attitudine a progettare il futuro e soprattutto della sua necessità di interrogarsi sui quesiti esistenziali, della relazione con se stesso, con gli altri e con il mondo. Come si è rapportata e si rapporta la generazione “decisiva” all’interno di questa prospettiva? In effetti, il gruppo che durante il primo decennio del secolo ha operato in redazione si è sciolto, ma questo non significa che non sia più operante. I germi seminati durante quel periodo vivono e vegetano nei loro lavori. È venuto meno lo spirito “militante” e rinnovatore che lo aveva animato in quel periodo non solo con la condivisione di prospettive estetiche e poetiche, ma soprattutto con i vincoli di amicizia e di collaborazione, come testimoniano gli incontri di redazione, i convegni, gli incontri personali. I frutti sono però visibili: in seguito alle dimissioni di Marco Merlin, un altro gruppo redazionale ne ha accolto l’eredità all’inizio del 2015 e continua in modo entusiastico quel lavoro, anzi sta ampliando gli orizzonti poetici e culturali coinvolgendo online altri settori geografici mediante la rivista Atelier International (atelierpoesia.it), redatta quasi tutta in inglese e diretta da Francesca Benocci. Il sogno di una poesia “a misura d’uomo” sta invadendo l’intero pianeta.