Se era una provocazione è riuscita decisamente male. Se era un’intenzione seriosa il risultato indica sfasature e approssimazioni non comprensibili per un poeta di primo piano che personalmente stimo. A Cesare Viviani riconosco due o tre libri notevoli: L’amore delle parti (Mondadori 1981); Le forme della vita (Einaudi 2005); Credere all’invisibile (Einaudi 2009). Sono al di sopra di ogni sospetto perché nel mio libro di saggi più corposo che abbia pubblicato, Tra due secoli (Neftasia 2007), Cesare Viviani ha uno spazio di rilievo insieme a pochissimi altri poeti del nostro tempo. Il saggio che il senese, psicoanalista di professione, ha appena consegnato alle stampe, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… (Il Melangolo 2018), assomiglia all’oroscopo egizio del Dio della guerra e delle tempeste. Se ogni poeta ha tabù e antipatie, prelazioni e idiosincrasie, Viviani sembra essere scivolato nell’imprudenza della non definizione del suo stesso lavoro, come se il mistero di Dante e Petrarca, di Leopardi e Montale fosse qualcosa di criptico, al punto tale da rimanere irrelato, non codificato, quindi non convenzionale.
Non è vero che la poesia non si spiega. La si può non capire, ma la si può certamente interpretare. Che cos’è la poesia? Innanzitutto un linguaggio anacronistico. Basterebbe questo per inquadrarla sommariamente e per sfuggire alla retorica della diffidenza e dell’indistinguibile oggetto sotto gli occhi di qualche curioso lettore. Non è forse nell’elastico vita/morte che il tempo contrassegna, che la poesia si distingue in uno dei suoi inalienabili archetipi? Se fosse vero che “le disgrazie della vita di un poeta non possono diventare motivazioni dirette o contenuti espliciti della poesia”, non avrebbe senso una raccolta tra le più celebrate di questi giorni: Dolore minimo (Interlinea 2018) di Giovanna Cristina Vivinetto, accolta con netto favore dalla critica. Ma basterebbe pensare a Tema dell’addio (Mondadori 2005) di Milo De Angelis; a Duetto per voce sola (Einaudi 2008) di Alberto Bevilacqua; ad Antenate bestie da manicomio (Manni 2008) di Alda Merini, i primi tre libri che mi vengono in mente. Potrei continuare con una lunga sequenza di opere che hanno come vertice la sofferenza fisica e psichica vissuta sulla propria pelle. Se dovessimo marcare la narrativa del Novecento italiano, Primo Levi sarebbe una garanzia indiscutibile per chiunque e smentirebbe categoricamente l’antefatto di Cesare Viviani.
Leggo da La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che…: “L’autobiografia non può mai essere poesia, né quella confessata, manifesta ed esplicita, né quella occultata”. Cosa sarebbero, allora, i versi livornesi di Giorgio Caproni contenuti nella raccolta Il seme del piangere (uscita nel 1959 da Garzanti) dedicati alla giovane madre, Anna Picchi, inseguita nella memoria, nel vento, nel passato che si apre all’adesso? “Porterà uno scialletto/ nero, e una gonna verde./ Terrà stretto sul petto/ il borsellino, e d’erbe/ già sapendo e di mare/ rinfrescato il mattino,/ non ti potrai sbagliare/ vedendola attraversare”. Versi di anima e memoria struggenti, suggellati da una malinconica autobiografica che si immerge nel rifiorire continuo della vita, in una suggestione cedevole proveniente da un mondo sepolto e riportato alla luce, in un nucleo tematico soggettivo e universale, in un canzoniere d’amore per la figura materna che suscita una specie di potere incantatorio, dolcissimo.
La stravaganza di Cesare Viviani continua quando si lamenta del fatto che i poeti dai venti ai quaranta anni non valorizzerebbero il lavoro dei più anziani. Ci sono critici che lo fanno con un impegno serio e meticoloso, mai remunerato, sensibili alle poetiche in labirinti come quelli odierni dove è difficile mettere le mani e dove le poetiche sono affastellate, quindi non facilmente comprensibili e catalogabili. Ma quanti sono i poeti di lungo corso che si occupano dei giovani, che sono considerati tali anche a cinquant’anni? Vorrei ricordare a Cesare Viviani che almeno due generazioni di autori (quelli nati negli anni Sessanta e Settanta), a differenza della sua generazione, non sono mai prese in considerazione e non è mai stato scritto un elaborato compiuto che le monitori (se si eccettua, in parte, Poeti nel limbo di Marco Merlin uscito da Interlinea nel 2005).
La poesia può essere vuoto, ma anche pienezza (“il pieno del vuoto” direbbe Giacomo Leopardi) e non il nulla. Al punto tale che per Andrea Zanzotto, in un’intervista apparsa nel 2011 su “Avvenire”, la definiva (appunto, la definiva) “il massimo della speranza, dell’anelito dell’uomo verso il mondo superiore”. Dunque scopriamo un’ulteriore spiegazione, una retta parallela, spesso, al bisogno di contestualizzare ciò che si scrive (o si legge).
Che tra la poesia e la pappa ci sia la distanza di un millimetro, francamente non so cosa determini nell’intuizione di Viviani, così come che la visionarietà non sia un eccesso di visione, ma un “eccesso di accoglienza”. In realtà, molto più semplicemente, la visionarietà altro non è che un vedere ad occhi chiusi, cioè un sognare. Il fantastico, l’immaginifico, fa parte della poesia sin dalla nascita: è una parte essenziale della sua energia. È vero che la poesia, come un’anguilla, ci sfugge dalle mani, perché non può essere chiusa in uno schema, in un dettato, in un calcolo, così come ogni materia non oggettiva che si stacca dal principio di razionalità che la domina. Se Viviani afferma che la migliore scuola di poesia per imparare ad amarla, e magari anche a scriverla, è leggerne tanta, con intensità e lentamente, non ci si può fermare a Luzi, Sereni, Giudici, Zanzotto, Raboni, Gramigna, Porta ecc., perché la poesia avanza, silenziosamente, di generazione in generazione, modificando stile e linguaggio, al punto tale che qualcuno parla di fine della tradizione, mentre altri affermano esattamente l’opposto, cioè la forza di un neo-lirismo tra le giovani leve che si affacciano nel secondo decennio del secolo.
Non so neppure a quanto serva scrivere l’ennesima recensione, su grandi giornali, che riguarda il poeta canonizzato, storicizzato, sul quale sappiamo tutto tramite saggi, antologie, approfondimenti, tesi di laurea ecc., trascurando completamente le nuove uscite e le nuove generazioni. Nel 2018 non è il diritto di anzianità che può decidere le sorti della poesia, ma un inquadramento, come sostengo spesso, di tipo storico e geografico come si dovrebbe fare nei dipartimenti di italianistica. Del resto Carlo Dionisotti pubblicò proprio l’opera capitale Geografia e storia della letteratura italiana nel 1967. Vengo dalla terra di Franco Scataglini, le Marche, e sono cresciuto anagraficamente in una fase memorabile, negli anni Ottanta, in cui la residenzialità era diventata anche un modo di dire sulla direttiva Ancona-Urbino-Macerata: in una periferia diventata centro, come succede nella poesia e nella narrativa, dove un luogo fisico e letterario è alienato come qualunque altro.
Il critico militante si arrogherebbe la presunzione di essere onnipotente e valorizzerebbe il poeta che manca completamente di talento e di ispirazione, scrive Viviani. Di quali critici si sta parlando? Se sono critici militanti e non pseudo critici, o sedicenti mestieranti, sarebbe stato il caso di fare nomi e cognomi, di uscire allo scoperto senza lanciare l’amo e senza mettere in risalto una zona oscura che appartiene ad un mondo già di per sé nebuloso, intorbidendolo con un’accusa generica, demoralizzante.
In ultimo il consiglio di non partecipare alla chiacchiera diffidando di Internet. Non sono affatto d’accordo. I nuovi mezzi di comunicazione aprono spazi che altrimenti sarebbero chiusi e perduti. Quante riviste letterarie, creative, non potendo resistere nel cartaceo, dati i costi eccessivi, si sono trasferite sul web? “Pangea” è una nuova creazione, ma basterebbe ricordare “Anno Zero”, “Nazione Indiana”, “Atelier” (che fortunatamente conserva anche la versione cartacea). Gli spazi si sono moltiplicati: il punto di svolta sta nel saperli utilizzare bene, con la stessa competenza riservata alla rivista che usciva in edicola. Anche “Nuovi Argomenti”, fondata nel 1953 da Alberto Carocci e Alberto Moravia, sta avviandosi su questa via, più difficile da percorrere ma non meno interessante (la redazione online è affidata alla giovane poetessa e studiosa di letteratura italiana Maria Borio).
Non crediamo che il miglior consiglio da affidare ad un poeta sia di appartarsi, di starsene in silenzio, come se la valorizzazione rientrasse nel campo utilitaristico dell’ottenere qualcosa. Se così fosse non avrebbe senso neppure pubblicare libri di poesia e di critica. Non avrebbe senso organizzare incontri, festival e recital (che tolgono dall’agonia il poeta che non pubblica, che non vende, che non è conosciuto). Non avrebbero senso i premi ai quali tutti vorrebbero partecipare e che tutti vorrebbero vincere: dai poeti più celebrati agli esordienti. Dirigo da undici anni il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano” e ho assistito a poeti di calibro perdere con dignità, ad altri prendersela molto, ad altri ancora polemizzare e andarsene perché la giuria popolare li avrebbe ingiustamente penalizzati. Lo spazio sulla scena, se per Cesare Viviani è un male, per altri è una finalità, e non solo tra i giovani ai quali si rivolge. Quell’isola deserta a cui bisognerebbe approdare per la voce della poesia, temo che rimarrebbe ancora deserta, perché la distanza netta dalla comunicazione stessa, non fa il bene della poesia. Finisce inevitabilmente per affondarla nell’iconografia catacombale, in un vuoto storiografico a disposizione solo degli addetti ai lavori. Uscire dai sepolcri dovrebbe essere un imperativo.
Cesare Viviani manda un caro saluto e una raccomandazione, alla fine del suo libro: “quella di non adirarvi e non angosciarvi se qualcuno critica le vostre poesie e le considera solo scrittura in versi”. Nessuno si adirerà e si angoscerà. Probabilmente, nella percezione del limite, nessuno ascolterà e acconsentirà, leggendo questa lezione. Con buona pace del poeta che ha compiuto 70 anni.
Alessandro Moscè