16 Dicembre 2019

Arthur Rimbaud, il poeta che superò se stesso fino ad annientarsi

Anzi tutto, il fuoco. Ovunque. Un incendio. “Il poeta è veramente ladro di fuoco”, scrive Arthur Rimbaud, è il 15 maggio 1871, all’amico Paul Demeny. Proprio a lui, neanche un mese dopo, il 10 giugno, chiederà di verificare nel fuoco i versi che gli ha consegnato, “bruci, lo voglio… bruci tutti i versi che fui abbastanza stupido da darle”. L’opera va raffinata nel fuoco: da Virgilio a Kafka, transitando per Rimbaud, ignifugo alla vecchiaia, è lì l’ogiva dell’enigma. Il creatore vuole infuocare la creazione: gli sopravvivrà? Le ustioni della Stagione all’inferno, le braci, i bagliori e le comete delle Illuminazioni: Rimbaud, un incendio, incenerisce la grammatica per forgiare l’inaudito (“l’opera non risponde a una tipologia fissa né trova riscontri nei modelli letterari del tempo” è scritto di Une saison en enfer; opera “quasi senza retorica e senza legami” di “un poeta del tutto indipendente” sono le Illuminations secondo Jules Laforgue). Un certo disinteresse verso la fama, la sfiducia nei posteri, una insicura violenza, la violazione di ogni gineceo letterario, l’insoddisfazione, sono caratteri poetici distintivi di Rimbaud. Egli guarda alla letteratura – anche alla propria – e vede stagioni aride, campi bruciati, estasi disseccate. Rimbaud è l’estate, lo sfinimento, lo sfogo della fenice. “Non godette di fama durante la sua attività letteraria… perché si disinteressava del suo lavoro, avendo più volte superato o rinnegato alcune fasi del proprio percorso”; “L’insoddisfazione è al cuore del lavoro poetico di Rimbaud, e forse della sua stessa vita. Nasce dalla difficoltà di raggiungere obbiettivi troppo esigenti, ma anche dai continui mutamenti di questi ultimi. Essa è conseguenza di un costante bisogno di superarsi, e di misurarsi con le proprie forze”, scrive Olivier Bivort, professore di Letteratura francese a “Ca’ Foscari”, che ha curato l’edizione delle Opere di Rimbaud appena edita da Marsilio (la traduzione è di Ornella Tajani). Continua ad avere una urgenza primordiale, Rimbaud, tocca la cruna della fame, queste Opere sono una torcia per torchiare le resistenze della nostra anima (“Sul pendio della scarpata gli angeli fanno roteare le vesti di lana fra i pascoli d’acciaio e di smeraldo”). D’altronde, il fuoco non chiede, accade – e non condivide la biliosa distanza tra alba e tramonto, lega le cose, frantumandole. Il formato di questa edizione è perfetto, la dedizione accuratissima: potete stiparlo nella giacca e andare alla conquista del mondo, per perdervi e ritrovarti, chissà dove. (d.b.)

Domanda preliminare. Mi riassuma in cosa consiste la ‘novità’ di questa edizione delle Opere di Rimbaud, e la necessità di una ritraduzione. 

L’ultima edizione italiana delle opere risale al 1992, ed è esaurita (tra l’altro non era del tutto originale: si trattava della traduzione/adattamento delle opere complete per la “Bibliothèque de la Pléiade” francese, a cura di Antoine Adam, risalente al 1972). Le edizioni delle opere “complete” (nessuna, tranne la ‘Pléiade’ Einaudi è realmente completa) disponibili nel catalogo italiano sono ancora più datate: Margoni (Feltrinelli) è del 1963, Bona (Einaudi) del 1973, Grange Fiori (Mondadori) del 1975, Bellezza (Garzanti) del 1983… Passati quaranta anni e più, non solo è cambiata la struttura dell’opera, ma anche le prospettive critiche che la animano. Diamo oggi al lettore italiano la possibilità di leggere tutte le poesie di Rimbaud (compresi i versi latini, i pastiches o i versi «osceni», una parte importante della corrispondenza, ma anche gli ultimi testi scoperti recentemente (Il sogno di Bismarck, la lettera a Andrieu), per la prima volta presentati in Italia. Rispetto ai commenti delle edizioni precedenti, generalmente fondati su due edizioni francesi di riferimento (quella di Suzanne Bernard del 1960, quella di Adam del 1972), il nostro lavoro prende in conto gli ultimi sviluppi critici, particolarmente vivi dagli anni Novanta in poi, ma senza imporre una griglia interpretativa preconcetta: abbiamo cercato di dare strumenti di lettura atti a favorire la comprensione dei testi, proponendo una lettura articolata di ogni componimento, confrontando i testi nell’ambito dell’opera complessiva e evitando forzature ermeneutiche di tipo biografica/simbolica/psicanalitica ecc. Il testo rimane sempre al centro del nostro commento. La nostra edizione fornisce anche tutte le garanzie filologiche legate a un’opera rimasta quasi interamente manoscritta: il testo di ogni componimento è stato verificato sui manoscritti e una breve (ma completa) descrizione di tutte le versioni esistenti, corredata dall’indicazione dei facsimile disponibili, è posta a capo di ogni commento. Infine, abbiamo scelto di strutturare l’opera seguendo un criterio cronologico, onde evitare forzature nell’aggregare i componimenti secondo immaginarie “raccolte” mai previste dall’autore, come si è verificato in alcune edizioni francesi recenti. Per quante numerose, le traduzioni italiane esistenti sono fortemente legate al periodo storico al quale appartengono, e risentono di un’impostazione linguistica propria del linguaggio poetico italiano (e non solo della versificazione, qualora le poesie vengono adattate alle forme metriche italiane): abbiamo voluto dare voce a Rimbaud in italiano, conservando i tratti formali che ne costituiscono l’originalità in francese (senza piegarli all’uso comune italiano): laddove Rimbaud risultasse prosaico, tecnico o addirittura volgare, laddove la sua sintassi risultasse ellittica o al limite della grammaticalità, ci è sembrato giusto che il lettore italiano né cogliesse la singolarità. Il risultato è un Rimbaud rinfrescato, le cui innovazioni appaiono chiaramente nella traduzione (vedi la Nota alla traduzione di Ornella Tajani).

Nella sua introduzione sottolinea l’“orfanità primordiale”, l’eterna rincorsa nel gorgo della vita, “l’insoddisfazione… al cuore del lavoro poetico di Rimbaud”. Pare che Rimbaud scriva annientando. Qual è il carattere prioritario dell’opera di Rimbaud e quale la poesia che, a rileggerla, la ha entusiasmata, con rinnovata forza?

Non mi pare ci sia un “carattere primordiale” nell’opera di R: è così diversificata, così rapida nel ricostruirsi mesi dopo mesi… Ho voluto insistere sul fatto che è portata da una forza singolare per cui il poeta tende costantemente a superare se stesso e a distinguersi dai modelli del suo tempo (si potrebbe riassumere con la formula della lettera del “Veggente”: “la poésie sera en avant”); d’altro canto, questo sforzo immane cozza contro l’insoddisfazione e il sentimento del fallimento, proprio a chi non si arrende mai, non si accontenta mai: ne risulta una poesia in tensione, sempre in procinto di disfarsi, di annientarsi (tranne nei primi versi, forse, quando il ragazzo si esalta ancora davanti alle sue creazioni). È la via seria della letteratura, quella, dell’ostacolo e del rifiuto del proprio compiacimento; impresa non sopportabile a lungo, di cui, forse, l’esaurimento. Per quanto mi riguarda (ma non ha evidentemente nessuna importanza dal punto di vista critico), mi meraviglio sempre leggendo i versi del 1872.

La poesia di Rimbaud, l’insurrezione parigina del marzo 1871: quanto nell’opera del poeta influisce l’utopia, la ‘politica’, il desiderio di una società nuova, da raccontare con una poesia ‘altra’?

Di carattere ribelle e indipendente, R ha trovato negli ideali della Comune una possibile risposta al proprio desiderio (o impulso) di cambiamento sociale e umano: ricordiamo il contesto familiare e provinciale in cui è cresciuto, cattolico e borghese, oggetto di un suo rigetto permanente. Che poi la possibilità di una poesia “nuova” si sia sviluppata in un clima di grande mutamento politico, è in gran parte vero (vedi le lettere del veggente, datate proprio maggio 1871), ma non ne farei una diretta conseguenza: egli non si è dato alla letteratura militante, e la sua azione si fonda soprattutto su un rifiuto dell’ordine (di qualsiasi ordine), e su aspirazioni idealistiche di armonia universale. Non è un filosofo, non è un ideologo, non è un sociologo: è un poeta assoluto (l’aggettivo è di Verlaine) che sogna di toccare le corde essenziali del desiderio, e di sperimentare in prima persona tutte le vie d’accesso alla perfezione, compresa quella rivoluzionaria.

Mi colpisce sempre un aspetto: i poeti che hanno fondato la lirica del proprio e dei tempi a venire, non hanno pubblicato, o sono stati indifferenti alla fama. Penso a Friedrich Hölderlin, a Emily Dickinson, a Rimbaud, che chiede all’amico Paul Demeny di ardere i versi che gli ha donato. Sembra la Storia neghi la voce al poeta. Quanto è stato importante Verlaine perché di Rimbaud restasse memoria? 

Non è azzardato affermare che, senza Verlaine, la nostra conoscenza dell’opera di Rimbaud sarebbe molto limitata. Non solo perché Verlaine conservava numerosi componimenti di Rimbaud, sia autografi sia copiati, ma perché egli si adoperò per salvaguardare la memoria dell’amico, raccogliendo testi sparsi, e curandone le prime edizioni: le Illuminations nel 1886, le Poésies complètes nel 1895. Basti pensare che la poesia più celebre di Rimbaud, Le Bateau ivre, ci è giunta solo grazie a una copia fatta da Verlaine nel 1871; basti ricordare che l’autore dei Poètes maudits era stato il depositario del manoscritto delle Illuminations, o che la Saison en enfer fu ristampata nel 1886 proprio grazie alla copia che Rimbaud, nel 1873, gli aveva dedicata. Ma Verlaine fu anche il primo “critico” di Rimbaud, contribuendo non poco a fissare l’immagine del genio adolescente che imperversa tutt’ora. Malgrado i diverbi e i colpi di rivoltella, il ricordo degli anni passati assieme e l’impareggiabile qualità degli scritti di Rimbaud hanno spinto Verlaine a difenderne e a promuoverne l’opera, intervenendo a più riprese nella stampa per correggere errori, denunziare falsi o pubblicare versi appena riscoperti.

Comincia l’introduzione citando Papini che esalta Rimbaud: d’altronde Soffici, nel 1911, scrive la biografia del poeta francese. Che ruolo ha avuto Rimbaud nella poesia italiana, che pure non ha avuto ‘un Rimbaud’?

Forse si potrebbe riconoscere in Campana un Rimbaud italiano, anche se, a parer mio, non ha molto senso ricercare equivalenti nazionali nel campo dell’arte. Ciononostante, c’è stato molto presto un interesse per Rimbaud (e per i cosiddetti poeti simbolisti francesi) in Italia: si pensi all’azione di Vittorio Pica, già a metà degli anni 1880: è a Pica, ad esempio, che si deve il primo commento a Voyelles! Ma è una voce isolata: la polemica antidecadente che si manifesta in Italia ha dalla sua parte importanti critici come Arturo Graf, che condanna ad esempio la “vacuità” della poesia francese. Due mi sembrano i principali motivi che spiegano il manifestarsi tardivo di una modernità poetica pari a quella francese in Italia: da una parte, il fatto che la poesia italiana sia stata molto più a lungo di quella francese ligia ai dettami normativi: solo con d’Annunzio e Pascoli si vedono i segnali di una certa autonomia formale. D’altra parte, la volontà di costituire una letteratura nazionale e civilmente responsabile dopo il Risorgimento ha probabilmente frenato in Italia la costituzione di una poesia fortemente individualistica come quella francese. Sicché la ricezione italiana “positiva” dell’opera di Rimbaud risulta assai tardiva: è frutto delle avanguardie storiche e in particolare degli scrittori fiorentini operanti nella “Voce” e in “Lacerba” alla vigilia della prima guerra mondiale. Aggiungiamo che, dal punto di vista critico poi, l’impronta di Croce (ostile al simbolismo e all’idea di poesia “pura”) ostacolerà in Italia la pratica di una tale poesia.

“Io è un Altro”; “sfasamento di tutti i sensi”: come dobbiamo intendere le ‘regole’ poetiche di Rimbaud? L’interpretazione ha dato esiti disparati: dalla lettura di un Bonnefoy a quella di Patti Smith a quella dei ‘maledetti’ della domenica. Intendo: la leggenda di Rimbaud, a tratti, ha vampirizzato Rimbaud. 

Le affermazioni di R sulla poesia in generale e sulla sua in particolare vanno esaminate nel contesto in cui vengono fatte, e non utilizzate à tort et à travers come formule passe-partout: il nostro ha il dono e il piacere della formula, è evidente, ma il suo è un itinerario così stringente e così mutevole che esse hanno un significato limitato e si riferiscono a principi le cui applicazioni vanno verificate puntualmente nei testi: non si può ignorare, ad esempio, che il programma delle “lettere del veggente” sia interamente prospettico, o che i giudizi espressi in “Alchimie du verbe” siano, invece, tutti rivolti a una situazione passata. Nel 2013, è stato organizzato a Venezia un convegno proprio su quell’argomento (Rimbaud poéticien, Classiques Garnier, 2015). Quanto all’impatto della “leggenda”, penso sia inevitabile: dura da decenni (vedi l’indispensabile libro di Etiemble: Le Mythe de Rimbaud, già nel 1954!) e non accenna a diminuire: la nostra è un’epoca di icone, di “influencer” ma, per fortuna, Patti Smith non è Chiara Ferragni!

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